Giovanni Carlo Federico Villa
Venezia, l'altro Rinascimento
1450-1581
Torino, Einaudi, 2014
Un consiglio
Se volete un consiglio, leggete
‘Venezia, l’altro Rinascimento’ con accanto un pc o un tablet, ed ogni volta
che viene citata un’opera prendetevi trenta secondi per visualizzarla. Perché
l’unico grande limite di questo volume è quello di essere un libro in senso
tradizionale; mentre dovrebbe essere qualcosa che ancora non esiste, ma che
prima o poi arriverà. Non un e-book, ma un libro con dei link (oggi vanno di
moda i QR-code) che permettano di osservare l’immagine ad alta definizione.
Il grande rischio di ‘Venezia,
l’altro Rinascimento’, infatti è di essere un’opera che rilegge un secolo in
maniera deterministica, applicandovi un modello interpretativo contemporaneo.
Nulla di tutto ciò avviene e l’autore ci riesce ponendo costantemente a
verifica le sue pagine in rapporto ad un intreccio di almeno tre elementi: il
fatto storico (ad esempio gli anni orribili successivi alla battaglia di
Agnadello del 1509), l’ambiente e la predisposizione culturale (in cui si può
dire che risieda il vero “essere altra” di Venezia rispetto al resto d’Italia;
città predisposta per natura al commercio, alla mercatura, alle contaminazioni
e alle rielaborazioni) e, infine, il riscontro puntuale sui quadri, sulle
architetture, sulle sculture, i tessuti, gli apparati e quant’altro. Senza
vederli (è vero che la parte finale dell’opera presenta cinquanta schede
monografiche dedicate ad altrettante opere illustrate, ma qui stiamo parlando
di centinaia, forse di migliaia di testi pittorici) rischiate di perdere il
filo del discorso. Sicché il libro rischia di essere una grande incompiuta:
un’opera di divulgazione magistrale che parla di una civiltà artistica che però
il lettore dovrebbe già conoscere a memoria.
Come il Trittico dei Frari
Il volume è suddiviso in
capitoli, ognuno dei quali ha come estremi (tranne in un caso) un’opera che può
essere considerata uno snodo cruciale nella storia artistica della civiltà
artistica veneziana. Li ricordiamo uno ad uno:
- Dalla cappella Ovetari alla “Pala dell’Incoronazione” (1450-75)
- Dall’arrivo di Antonello a Santa Maria dei Miracoli (1475-89)
- Dai “Miracoli della Vera Croce” al “Cavallo” (1490-99)
- Da “Venetie MD” alla “Festa del rosario” (1500-506)
- Dagli affreschi del Fondaco dei Tedeschi alla “Pala Pesaro” (1509-26)
- Dall’arrivo di Sansovino al “Miracolo dello schiavo” (1527-48)
- Dal ciclo di Ester alla visita apostolica (1553-1581)
In realtà pensando a tale
scansione mi è venuta in mente un’opera di cui Villa parla (ovviamente) nel
volume e che sembra quasi progettata in maniera analoga: il cosiddetto Trittico dei Frari che Giovanni Bellini
compone nel 1488 per la chiesa francescana di Santa Maria Gloriosa dei Frari
(si trova ancora lì).
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Giovanni Bellini, Trittico dei Frari, 1488, Santa Maria Gloriosa dei Frari, Venezia |
Si tratta di un trittico che, a
prima vista, potrebbe sembrare non “modernissimo” nel momento in cui viene
eseguito. Già Bartolomeo Vivarini, vent’anni prima, ha superato l’impaginazione
tradizionale del polittico per passare alla “pala unificata” (si veda la Madonna in trono oggi a Capodimonte).
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Bartolomeo Vivarini, Madonna in trono tra santi, 1465, Museo di Capodimonte, Napoli |
Antonello da Messina ha già
eseguito la Pala di S. Cassiano (oggi conservata sventuratamente mutila a
Vienna).
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Antonello da Messina, Pala di San Cassiano, 1475, Kunsthistorisches Museum, Vienna |
E soprattutto lo stesso Bellini
ha già prodotto dieci anni prima quell’autentico capolavoro che risponde al
nome di Pala di S. Giobbe (Gallerie dell’Accademia).
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Giovanni Bellini, Pala di San Giobbe, 1478, Gallerie dell'Accademia, Venezia |
Eppure non c’è discorso più
unitario del Trittico dei Frari, in
cui testo pittorico e cornice (sicuramente originale e senza dubbio eseguita su
progetto dell’artista) sono pensati come un tutt’uno. Quella che è realizzata
per il trittico è “un’incorniciatura solo di primo acchito tradizionale,
connotandosi quale capolavoro assolutamente rinascimentale, architettonicamente
concepita per accentuare la fuga prospettica degli ambienti laterali e la
visione spaziale unitaria, proporzionata agli occupanti”. (p. 252)
Esattamente come nel trittico di
Bellini è innegabile che in questo libro le scansioni non separino, ma
uniscano, e vi sia una visione d’insieme di chi scrive che presume ineguagliata
conoscenza della materia, capacità di raccontare, e soprattutto un difficilissimo
lavoro di scarto e sintesi (il lavoro di uno scultore di fronte a un blocco di
marmo), che obbliga allo scavo, alla selezione, all’individuazione e
sottolineatura degli aspetti di fondo.
L’altro Rinascimento e Giovanni Bellini
Uno dei temi di fondo del libro è
che il Rinascimento veneziano è “altro”, vale a dire diverso rispetto a quelli
di tutte le altre regioni italiane, perché non è frattura, ma evoluzione,
sviluppo e naturale maturazione: “Anche così si va compiendo un
attraversamento, un passaggio di consegne generazionali che altrove è
traumatico, e in altre contingenze storiche avrebbe generato «avanguardie» e
«retroguardie», e perciò violentissime contese fra il «moderno» e l’«antico».
Invece a Venezia il passaggio fra maniera antica, umanistica, e maniera moderna
avviene senza traumi, in un cambiamento di stagioni mediato e rispettoso” (p.
119). Se c’è un artista che, con la sua opera pittorica, incarna alla lettera
questo divenire graduale è senza dubbio Giovanni Bellini (uno dei tre grandi
protagonisti del libro di Villa, assieme a Tiziano e Tintoretto). Di Bellini, Villa
mette in risalto la capacità di essere un grande sperimentatore: nel corso
della sua lunga esistenza, dando prova di quella apertura e capacità di
assimilare, rielaborare e riproporre in maniera nuova tipica dell’arte veneta,
passa dagli accenti bizantini, a quelli mantegneschi; è punto di riferimento,
in un rapporto di lucido e rispettoso confronto, con Cima, Antonello, Dürer,
Giorgione e persino con il giovane Tiziano. La misura di quanto vari l’arte di
Giovanni in più di cinquant’anni di attività (un arco di tempo che trova
riscontro a Venezia nel solo Tiziano) è data visivamente dal confronto fra i
Trittici della Carità (conservati a Venezia in Accademia), databili fra il 1465
e il 1470 e la Derisione di Noè del 1514.
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Giovanni Bellini, Trittico di San Sebastiano, 1464-1470, Gallerie dell'Accademia, Venezia |
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Giovanni Bellini, Derisione di Noè, 1514, Museo di Belle Arti di Besançon |
In mezzo sta, appunto, mezzo
secolo di attività artistica. “Una distanza mentale stupefacente dalle opere
degli esordi, posta a coronamento del percorso umano di Bellini con la
trattazione di un soggetto piuttosto raro […] Un testo in cui si avverte tutta
la grandezza di «uno dei grandi poeti d’Italia» nella sublime capacità di
Bellini di rigenerare costantemente la sua arte, senza mai fermarsi ai dati
acquisiti passando dall’essere, in sessant’anni di carriera, «prima bizantino e
gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello,
in ultimo fin giorgionesco» (Roberto Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Sansoni, Firenze,
1946). Una lettura sovente interpretata come rapporto cronologico in cui la
precedenza, tradizionalmente, non è mai assegnata a Bellini e tale, paradossalmente,
da averne a lungo ottenebrato una completa ricezione dell’altissima arte,
figlia certo di sottili rapporti di dare e avere con tutti i sommi
contemporanei con cui Giovanni si è trovato a dialogare, sempre alla pari,
spesso ponendo egli le fondamentali premesse per gli ulteriori sviluppi
connotandosi così come uno degli artisti più rivoluzionari della storia
dell’arte europea” (p. 280).
Una primogenitura che non è
solamente rilevabile nei quadri, ma che si concretizza in una precocissima consapevolezza del ruolo dell’artista, come
dimostrato dallo scambio epistolare con Isabella d’Este nel 1506, in cui
Giovanni accetta di realizzare un’opera per la duchessa di Mantova (senza
particolare entusiasmo, posto che la commissione di Isabella risaliva al 1501),
ma non si lascia imbrigliare nella individuazione di un soggetto, pretendendo
che sia la committente a rimettersi alla fantasia dell’artista, nella sostanza
libero di dipingere a suo piacimento (pp. 110-111). È una richiesta che Bellini
può avanzare solo per via del suo successo, ma che rappresenta soprattutto la
raggiunta consapevolezza del ruolo creativo di un artista, e che troveremo poi
ripetuta e declinata per secoli, in Italia e all’estero, nell’eterno rapporto
di collaborazione e conflittualità fra committente e artefice; per restare
all’ambito veneziano (fa presente giustamente Villa) rappresenta una
straordinaria anticipazione delle argomentazioni con cui Veronese, nel 1573,
risponde all’Inquisizione (ovviamente con altro atteggiamento e per scusarsi
delle libertà che si è preso) che lo ha convocato in seguito alle note vicende
legate all’Ultima Cena (poi Convito in casa di Levi) oggi alle Gallerie
dell’Accademia.
Venezia: l’ “altro Umanesimo”
Sono, quelle dedicate a Bellini
e, più in generale al Quattrocento veneziano, fra le pagine più felici del
libro di Villa, perché tenendo assieme la pittura di Giovanni, di Gentile, di Carpaccio
all’architettura “decorativa” e alla scultura dei Lombardo descrivono in
maniera impeccabile un ambiente umanistico che trova una sorta di incarnazione
idealizzata nella figura di un intellettuale come Ermolao Barbaro. “I suoi
estimatori e seguaci sono esponenti del patriziato, di una cultura di gruppo,
propria della societas messa in scena
sui teleri di Gentile e di Carpaccio, proposta di una visione aulica di civiltà
urbana. E tutto deriva dall’attenzione per quella realtà naturalistica che
motiva la medesima tensione della ricerca di Ermolao: come in Bellini ove la
centralità del paesaggio non è geometrizzazione di un’idea di natura, ma
ascolto del sacro, luogo carico di simboli e insieme di abbandono bucolico
[n.d.r. si veda il San Francesco riceve
le stigmate della Frick Collection].
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Giovanni Bellini, San Francesco riceve le stigmate, The Frick Collection, New York |
A differenza del paganesimo e
dell’esoterismo dell’Accademia romana di Pomponio Leto e dell’Accademia
platonica di Marsilio Ficino, quell’Umanesimo veneziano resta intimamente
religioso, trovando più di un motivo di ascolto e risposta nelle comunità
monastiche insulari, da San Michele a San Giorgio in Alga, da San Giorgio Maggiore a San
Francesco del deserto. Quella generazione di umanisti propone sempre e comunque
un ritorno alla lettera dei filosofi classici che corrisponda a un’idea di
sapere come abito morale, ove verità e bellezza si fondono. Il Vero ricercato
da Ermolao è una verità cristiana […] proponendo il ritorno a una fede vissuta
con un senso più intimo e profondo, non come fatto di costume e di liturgia
sociale, in uno spirito di confidenza con il sacro che domina la spiritualità”
(p. 71). In fondo, a Venezia, anche la religione è “altra”.
È quest’eredità che, all’inizio
del Cinquecento si troveranno a raccogliere Giorgione, Lotto, Tiziano. E da lì
poi la grande cavalcata del secolo d’oro (dell’arte veneziana, non certo del
suo ruolo politico, sempre più marginale). Gli anni della diaspora successivi
alla sconfitta di Agnadello con artisti come Sebastiano Luciani (Sebastiano del
Piombo) che lasciano Venezia per Roma; così come quelli successivi al sacco del
1527 in cui saranno gli artisti e gli intellettuali romani e toscani a venire a
Venezia (due fra tutti: Sansovino e l’Aretino). E poi, ancora, i trionfi di
Tiziano, che rende europea la pittura della Serenissima, quelli di Tintoretto e
di Veronese. Ma questa è una storia che lasciamo al lettore il piacere di scoprire
leggendo l’opera di Villa. A noi premeva
riconsiderare una realtà (quella del Quattrocento veneziano) che spesso è
lasciata in disparte di fronte ai fasti del colorismo e del tonalismo del
Secolo d’oro e che invece ne costituisce culturalmente la premessa
fondamentale. ‘Venezia, l’altro Rinascimento’ ci permette di soppesare meglio
quegli anni: a nostro avviso si tratta del merito principale di un libro di per
sé meritevole di ogni lode.
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