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lunedì 4 maggio 2015

Giovanni C.F. Villa. Venezia, l'altro Rinascimento 1450-1581. Einaudi, 2014

English Version

Giovanni Carlo Federico Villa
Venezia, l'altro Rinascimento
1450-1581

Torino, Einaudi, 2014


Un consiglio

Se volete un consiglio, leggete ‘Venezia, l’altro Rinascimento’ con accanto un pc o un tablet, ed ogni volta che viene citata un’opera prendetevi trenta secondi per visualizzarla. Perché l’unico grande limite di questo volume è quello di essere un libro in senso tradizionale; mentre dovrebbe essere qualcosa che ancora non esiste, ma che prima o poi arriverà. Non un e-book, ma un libro con dei link (oggi vanno di moda i QR-code) che permettano di osservare l’immagine ad alta definizione.

Il grande rischio di ‘Venezia, l’altro Rinascimento’, infatti è di essere un’opera che rilegge un secolo in maniera deterministica, applicandovi un modello interpretativo contemporaneo. Nulla di tutto ciò avviene e l’autore ci riesce ponendo costantemente a verifica le sue pagine in rapporto ad un intreccio di almeno tre elementi: il fatto storico (ad esempio gli anni orribili successivi alla battaglia di Agnadello del 1509), l’ambiente e la predisposizione culturale (in cui si può dire che risieda il vero “essere altra” di Venezia rispetto al resto d’Italia; città predisposta per natura al commercio, alla mercatura, alle contaminazioni e alle rielaborazioni) e, infine, il riscontro puntuale sui quadri, sulle architetture, sulle sculture, i tessuti, gli apparati e quant’altro. Senza vederli (è vero che la parte finale dell’opera presenta cinquanta schede monografiche dedicate ad altrettante opere illustrate, ma qui stiamo parlando di centinaia, forse di migliaia di testi pittorici) rischiate di perdere il filo del discorso. Sicché il libro rischia di essere una grande incompiuta: un’opera di divulgazione magistrale che parla di una civiltà artistica che però il lettore dovrebbe già conoscere a memoria.


Come il Trittico dei Frari

Il volume è suddiviso in capitoli, ognuno dei quali ha come estremi (tranne in un caso) un’opera che può essere considerata uno snodo cruciale nella storia artistica della civiltà artistica veneziana. Li ricordiamo uno ad uno:
  • Dalla cappella Ovetari alla “Pala dell’Incoronazione” (1450-75)
  • Dall’arrivo di Antonello a Santa Maria dei Miracoli (1475-89)
  • Dai “Miracoli della Vera Croce” al “Cavallo” (1490-99)
  • Da “Venetie MD” alla “Festa del rosario” (1500-506)
  • Dagli affreschi del Fondaco dei Tedeschi alla “Pala Pesaro” (1509-26)
  • Dall’arrivo di Sansovino al “Miracolo dello schiavo” (1527-48)
  • Dal ciclo di Ester alla visita apostolica (1553-1581)

In realtà pensando a tale scansione mi è venuta in mente un’opera di cui Villa parla (ovviamente) nel volume e che sembra quasi progettata in maniera analoga: il cosiddetto Trittico dei Frari che Giovanni Bellini compone nel 1488 per la chiesa francescana di Santa Maria Gloriosa dei Frari (si trova ancora lì).

Giovanni Bellini, Trittico dei Frari, 1488, Santa Maria Gloriosa dei Frari, Venezia

Si tratta di un trittico che, a prima vista, potrebbe sembrare non “modernissimo” nel momento in cui viene eseguito. Già Bartolomeo Vivarini, vent’anni prima, ha superato l’impaginazione tradizionale del polittico per passare alla “pala unificata” (si veda la Madonna in trono oggi a Capodimonte).


Bartolomeo Vivarini, Madonna in trono tra santi, 1465, Museo di Capodimonte, Napoli

Antonello da Messina ha già eseguito la Pala di S. Cassiano (oggi conservata sventuratamente mutila a Vienna).

Antonello da Messina, Pala di San Cassiano, 1475, Kunsthistorisches Museum, Vienna

E soprattutto lo stesso Bellini ha già prodotto dieci anni prima quell’autentico capolavoro che risponde al nome di Pala di S. Giobbe (Gallerie dell’Accademia).


Giovanni Bellini, Pala di San Giobbe, 1478, Gallerie dell'Accademia, Venezia


Eppure non c’è discorso più unitario del Trittico dei Frari, in cui testo pittorico e cornice (sicuramente originale e senza dubbio eseguita su progetto dell’artista) sono pensati come un tutt’uno. Quella che è realizzata per il trittico è “un’incorniciatura solo di primo acchito tradizionale, connotandosi quale capolavoro assolutamente rinascimentale, architettonicamente concepita per accentuare la fuga prospettica degli ambienti laterali e la visione spaziale unitaria, proporzionata agli occupanti”. (p. 252)

Esattamente come nel trittico di Bellini è innegabile che in questo libro le scansioni non separino, ma uniscano, e vi sia una visione d’insieme di chi scrive che presume ineguagliata conoscenza della materia, capacità di raccontare, e soprattutto un difficilissimo lavoro di scarto e sintesi (il lavoro di uno scultore di fronte a un blocco di marmo), che obbliga allo scavo, alla selezione, all’individuazione e sottolineatura degli aspetti di fondo.


L’altro Rinascimento e Giovanni Bellini

Uno dei temi di fondo del libro è che il Rinascimento veneziano è “altro”, vale a dire diverso rispetto a quelli di tutte le altre regioni italiane, perché non è frattura, ma evoluzione, sviluppo e naturale maturazione: “Anche così si va compiendo un attraversamento, un passaggio di consegne generazionali che altrove è traumatico, e in altre contingenze storiche avrebbe generato «avanguardie» e «retroguardie», e perciò violentissime contese fra il «moderno» e l’«antico». Invece a Venezia il passaggio fra maniera antica, umanistica, e maniera moderna avviene senza traumi, in un cambiamento di stagioni mediato e rispettoso” (p. 119). Se c’è un artista che, con la sua opera pittorica, incarna alla lettera questo divenire graduale è senza dubbio Giovanni Bellini (uno dei tre grandi protagonisti del libro di Villa, assieme a Tiziano e Tintoretto). Di Bellini, Villa mette in risalto la capacità di essere un grande sperimentatore: nel corso della sua lunga esistenza, dando prova di quella apertura e capacità di assimilare, rielaborare e riproporre in maniera nuova tipica dell’arte veneta, passa dagli accenti bizantini, a quelli mantegneschi; è punto di riferimento, in un rapporto di lucido e rispettoso confronto, con Cima, Antonello, Dürer, Giorgione e persino con il giovane Tiziano. La misura di quanto vari l’arte di Giovanni in più di cinquant’anni di attività (un arco di tempo che trova riscontro a Venezia nel solo Tiziano) è data visivamente dal confronto fra i Trittici della Carità (conservati a Venezia in Accademia), databili fra il 1465 e il 1470 e la Derisione di Noè del 1514.

Giovanni Bellini, Trittico di San Sebastiano, 1464-1470, Gallerie dell'Accademia, Venezia

Giovanni Bellini, Derisione di Noè, 1514, Museo di Belle Arti di Besançon

In mezzo sta, appunto, mezzo secolo di attività artistica. “Una distanza mentale stupefacente dalle opere degli esordi, posta a coronamento del percorso umano di Bellini con la trattazione di un soggetto piuttosto raro […] Un testo in cui si avverte tutta la grandezza di «uno dei grandi poeti d’Italia» nella sublime capacità di Bellini di rigenerare costantemente la sua arte, senza mai fermarsi ai dati acquisiti passando dall’essere, in sessant’anni di carriera, «prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco» (Roberto Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Sansoni, Firenze, 1946). Una lettura sovente interpretata come rapporto cronologico in cui la precedenza, tradizionalmente, non è mai assegnata a Bellini e tale, paradossalmente, da averne a lungo ottenebrato una completa ricezione dell’altissima arte, figlia certo di sottili rapporti di dare e avere con tutti i sommi contemporanei con cui Giovanni si è trovato a dialogare, sempre alla pari, spesso ponendo egli le fondamentali premesse per gli ulteriori sviluppi connotandosi così come uno degli artisti più rivoluzionari della storia dell’arte europea” (p. 280).

Una primogenitura che non è solamente rilevabile nei quadri, ma che si concretizza in una precocissima  consapevolezza del ruolo dell’artista, come dimostrato dallo scambio epistolare con Isabella d’Este nel 1506, in cui Giovanni accetta di realizzare un’opera per la duchessa di Mantova (senza particolare entusiasmo, posto che la commissione di Isabella risaliva al 1501), ma non si lascia imbrigliare nella individuazione di un soggetto, pretendendo che sia la committente a rimettersi alla fantasia dell’artista, nella sostanza libero di dipingere a suo piacimento (pp. 110-111). È una richiesta che Bellini può avanzare solo per via del suo successo, ma che rappresenta soprattutto la raggiunta consapevolezza del ruolo creativo di un artista, e che troveremo poi ripetuta e declinata per secoli, in Italia e all’estero, nell’eterno rapporto di collaborazione e conflittualità fra committente e artefice; per restare all’ambito veneziano (fa presente giustamente Villa) rappresenta una straordinaria anticipazione delle argomentazioni con cui Veronese, nel 1573, risponde all’Inquisizione (ovviamente con altro atteggiamento e per scusarsi delle libertà che si è preso) che lo ha convocato in seguito alle note vicende legate all’Ultima Cena (poi Convito in casa di Levi) oggi alle Gallerie dell’Accademia.


Venezia: l’ “altro Umanesimo”

Sono, quelle dedicate a Bellini e, più in generale al Quattrocento veneziano, fra le pagine più felici del libro di Villa, perché tenendo assieme la pittura di Giovanni, di Gentile, di Carpaccio all’architettura “decorativa” e alla scultura dei Lombardo descrivono in maniera impeccabile un ambiente umanistico che trova una sorta di incarnazione idealizzata nella figura di un intellettuale come Ermolao Barbaro. “I suoi estimatori e seguaci sono esponenti del patriziato, di una cultura di gruppo, propria della societas messa in scena sui teleri di Gentile e di Carpaccio, proposta di una visione aulica di civiltà urbana. E tutto deriva dall’attenzione per quella realtà naturalistica che motiva la medesima tensione della ricerca di Ermolao: come in Bellini ove la centralità del paesaggio non è geometrizzazione di un’idea di natura, ma ascolto del sacro, luogo carico di simboli e insieme di abbandono bucolico [n.d.r. si veda il San Francesco riceve le stigmate della Frick Collection].

Giovanni Bellini, San Francesco riceve le stigmate, The Frick Collection, New York


A differenza del paganesimo e dell’esoterismo dell’Accademia romana di Pomponio Leto e dell’Accademia platonica di Marsilio Ficino, quell’Umanesimo veneziano resta intimamente religioso, trovando più di un motivo di ascolto e risposta nelle comunità monastiche insulari, da San Michele a San Giorgio  in Alga, da San Giorgio Maggiore a San Francesco del deserto. Quella generazione di umanisti propone sempre e comunque un ritorno alla lettera dei filosofi classici che corrisponda a un’idea di sapere come abito morale, ove verità e bellezza si fondono. Il Vero ricercato da Ermolao è una verità cristiana […] proponendo il ritorno a una fede vissuta con un senso più intimo e profondo, non come fatto di costume e di liturgia sociale, in uno spirito di confidenza con il sacro che domina la spiritualità” (p. 71). In fondo, a Venezia, anche la religione è “altra”.

È quest’eredità che, all’inizio del Cinquecento si troveranno a raccogliere Giorgione, Lotto, Tiziano. E da lì poi la grande cavalcata del secolo d’oro (dell’arte veneziana, non certo del suo ruolo politico, sempre più marginale). Gli anni della diaspora successivi alla sconfitta di Agnadello con artisti come Sebastiano Luciani (Sebastiano del Piombo) che lasciano Venezia per Roma; così come quelli successivi al sacco del 1527 in cui saranno gli artisti e gli intellettuali romani e toscani a venire a Venezia (due fra tutti: Sansovino e l’Aretino). E poi, ancora, i trionfi di Tiziano, che rende europea la pittura della Serenissima, quelli di Tintoretto e di Veronese. Ma questa è una storia che lasciamo al lettore il piacere di scoprire leggendo l’opera  di Villa. A noi premeva riconsiderare una realtà (quella del Quattrocento veneziano) che spesso è lasciata in disparte di fronte ai fasti del colorismo e del tonalismo del Secolo d’oro e che invece ne costituisce culturalmente la premessa fondamentale. ‘Venezia, l’altro Rinascimento’ ci permette di soppesare meglio quegli anni: a nostro avviso si tratta del merito principale di un libro di per sé meritevole di ogni lode.


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