Pagine

venerdì 22 maggio 2015

Cristina Fumarco. Un lombardo tra i sepolcri della campagna romana: nuove proposte per il codice delle "Rovine di Roma"

English Version

Cristina Fumarco
Un lombardo tra i sepolcri della campagna romana:
nuove proposte per il codice delle "Rovine di Roma"

(sta in:
Tracce di letteratura artistica in Lombardia
A cura di Alessandro Rovetta
Bari, Edizione di Pagina, 2004, pp. 3-59)

Roma, Via Appia Antica

[1] Il codice delle Rovine di Roma (conservato con la segnatura S.P. 10/33 presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano) appartiene a quella congerie di documenti che testimoniano l’elevato interesse antiquario degli ambienti lombardi dalla fine del ‘400 a metà del ‘500 nei confronti delle rovine di Roma. Del codice esiste una sola trascrizione, eseguita da Giuseppe Mongeri nel 1875. Ci pare di capire che l’autrice del presente saggio ne abbia eseguita una seconda quale sua Tesi di Specializzazione in Storia dell’Arte (cfr. p. 3 n. 1). L’augurio è che si possa giungere presto ad una nuova pubblicazione, sull’onda anche dell’eccellente edizione critica delle Antiquarie prospetiche romane a cura di Giovanni Agosti e Dante Isella.


Roma, Via Appia antica, Tumulo dei Curiazi

[2] Il manoscritto comprende circa 80 disegni accompagnati da brevi descrizioni degli stessi. “I monumenti illustrati sono templi, sepolcri, archi ed altri complessi rilevati a Roma e dintorni, di cui viene sempre descritta la pianta e spesso l’alzato e la sezione, secondo il metodo di rilievo del tutto innovativo in uso nella cerchia sangallesca e bramantesca che troverà più tardi la sua codificazione teorica nella celebre lettera di Raffaello a Leone X” (pp. 3-4). Colpisce il fatto che i monumenti oggetto del rilievo non siano quasi mai quelli universalmente noti anche all’epoca, quali ad esempio il Colosseo o il Pantheon, ma che si tratti di “edifici che si trovano nel suburbio e nella campagna romana, con la predilezione della zona tra la via Appia, la via Latina e la Caffarella, ricche di sepolcri a tempietto o di forma circolare; pochissimi disegni sono dedicati alle rovine della grande città” (p. 8). Cristina Fumarco si interroga su quanto sopra esposto e così risponde: “Non pare che l’autore voglia documentare ciò che è ancora poco conosciuto o sta per andare del tutto in rovina (quindi con un intento programmatico e quasi archeologico), bensì che cerchi modelli per un’architettura da costruire. E lo fa in strutture di dimensioni minori come sepolcri e ninfei, piante che si possono replicare nelle chiese e negli edifici cittadini del Cinquecento più facilmente rispetto alle maestose vestigia delle terme, delle dimore o dei templi imperiali” (p. 10). Un repertorio, insomma, ad uso e consumo dell’artista e dei suoi allievi. Il che bene si sposa (ma, sia chiaro, in questo caso siamo nel campo delle nostre congetture personali) con un altro elemento messo in evidenza dalla Fumarco: “Le Rovine di Roma non sono un vademecum e i disegni non sono stati fatti in presa diretta, poiché non si tratta di schizzi, ma di figure realizzate con strumenti di precisione..., tecnica impraticabile nel disegno dal vero e che richiede un sicuro punto d’appoggio e tranquillità... Il codice non ha la dignità di un trattato, ma in realtà non è neppure un semplice taccuino di rilievi: aspira ad essere qualcosa di più, e probabilmente l’autore vuole creare un repertorio ragionato di modelli architettonici basato sulla diretta conoscenza degli antichi, ma senza la pretesa di avere un valore teorico sull’architettura classica, quanto piuttosto di essere uno strumento pratico nella professione architettonica” (pp. 6-7).

Roma, Via Appia antica, Mausoleo di Cecilia Metella 
Roma, Via Appia Antica, Sepolcro di Hilarus Fuscus


[3] Restano le due questioni più spinose, quelle fra l’altro dietro le quali spesso ci si perde dimenticando che sono sì importanti, ma non fondamentali: datazione ed autore del codice. Sulla datazione l’autrice propone un lasso temporale compreso fra 1499-1501 e 1503. Per quanto riguarda l’autore, ancora una volta sembra di rileggere i dibattiti relativi alle Antiquarie prospetiche romane: i nomi fatti fino ad oggi sono quelli di Bramante e Bramantino. L’autrice giudica questi nomi improponibili o comunque altamente improbabili e avanza un’ipotesi attributiva che fa capo a Cristoforo Solari detto “il Gobbo” (1470-1524). Si vedano in merito le pagine dalla 27 in poi.

Nessun commento:

Posta un commento