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lunedì 18 maggio 2015

Emanuela Fogliadini. L'invenzione dell'immagine sacra. La legittimazione ecclesiale dell'icona al secondo concilio di Nicea. Jaca Book, 2015 Parte prima

English Version

Emanuela Fogliadini
L'invenzione dell'immagine sacra
La legittimazione ecclesiale dell'icona
al secondo concilio di Nicea
Parte Prima

Jaca Book, 2015

Icona acheropita del Salvatore, Museo Tretyakov, Mosca XII secolo
(il termine 'acheropita' nella tradizione ortodossa
 intende sottolineare che l'immagine non è frutto del lavoro manuale di un artista, ma è prova divina dell'Incarnazione)
Fonte: http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2933


Gli avvenimenti storici

La vicenda della lotta pro o contro l’utilizzo delle immagini sacre normalmente è liquidata con il riferimento al Secondo Concilio di Nicea (787) che ne ammise il culto. In realtà si tratta di una battaglia che andò avanti per oltre un secolo e che (non prima di aver ricordato che all’epoca non si era ancora consumato lo scisma d’Oriente, risalente al 1054) possiamo per comodità riassumere nelle seguenti tappe:

Concilio di Hieria (754): segna la proclamazione dell’iconoclastia. La politica di rifiuto delle immagini viene fortemente caldeggiata dall’Imperatore Leone III e da Costantino V poi, che convoca e partecipa al concilio.

Concilio ecumenico di Nicea (787): settimo ed ultimo concilio ecumenico. Riflette, in termini politici, il cambiamento nell’orientamento imperiale. Dopo la morte di Costantino V e quella prematura di Leone IV, a divenire imperatore è Costantino VI, in nome del quale tiene la reggenza la madre Irene (che, per inciso, farà prima accecare e poi uccidere il figlio), su posizioni iconofile e promotrice del concilio a cui aderisce anche papa Adriano I.

Secondo iconoclasmo: la politica imperiale a favore delle immagini dura in realtà poco, ovvero fino all’814, quando Leone V ispira un nuovo sinodo a Costantinopoli, che dichiara abolita la dichiarazione di fede di Nicea e ripristina i dettati di Hieria. In realtà, sia pur ribadendo la condanna delle immagini, il secondo iconoclasmo mantiene un atteggiamento meno drastico nei confronti delle icone, definendo la venerazione delle immagini come sostanzialmente inutile.

La situazione rimase fluida ancora per decenni, ma con un recupero sostanziale delle tesi iconofile che portò nell’843 all’abolizione dell’iconoclastia e alla proclamazione della Festa dell’Ortodossia, la prima domenica di Quaresima, che celebrava il culto delle icone.


Retro Icona acheropita del Salvatore, Museo Tretyakov, Mosca XII secolo
Fonte: 
http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2934

Un approccio complessivo

Sin qui i dati storici. La tesi fondamentale dell’autrice (che è una teologa) è banale nella sua semplicità, ma è assolutamente fondata. Leggendo il semplice elenco degli avvenimenti storici appare evidente l’importanza che ebbero gli imperatori nel dipanarsi della vicenda; importanza tale da far presumere che l’intera questione dell’iconoclastia dipenda dalle ‘scelte politiche’ delle figure imperiali. Quella dell’iconoclastia sarebbe cioè stata un’imposizione imperiale su una gerarchia ecclesiastica debole e appiattita sul potere temporale, e su una società che invece sarebbe stata sinceramente iconofila. Non a caso – fa presente Fogliadini, l’interesse delle cui argomentazioni pecca purtroppo di una certa mancanza di concisione – fu questa la versione che fu accreditata dalla Chiesa ortodossa dopo la vittoria del partito delle immagini. Gli atti del concilio di Hieria, così come l’elenco dei vescovi che vi parteciparono furono totalmente distrutti; i principali attori della vicenda furono ricoperti di insulti (a partire da Costantino V, imperatore coprofago, ossia mangiatore di sterco) e l’intera vicenda fu raffigurata come un’imposizione dall’alto. Fu messa in atto una manipolazione pervasiva di tutte le vicende precedenti (la storia è sempre scritta da chi vince): si disse ad esempio che, a fronte di una gerarchia ecclesiastica priva di nerbo e corrotta, ad assurgere a difensore delle immagini fu il mondo monastico nella sua interezza. Non a caso furono scritte agiografie di santi che ripercorrevano le persecuzioni e i martirii che dovettero subire proprio a causa della difesa del diritto a venerare le icone.

Ora, è appena evidente che una querelle che va avanti per un secolo non può essere ridotta ad una serie di episodi o di malefatte. Un dibattito ci fu e fu squisitamente di natura teologica. Questo libro vuole richiamarne termini e contenuti, abbinando teologia e storiografia (al netto delle manipolazioni operate dal vincente partito iconofilo). Così pure vuole chiarire che lo “statuto delle immagini” che risultò da un secolo di lotte modificò in modo radicale la maniera in cui esse furono intese in Oriente, caricandole di un significato teologico-rivelativo che non fu mai fatto proprio dalla Chiesa romana, ponendo di fatto le basi, in termini religiosi, per il successivo scisma, ma anche – ed è questo che a noi interessa – per uno sviluppo totalmente divergente della rappresentazione artistica fra mondo ortodosso e Chiesa cattolica romana. [Aggiornamento 22 febbraio 2025: per un quadro mirato all'approccio iconofilo della chiesa romana fra 680 e 880 d.C. si veda ora Francesca Dell’Acqua, Iconophilia: Politics, Religion, Preaching, and the Use of Images in Rome, c. 680-880.]


Icona della Madonna Panaghia (Tutta Santa)
Museo Tretyakov, Mosca XIII secolo
Fonte: 
http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2593

Fino a Hieria

Il mondo cristiano nella sua interezza non sembra confrontarsi col problema delle immagini nei primissimi secoli dopo Cristo. Se un problema c’è, è ovviamente quello della Parola; ovvero la legittimazione di una serie di testi, i Vangeli, che rappresentano il Verbo incarnato, e l’esclusione di altri che non appaiono ortodossi rispetto ad esso (ad esempio, i cosiddetti Vangeli apocrifi). Quando compaiono le immagini (ed appare evidente che il vero propagarsi del fenomeno si ha a partire dal VI secolo d.C.) esse sono intese in senso didascalico-memorativo. Sono cioè intese a ricordare eventi che sono narrati nei Vangeli e a spiegarli ad un popolo di poveri ed analfabeti. Non è un caso che Gregorio Magno (appunto nel VI secolo d.C.) parli delle immagini come della ‘Bibbia dei poveri’. Le rappresentazioni figurative sono cioè subordinate alla Parola di Dio.

Quest’approccio all’immagine rimase di fatto tale in Occidente, ma non fu considerato sufficiente nell’ambito dell’Impero romano d’Oriente. È indubbio (perché testimoniato dalle fonti) che proprio in Oriente vi furono eccessi che crearono sconcerto nel mondo religioso: ad esempio l’usanza di grattare polvere dell’oro delle icone nel calice dell’eucaristia (p. 191). Di fronte a questi eccessi, ma anche sull’onda della scelta aniconica della religione ebraica e soprattutto dell’Islam, che andava rapidamente diffondendosi, la Chiesa d’Oriente avvertì la necessità di elaborare un apparato teologico, fino ad allora ignoto, che condannasse comportamenti idolatrici, sulla base di un credo che dovesse recuperare la propria dimensione spirituale. L’iconoclastia, insomma, non è il capriccio di un imperatore, ma nasce e si forma nel corso dei secoli fino a sfociare nel concilio di Hieria. L’imperatore (Leone III prima e Costantino V poi, che è colui che indice il concilio) l’ascolta, la condivide e addirittura si impegna in spirito di fattiva collaborazione con il mondo ecclesiastico nel dibattito teologico. È noto che, in occasione del Concilio, Costantino V formulò il suo contributo in maniera scritta nelle Peuseis, un’opera che gli iconofili non esitarono a distruggere in ogni sua copia in seguito alla loro vittoria, ma di cui per fortuna conosciamo in maniera frammentaria i contenuti grazie alla replica a loro confutazione del Patriarca Niceforo di Costantinopoli, che ne trascrisse una parte proprio per combatterle.

Icona del Salvatore con Santi, Museo Tretyakov. Mosca, XIII secolo
Fonte: http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2609


Il concilio di Hieria

Un primo dato emerge chiaramente: prima di Hieria non esisteva una teologia dell’immagine sacra, né a favore né a confutazione. L’immagine era intesa – come detto – in senso didascalico-memorativo, ad esplicazione dei Vangeli. Ciò di cui si discute nel Concilio del 754 è se un’immagine possa o meno rappresentare la doppia natura del Cristo, quella divina e quella umana. Nelle sue Peuseis Costantino V nega questa possibilità sulla base di due assunti: il primo (dato quasi per implicito) è la coincidenza fisica tra immagine e soggetto rappresentato; l’immagine non è fatta “a somiglianza” del soggetto, ma è il soggetto stesso, quindi Dio. Se ne desume (e questo è il secondo assunto) che sia impossibile dipingere il Cristo, perché in esso, in maniera inconfusa e strettamente legata, vivono sia la natura umana (circoscrivibile) sia quella divina (incircoscrivibile). Dipingere il Cristo vuol dire circoscrivere la divinità, e come tale negarla. È importante notare che le argomentazioni iconoclaste sono avanzate sempre a difesa (e non a confutazione) dell’incarnazione divina; si tratta esattamente dello stesso principio che condurrà gli iconofili a giungere a considerazioni diametralmente opposte. Ma poiché è vero che Dio si è incarnato, ed è altrettanto vero che la sua natura divina è incircoscrivibile, l’unica rappresentazione che possiamo ammettere è, al massimo, di natura squisitamente simbolica, quale può essere l’ostia dell’Eucaristia.

Non è affatto banale soffermarsi sulle tesi di Costantino, soprattutto in virtù del fatto che esse non furono accettate dal Concilio, a dimostrazione che il medesimo non fu una parata di ecclesiastici chiamati a ratificare i capricci di un tiranno, ma un luogo aperto di discussione, che sfociò in risultati che l’Imperatore riconobbe e a cui si attenne. In particolare a non convincere i partecipanti al Concilio fu l’identificazione fra immagine e soggetto, troppo facilmente attaccabile sulla base del principio che si potesse trattare di semplice somiglianza. Ad essere fatto proprio fu invece un principio di natura sostanzialmente greco-ellenistica, ed in particolare platonica: l’impossibilità del mondo reale di rappresentare la natura ultraterrena, ovvero lo scarto fra mondo della realtà (l’icona) e mondo delle idee (Dio). Posto che Dio si è incarnato e che quindi la carne del Cristo è di natura divinizzata, ad offendere l’incarnazione è proprio la materia che costituisce l’immagine sacra: il legno, l’oro, i pigmenti, nella loro meschina fisicità, non possono nemmeno lontanamente essere utilizzati per rappresentare la fisicità divina del Cristo.


Tutti i padri conciliari votarono a favore dell’iconoclastia. Da qui la tesi (sviluppata dopo il trionfo finale iconofilo) che si trattasse di un consesso prezzolato. Nulla di tutto ciò, come abbiamo visto. Come è certo che il mondo monastico si divise, ma in gran parte si riconobbe nella dottrina contraria alle immagini. Naturalmente vi furono voci fuori dal coro, a partire da Germano di Costantinopoli e Giovanni Damasceno, ma si tratta di espressioni di dissenso che saranno recuperate soltanto all’altezza di Nicea, e che hanno poco impatto sul momento, o perché messe a tacere con le dimissioni da patriarca (Germano) o perché provenienti dalla periferia dell’impero (Giovanni).

FINE PARTE PRIMA

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