Emanuela Fogliadini
L'invenzione dell'immagine sacra
La legittimazione ecclesiale dell'icona
al secondo concilio di Nicea
Parte Prima
Jaca Book, 2015
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Icona acheropita del Salvatore, Museo Tretyakov, Mosca XII secolo (il termine 'acheropita' nella tradizione ortodossa intende sottolineare che l'immagine non è frutto del lavoro manuale di un artista, ma è prova divina dell'Incarnazione) Fonte: http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2933 |
Gli avvenimenti
storici
La vicenda della lotta pro o contro l’utilizzo delle
immagini sacre normalmente è liquidata con il riferimento al Secondo Concilio
di Nicea (787) che ne ammise il culto. In realtà si tratta di una battaglia che
andò avanti per oltre un secolo e che (non prima di aver ricordato che
all’epoca non si era ancora consumato lo scisma d’Oriente, risalente al 1054)
possiamo per comodità riassumere nelle seguenti tappe:
Concilio di Hieria (754): segna la proclamazione
dell’iconoclastia. La politica di rifiuto delle immagini viene fortemente
caldeggiata dall’Imperatore Leone III e da Costantino V poi, che convoca e
partecipa al concilio.
Concilio ecumenico di Nicea (787): settimo ed ultimo
concilio ecumenico. Riflette, in termini politici, il cambiamento
nell’orientamento imperiale. Dopo la morte di Costantino V e quella prematura
di Leone IV, a divenire imperatore è Costantino VI, in nome del quale tiene la
reggenza la madre Irene (che, per inciso, farà prima accecare e poi uccidere il
figlio), su posizioni iconofile e promotrice del concilio a cui aderisce anche
papa Adriano I.
Secondo iconoclasmo: la politica imperiale a favore delle
immagini dura in realtà poco, ovvero fino all’814, quando Leone V ispira un
nuovo sinodo a Costantinopoli, che dichiara abolita la dichiarazione di fede di
Nicea e ripristina i dettati di Hieria. In realtà, sia pur ribadendo la
condanna delle immagini, il secondo iconoclasmo mantiene un atteggiamento meno
drastico nei confronti delle icone, definendo la venerazione delle immagini
come sostanzialmente inutile.
La situazione rimase fluida ancora per decenni, ma con un
recupero sostanziale delle tesi iconofile che portò nell’843 all’abolizione
dell’iconoclastia e alla proclamazione della Festa dell’Ortodossia, la prima
domenica di Quaresima, che celebrava il culto delle icone.
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Retro Icona acheropita del Salvatore, Museo Tretyakov, Mosca XII secolo Fonte: http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2934 |
Un approccio complessivo
Sin qui i dati storici. La tesi fondamentale dell’autrice
(che è una teologa) è banale nella sua semplicità, ma è assolutamente fondata. Leggendo il semplice elenco degli avvenimenti storici appare
evidente l’importanza che ebbero gli imperatori nel dipanarsi della vicenda;
importanza tale da far presumere che l’intera questione dell’iconoclastia
dipenda dalle ‘scelte politiche’ delle figure imperiali. Quella
dell’iconoclastia sarebbe cioè stata un’imposizione imperiale su una gerarchia
ecclesiastica debole e appiattita sul potere temporale, e su una società che
invece sarebbe stata sinceramente iconofila. Non a caso – fa presente
Fogliadini, l’interesse delle cui argomentazioni pecca purtroppo di una certa
mancanza di concisione – fu questa la versione che fu accreditata dalla Chiesa ortodossa dopo la vittoria del partito delle immagini. Gli atti del concilio di
Hieria, così come l’elenco dei vescovi che vi parteciparono furono totalmente
distrutti; i principali attori della vicenda furono ricoperti di insulti (a
partire da Costantino V, imperatore coprofago, ossia mangiatore di sterco) e
l’intera vicenda fu raffigurata come un’imposizione dall’alto. Fu messa in atto
una manipolazione pervasiva di tutte le vicende precedenti (la storia è sempre
scritta da chi vince): si disse ad esempio che, a fronte di una gerarchia
ecclesiastica priva di nerbo e corrotta, ad assurgere a difensore delle
immagini fu il mondo monastico nella sua interezza. Non a caso furono scritte
agiografie di santi che ripercorrevano le persecuzioni e i martirii che
dovettero subire proprio a causa della difesa del diritto a venerare le icone.
Ora, è appena evidente che una querelle che va avanti per un secolo non può essere ridotta ad una
serie di episodi o di malefatte. Un dibattito ci fu e fu squisitamente di natura
teologica. Questo libro vuole richiamarne termini e contenuti, abbinando
teologia e storiografia (al netto delle manipolazioni operate dal vincente
partito iconofilo). Così pure vuole chiarire che lo “statuto delle immagini”
che risultò da un secolo di lotte modificò in modo radicale la maniera in cui
esse furono intese in Oriente, caricandole di un significato
teologico-rivelativo che non fu mai fatto proprio dalla Chiesa romana, ponendo
di fatto le basi, in termini religiosi, per il successivo scisma, ma anche – ed
è questo che a noi interessa – per uno sviluppo totalmente divergente della
rappresentazione artistica fra mondo ortodosso e Chiesa cattolica romana. [Aggiornamento 22 febbraio 2025: per un quadro mirato all'approccio iconofilo della chiesa romana fra 680 e 880 d.C. si veda ora Francesca Dell’Acqua, Iconophilia: Politics, Religion, Preaching, and the Use of Images in Rome, c. 680-880.]
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Icona della Madonna Panaghia (Tutta Santa) Museo Tretyakov, Mosca XIII secolo Fonte: http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2593 |
Fino a Hieria
Il mondo cristiano nella sua interezza non sembra
confrontarsi col problema delle immagini nei primissimi secoli dopo Cristo. Se
un problema c’è, è ovviamente quello della Parola; ovvero la legittimazione di
una serie di testi, i Vangeli, che rappresentano il Verbo incarnato, e
l’esclusione di altri che non appaiono ortodossi rispetto ad esso (ad esempio,
i cosiddetti Vangeli apocrifi). Quando compaiono le immagini (ed appare
evidente che il vero propagarsi del fenomeno si ha a partire dal VI secolo
d.C.) esse sono intese in senso didascalico-memorativo. Sono cioè intese a
ricordare eventi che sono narrati nei Vangeli e a spiegarli ad un popolo di
poveri ed analfabeti. Non è un caso che Gregorio Magno (appunto nel VI secolo
d.C.) parli delle immagini come della ‘Bibbia dei poveri’. Le rappresentazioni
figurative sono cioè subordinate alla Parola di Dio.
Quest’approccio all’immagine rimase di fatto tale in
Occidente, ma non fu considerato sufficiente nell’ambito dell’Impero romano
d’Oriente. È indubbio (perché testimoniato dalle fonti) che proprio in Oriente
vi furono eccessi che crearono sconcerto nel mondo religioso: ad esempio
l’usanza di grattare polvere dell’oro delle icone nel calice dell’eucaristia
(p. 191). Di fronte a questi eccessi, ma anche sull’onda della scelta aniconica
della religione ebraica e soprattutto dell’Islam, che andava rapidamente
diffondendosi, la Chiesa d’Oriente avvertì la necessità di elaborare un
apparato teologico, fino ad allora ignoto, che condannasse comportamenti
idolatrici, sulla base di un credo che dovesse recuperare la propria dimensione
spirituale. L’iconoclastia, insomma, non è il capriccio di un imperatore, ma
nasce e si forma nel corso dei secoli fino a sfociare nel concilio di Hieria.
L’imperatore (Leone III prima e Costantino V poi, che è colui che indice il
concilio) l’ascolta, la condivide e addirittura si impegna in spirito di
fattiva collaborazione con il mondo ecclesiastico nel dibattito teologico. È
noto che, in occasione del Concilio, Costantino V formulò il suo contributo in
maniera scritta nelle Peuseis,
un’opera che gli iconofili non esitarono a distruggere in ogni sua copia in
seguito alla loro vittoria, ma di cui per fortuna conosciamo in maniera
frammentaria i contenuti grazie alla replica a loro confutazione del Patriarca
Niceforo di Costantinopoli, che ne trascrisse una parte proprio per
combatterle.
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Icona del Salvatore con Santi, Museo Tretyakov. Mosca, XIII secolo Fonte: http://www.tretyakovgallery.ru/en/collection/_show/image/_id/2609 |
Il concilio di Hieria
Un primo dato emerge chiaramente: prima di Hieria non
esisteva una teologia dell’immagine sacra, né a favore né a confutazione.
L’immagine era intesa – come detto – in senso didascalico-memorativo, ad
esplicazione dei Vangeli. Ciò di cui si discute nel Concilio del 754 è se
un’immagine possa o meno rappresentare la doppia natura del Cristo, quella
divina e quella umana. Nelle sue Peuseis
Costantino V nega questa possibilità sulla base di due assunti: il primo (dato
quasi per implicito) è la coincidenza fisica tra immagine e soggetto
rappresentato; l’immagine non è fatta “a somiglianza” del soggetto, ma è il
soggetto stesso, quindi Dio. Se ne desume (e questo è il secondo assunto) che
sia impossibile dipingere il Cristo, perché in esso, in maniera inconfusa e
strettamente legata, vivono sia la natura umana (circoscrivibile) sia quella
divina (incircoscrivibile). Dipingere il Cristo vuol dire circoscrivere la
divinità, e come tale negarla. È importante notare che le argomentazioni
iconoclaste sono avanzate sempre a difesa (e non a confutazione)
dell’incarnazione divina; si tratta esattamente dello stesso principio che
condurrà gli iconofili a giungere a considerazioni diametralmente opposte. Ma
poiché è vero che Dio si è incarnato, ed è altrettanto vero che la sua natura
divina è incircoscrivibile, l’unica rappresentazione che possiamo ammettere è,
al massimo, di natura squisitamente simbolica, quale può essere l’ostia
dell’Eucaristia.
Non è affatto banale soffermarsi sulle tesi di Costantino,
soprattutto in virtù del fatto che esse non furono accettate dal Concilio, a
dimostrazione che il medesimo non fu una parata di ecclesiastici chiamati a
ratificare i capricci di un tiranno, ma un luogo aperto di discussione, che
sfociò in risultati che l’Imperatore riconobbe e a cui si attenne. In
particolare a non convincere i partecipanti al Concilio fu l’identificazione
fra immagine e soggetto, troppo facilmente attaccabile sulla base del principio
che si potesse trattare di semplice somiglianza. Ad essere fatto proprio fu
invece un principio di natura sostanzialmente greco-ellenistica, ed in
particolare platonica: l’impossibilità del mondo reale di rappresentare la
natura ultraterrena, ovvero lo scarto fra mondo della realtà (l’icona) e mondo
delle idee (Dio). Posto che Dio si è incarnato e che quindi la carne del Cristo
è di natura divinizzata, ad offendere l’incarnazione è proprio la materia che
costituisce l’immagine sacra: il legno, l’oro, i pigmenti, nella loro meschina
fisicità, non possono nemmeno lontanamente essere utilizzati per rappresentare
la fisicità divina del Cristo.
Tutti i padri conciliari votarono a favore
dell’iconoclastia. Da qui la tesi (sviluppata dopo il trionfo finale iconofilo)
che si trattasse di un consesso prezzolato. Nulla di tutto ciò, come abbiamo
visto. Come è certo che il mondo monastico si divise, ma in gran parte si
riconobbe nella dottrina contraria alle immagini. Naturalmente vi furono voci
fuori dal coro, a partire da Germano di Costantinopoli e Giovanni Damasceno, ma
si tratta di espressioni di dissenso che saranno recuperate soltanto
all’altezza di Nicea, e che hanno poco impatto sul momento, o perché messe a
tacere con le dimissioni da patriarca (Germano) o perché provenienti dalla
periferia dell’impero (Giovanni).
FINE PARTE PRIMA
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