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mercoledì 6 maggio 2015

Vedere l'invisibile. Nicea e lo statuto dell'immagine. A cura di Luigi Russo. Con una recensione di Mons. Gianfranco Ravasi

English Version

Vedere l'invisibile
Nicea e lo statuto dell'immagine

A cura di Luigi Russo
Note di Claudio Gerbino e Mario Re

Palermo, Aesthetica, 1997

Icona della Vergine col Bambino, fine XIII secolo
Fonte: Museo Bizantino e Cristiano di Atene


[1] All’inizio della Presentazione Luigi Russo immagina che il lettore sia sorpreso per l’uscita di questo volume e quasi si scusa: “Può sembrare strano pubblicare in questa sede atti di un famoso Concilio della Chiesa, il Secondo Concilio di Nicea, tenutosi più di milleduecento anni fa: nel 787. E ancora più strano che a farlo, per la prima volta in italiano, sia uno studioso di estetica”. Ma la spiegazione vien presto data, forse con un pizzico di enfasi o, quanto meno, di comprensibile compiacimento professionale. “Sintetizzando ai limiti del lecito, ci limiteremo ad osservare – scrive L. Russo a p. 10 – che l’antica trasgressione alla proibizione biblica di fabbricare immagini… ha fondato grazie a Nicea, il nostro «impero dei sensi», proprio quello aperto dall’estetica moderna”.

[2] Avvertenza a p. 11: “La presente edizione traduce solo le parti del Secondo Concilio di Nicea di maggior interesse per la questione dell’immagine. La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da J.-D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, tt. XII e XIII, Firenze 1766 e 1767…”.

[3] In appendice sono posti tre scritti. Il primo, dovuto a Mario Re, ha per titolo “Il secondo Concilio di Nicea e la controversia iconoclastica” (pp. 171-183); il successivo, di Maria Andaloro, s’intitola “Il secondo Concilio di Nicea e l’età dell’immagine” (pp. 185-194); il terzo, di Crispino Valenziano, ha il titolo “Il secondo Concilio di Nicea e l’Iconologia” ed occupa le pp. 195-206. 


[5] Si riporta recensione al testo, firmata Gianfranco Ravasi ed apparsa sul Domenicale del Sole 24 ORE in data 12.10.1997 (l’articolo è tratto da Biblioteca Multimediale del Sole 24 ORE – Cd Rom Domenica 1983-2003 Vent’anni di idee)


Icona con la crocifissione e la Vergine, IX-XIII sec.
Fonte: Museo Bizantino e Cristiano di Atene



SACRE IMMAGINI – Pubblicati per esteso gli atti del Secondo Concilio di Nicea (787)
E l’icona ritornò ad essere legale
Quei documenti permisero agli artisti di rappresentare l’Invisibile
di Gianfranco Ravasi

Ho visitato due o tre volte la galleria Tretjakov di Mosca, sede di una delle più imponenti collezioni di icone russe e spontaneamente, in quelle occasioni, mi è venuto in mente quanto scriveva Pavel Florenskij, il famoso teologo e matematico autore delle Porte regali (Adelphi 1977). Se sono affidate alla piattezza di un museo - egli sosteneva - le icone sembrano opere seriali, l’iconografia risulta stereotipa, l’oro barbaro, le stilizzazioni eccessive. Se, invece, esse vengono riportate nel loro habitat genuino, cioè nella penombra di una chiesa, avvolte nelle spirali dei canti opulenti della liturgia bizantina e nelle volute degli incensi, se le loro superfici sono solcate dal fiammeggiare dei ceri, quei volti si animano, quegli occhi ci inseguono, quell’oro ci rimanda a orizzonti ultraterreni. Perché, come ci ha insegnato Andrej Tarkovski in quel capolavoro che è il film Andrej Rubliov del 1971, per dipingere un’icona non basta il genio personale, è necessaria la fede, non è sufficiente la preparazione artistica ma è richiesta anche l’ascesi, non importa solo l’intuizione ma è indispensabile anche la mistica. In questo senso sono veri i moniti di due grandi pittori contemporanei: da un lato, Gauguin che invitava a “non fidarsi delle immagini” e, dall’altro, Paul Klee secondo il quale “scopo dell’arte non è rappresentare il visibile ma rendere visibile l’invisibile”. 

E Vedere l’invisibile è appunto il titolo di un’opera che Luigi Russo, presidente del Centro internazionale studi di estetica di Palermo ha curato. Opera originale perché offre per la prima volta in versione integrale gli atti di quel concilio, il settimo ecumenico e il secondo di Nicea, celebrato in sette sessioni dal 4 settembre al 13 ottobre del 787 nell’omonima cittadina dell’attuale Turchia, decisivo proprio per le icone in senso lato, cioè per l’immagine sacra. Anzi, come si fa notare, “quell’antico dibattito e le sue conclusioni, accolte pur fra contrasti drammatici da tutta la Cristianità, hanno plasmato la cultura occidentale. Hanno reso possibile la storia dell’arte come noi la conosciamo (che per lunghi secoli è stata essenzialmente arte sacra), ma anche la legittimità dell’immagine, sacra e non-sacra, artistica e non”.

Icona dell'Arcangelo Michele, XIV secolo
Fonte: Museo Bizantino e Cristiano di Atene

L’oscillazione tra i due estremi è costante. Si può essere attratti dal fascino morboso del vitello d’oro, come Israele nel deserto: è ciò che noi ora sperimentiamo, con la metastasi dell’immagine (la vicenda della principessa Diana è ormai un emblema) e la sua idolatria (l’onniscienza divina è sostituita dalla “panvisibilita” televisiva). Per questo la Bibbia ci ricorda che sulla vetta del Sinai “voi udivate il suono delle parole, ma non ne vedevate la figura: vi era soltanto una voce” (Deuteronomio 4,12). Il precetto del Decalogo (“Non ti farai immagine alcuna...”), fondamentalisticamente accolto dall’antica tradizione giudaica e musulmana, in realtà vuole combattere ogni iconolatria, cioè quella adorazione cieca dell’immagine che è una delle massime tentazioni. C’è, però, anche l’altro estremo, quello dell’iconofobia, che conduce alla frenesia ascetica, alla rarefazione concettuale: basti pensare agli “arabeschi” dell’arte islamica o alla spoglia geometrica nudità delle chiese protestanti, compensata solo dall’epifania sonora della musica. 

Icona di San Giovanni Battista, XV secolo
Fonte: Museo Bizantino e Cristiano di Atene 


Questa “cecità” spirituale ebbe il suo trionfo proprio alle spalle del secondo concilio di Nicea allorché l’imperatore bizantino Leone III impose l’iconoclastia che fu teorizzata dal figlio Costantino V - bollato dagli iconofili col titolo infamante di Copronimo (“dal nome di sterco” : quanto a insulti anche allora non si scherzava) - in un apposito concilio da lui convocato nel palazzo di Hieria (ora Blacherne) presso Costantinopoli nel 754, con la presenza di 338 vescovi. La tesi teologica verteva sull’impossibilità di raffigurare Cristo, pena la violazione del dogma del concilio di Calcedonia che aveva proclamato l’unità in una sola persona delle due nature, l’umana e la divina. Ora, secondo il concetto orientale, l’immagine non è mera rappresentazione metaforica ma “simbolica” della realtà, cioè unisce insieme il soggetto e la sua raffigurazione: ebbene consustanziale col suo modello per Cristo può essere solo l’eucaristia, l'unica icona ammissibile. I Padri di Nicea dovettero, dunque, affrontare una questione squisitamente teologica dai risvolti, però, molto concreti (lo stesso imperatore era mosso anche da istanze politiche) e il loro pronunciamento, elaborato dopo un lungo dibattito che può essere seguito in queste pagine quasi in presa diretta, fu codificato in un horos (“sentenza, decreto”) che ebbe, in realtà, risultati destinati a superare le frontiere della teologia e, come si diceva, a incidere profondamente nel destino dell’arte. È curioso notare che a essere relatore fondamentale del concilio e redattore del documento finale fu chiamato Gregorio, vescovo di Neocesarea, che era uno dei 17 vescovi niceni che aveva partecipato anche al concilio di Hieria; anzi, egli era stato quasi un leader degli iconoclasti. Come si osserva in una delle numerosissime (sono 641!) note che la presente edizione degli atti conciliari allega al testo, la nomina di Gregorio aveva “il duplice intento di garantire formalmente l’autenticità del documento conciliare di fronte all’assemblea nicena e di ottenere da parte dello stesso Gregorio un segno inequivoco della recuperata appartenenza allo schieramento iconofilo”. Gli atti conciliari, che tra l’altro rivelano anche un intarsio di citazioni di Padri e di testi biblici, sfociano dunque in una “definizione” che meriterebbe di essere integralmente citata per la sua acutezza e finezza non solo teologica: è ciò che illustra nel terzo saggio a commento del testo niceno Crispino Valenziano (gli altri due saggi illustrano le coordinate storico-culturali dell’evento). È lui a ricordarci quanto la lezione nicena sia decisiva per la liturgia di tutti i tempi e come debba essere riproposta ai nostri giorni di sgangherata e sgrammaticata iconografia civile e, purtroppo, anche ecclesiale. Inoltre, i Padri di Nicea, dichiarando che “la rappresentazione pittorica iconografica è in accordo col racconto della proclamazione evangelica, a conferma dell’incarnazione del Verbo di Dio, incarnazione vera e non immaginaria, ed è apportatrice di un beneficio simile a quello del racconto evangelico” (suggestivo questo parallelo tra immagine e parola!), affermano di “avanzare su un sentiero regale”. Inciampi su quel sentiero non mancarono: pochi decenni dopo, fra l’813 e l’843, ci fu una nuova recrudescenza dell’iconoclastia e, come si è detto, una reviviscenza di questo puritanesimo visivo ci fu in seguito con la Riforma e con certi suoi eccessi popolari, rievocati anche nel romanzo Fratello Jacob dello scrittore danese Henrik Stangerup, tradotto da Iperborea nel 1993. Ma Nicea rimase lo stesso un punto di riferimento capitale e perentorio a cui non solo la fede ma soprattutto l’arte è debitrice. 




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