Marlene Dumas
Sweet Nothings. Notes and Texts. Parte Terza
A cura di Mariska van den Berg
Seconda edizione, rivista ed ampliata.
Londra, Koenig Books, 2014
(Recensione di Francesco Mazzaferro)
[Versione originale: marzo 2015 - nuova versione: aprile 2019]
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| Fig. 3) Il catalogo della mostra comparativa di Dumas e Bacon al Castello di Rivoli, 1995 |
Il ruolo della sessualità – non il
nudo, ma la pornografia
Non si può parlare di Marlene Dumas senza affrontare il tema della sessualità, anche sessualità esplicita. Il parallelismo tra pittura e scrittura è anche qui certamente molto importante, in termini per molti versi assai sorprendenti.
“I miei lavori migliori sono
esibizioni erotiche di
confusioni mentali
(immischiate di
informazioni irrilevanti)” [55]
esibizioni erotiche di
confusioni mentali
(immischiate di
informazioni irrilevanti)” [55]
(da: Gli occhi delle creature notturne, 1985)
“Io scrivo
perché amo le parole.
O piuttosto, che cosa è più erotico di un corpo con sex-appeal?
Una frase con sex appeal.”
O piuttosto, che cosa è più erotico di un corpo con sex-appeal?
Una frase con sex appeal.”
(da: Perché io scrivo sull’arte ,1992)
L’onnipresenza della sessualità nell’arte di Marlene Dumas ha anche
componenti lessicali, difficili da spiegare in italiano. Rifacendosi al
celeberrimo saggio del critico d’arte John Berger Ways of Seeing pubblicato nel 1972 (e tradotto Questioni di sguardi in italiano nel 2009), [57] la Dumas si rifà
ad una differenza lessicale di difficile traduzione in italiano. In inglese il
termine ‘nudo’ si esprime con ‘nude’,
termine di origine francese oppure, con ‘naked’,
di origine germanica (naakt in
olandese, nackt in tedesco). Il primo
indica il nudo classico, quello che si studia all’accademia, ed è il termine
usato nella storia dell’arte; il secondo è il corpo discinto, nella sua
materialità. Il nude è, a parere
della Dumas, un concetto pubblico e generale; il naked è un concetto privato ed intimo. La pittrice è interessata solamente al
secondo, la nakedness, la nudità in
senso corporeo, personale, non artistico: la propria carne.
Nel 1986 la pittrice ha ancora dubbi:
“Al momento la mia arte
è situata tra
la tendenza pornografica
a rivelare ogni cosa
e l’inclinazione erotica
a nascondere di quel che si tratta”
(da: Tendenza pornografica, 1986) [58]
è situata tra
la tendenza pornografica
a rivelare ogni cosa
e l’inclinazione erotica
a nascondere di quel che si tratta”
(da: Tendenza pornografica, 1986) [58]
È del 1987 il quadro “La particolarità della nudità” (The Particularity of Nakedness).
“Alcuni
commenti dai miei spettatori sul dipinto La particolarità della nudità: una donna (scrittrice) mi ha detto che era
stata molto delusa nel vedere quest’opera; a lei piacevano molto i miei lavori
precedenti, più concettuali, ma che quel che stavo producendo era pittura per
omosessuali. L’ha chiamata pittura omosessuale?! Diceva che il mio uomo era
troppo passivo. Riusciremo mai a superare il dualismo etero/omosessuale? Un
uomo (direttore di museo) mi ha detto che il quadro era un fallimento perché
era troppo basato su elementi orizzontali. Appena di recente ho visto che John
Baldessari ha fatto un lavoro Uomini orizzontali (1984). Ha detto che era l’inverso di un uomo verticale, e dunque la
misura di tutte le cose. Era l’alternativa vulnerabile dell’uomo verticale. Mi
è piaciuto. Le difficoltà di quest’opera mi hanno fatto pensare alla tematica
della rappresentazione dei genitali di Cristo (vi ricordate La sessualità
di Cristo [Nota dell’editore: Leo
Steinberg, La sessualità di Cristo nell'arte rinascimentale e il suo oblio
nell'epoca moderna, Il Saggiatore, 1986], anche se al contrario.
La mia immagine era percepita come “non sufficientemente forte”. Entrambi
volevano la figura eretta, in un modo o nell’altro.” [59]
Le esitazioni scompaiono, ed i commenti negativi sul ruolo troppo passivo
dei nudi spingono ad accentuare l’immagine, ormai ispirata ad immagini del
tutto esplicite, tratte dalla produzione dell’industria del sesso. La
pornografia diviene la forma ultima di arte figurata.
Marlene Dumas e la scuola di Londra
Non sorprende che l’opera della Dumas sia stata spesso associata ai grandi
della scuola di Londra. Si pensi a Francis Bacon (1909-1992), a Lucian Freud (1922-2011) e
tra le più giovani a Jenny Saville (1970-). Personalmente, condivido: è un
accostamento che traccia una storia lineare dell’arte figurativa in Europa. È
da Bacon che è venuto un impulso decisivo a recuperare, nel dopoguerra, la
rappresentazione – tragica e disperata – del corpo umano. È da Londra (per la
prima volta non da Parigi, che era il luogo della nascita dell’arte astratta, o da New York, patria dell’espressionismo astratto) che è venuto l’impulso più
forte in Europa per centrare di nuovo l’arte figurativa sul nudo. È inevitabile
che Marlene Dumas a quest’esperienza sia accostata e con essa confrontata.
D’altro lato, non bisogna dimenticare che l’artista – come ricordato nei
post precedenti – aveva definito Bacon, nel 1989, come ‘troppo controllato e
manierista’ e lo aveva collocato nel gruppo degli artisti per il quale la
passione giovanile si era ormai spenta.
Va detto che almeno due elementi legano – almeno concettualmente – i due
artisti. Vorrei esaminarli dal punto di vista delle fonti di storia dell’arte,
una prospettiva che non è necessariamente quella della mostra comparativa del
Castello di Rivoli del 1995. [60]
In primo luogo, con Bacon non si ha solamente la riscoperta della figura
umana, ma anche della discussione sull’arte da parte del pittore. Stiles e Pelz
scrivono nel loro “Teorie e documenti dell’arte contemporanea. Un libro delle
fonti degli scritti degli artisti”: “Tra il 1962 ed il 1979 Bacon ha dato sette
interviste al critico d’arte David Sylvester, che [secondo Stephen Spender, che
scrive nel 1975] ‘possono aver avuto un’influenza sulla pittura nell’ultimo
quarto di secolo come gli scritti critici di Ezra Pound e T.S. Eliot sulla
poesia degli anni 1920 e 1930.” [61] Dunque, Stiles e Pelz tracciano, un
forte legame tra figurato e poesia anche nel caso di Bacon.
In secondo luogo, Bacon – come la Dumas – fa uso della macchina fotografica e delle immagini di stampa come strumento intermedio tra realtà e pittura, anche se in modo diverso dalla Dumas. Come scrivono Marente Bloemheuvel e Jan Mot: “A partire dai suoi primi importanti lavori degli anni Quaranta sino alla morte, nel 1992, Francis Bacon dipinse gli esseri umani in situazioni di conflitto e violenza. Le sue figure distorte, sezionate, serrate in strutture geometriche soffrono e gridano di dolore. L’opera non ci rivela la causa di questa sofferenza e sembra che la vita stessa ne sia l’origine. Importanti fonti di ispirazione sono per Bacon le fotografie di amici, opere d’arte del passato e immagini tratte dai mass media. Ne sono ben noti esempi i dipinti basati sulle fotografie di Eadweard Mutbridge [nota dell’editore: 1830-1904, un pioniere della fotografia, specializzato nello studio del movimento tramite immagini fotografiche] e quello in cui l’artista usò un fotogramma della bambinaia del film di Eisenstein La corazzata Potemkin. Bacon non traspose mai queste fotografie direttamente sulla tela. ‘Nel mio caso – disse – le fotografie diventano una specie di miscela da cui di tanto in tanto emergono immagini’ “. [62]
Il paragone con Bacon in occasione
della mostra al Castello di Rivoli del 1995, è una prova impegnativa per Dumas, che non a caso prende la penna per chiarire le cose. La traduzione è di Lucia
Borro: è la versione italiana pubblicata nel catalogo della mostra al Castello
di Rivoli. [63] Da un punto di vista lessicale, è una traduzione libera
dell’originale (pubblicato in seguito in Sweet
Nothings [64]). In particolare, alcune
caratteristiche del testo originale (che era più orientato alla poesia che alla
prosa) sono state modificate nel testo per il pubblico italiano, forse per
evitare un’eccessiva sorpresa.
"Bacon e Dumas
-O del disagio
di essere “accoppiati” " (1995) [65]
È difficile per me essere associata a qualcuno,
perché impiego talmente tanto ad ammetterlo
pubblicamente
che quando me ne rendo conto, non mi sembra più
vero.
Tutti gli
artisti volenti o nolenti devono partecipare a mostre collettive. Far parte di una collezione, e/o della storia dell’arte significa
essere posti in relazione con altri artisti, per la maggior parte della stessa
generazione o con altri del cosiddetto stesso stile ed interesse,
ho fatto mostre collettive,
ho fatto mostre personali,
ma non sono mai stata “accoppiata”
in una mostra.
Non mi piacciono
“le coppie” (il che non significa che non le dipinga). È parte inevitabile
della nostra cultura. Credo che tutto possa esser messo in relazione, ma qualche volta si eccede. Alcuni confronti
sono così evidenti che sfidano ogni negazione, altri possono risultare più
forzati. (…)"
Dumas continua:
Dumas continua:
“(…) Sicuramente Bacon, se ne avesse avuto la facoltà [n.d.r. era morto tre anni prima], non avrebbe
acconsentito a partecipare a questa mostra (come ha fatto la Marlborough Gallery. [n.d.r. si tratta della galleria londinese che gestisce gran parte
dell’eredità di Bacon] perché non avrebbe gradito vedere il suo lavoro in
relazione al mio. Egli voleva confrontarsi solo grandi artisti (Velázquez e
Michelangelo). Io invece mi confronto con chiunque capiti sul mio cammino.
Come ha detto Jan Andriesse: “La differenza tra te e lui è che Bacon ha un
gusto discriminante, tu no.
Si tratta dunque di una relazione forzata?
Non esattamente. Non è stata auspicata né da me né da lui, ma organizzata
da altri. Ciò nonostante dire sì a questo progetto mi ha fatto sentire
(inizialmente) come se tentassi di sedurre o fare delle avances inopportune al Papa, come spinta
dall’afrodisiaco della Sua autorità. D’altra parte quale donna della nostra
epoca vuole essere associata al Papa alla fine del Ventesimo secolo (come al solito, ero
combattuta)?
Bacon, come del resto Picasso, è un artista che merita un po’ di riposo
dopo la morte. Entrambi, ognuno a modo proprio, sono talmente usati dai media e
talmente noti all’opinione pubblica che ci si dimentica della loro opera.
Picasso è semplicemente diventato Mr. Macho e Bacon Mr. Horror. (…)
In tutti i casi, sono rimasta intrappolata tra la mia ammirazione giovanile
per Bacon e l’immagine in cui egli si era trasformato. Ero imbarazzata sia per
lui che per me stessa. Eppure non conosco nessuno appartenente alla generazione
successiva alla seconda guerra mondiale che abbia mai voluto dipingere un
ritratto o una figura umana (qualunque fosse la sua intenzione) che abbia
potuto fare a meno di guardare Bacon. L’artista olandese Emo Verkerk mi confidò
di avere iniziato il suo primo disegno ispirandosi a quella (ormai famosa e
classica) intervista di Sylvester a Bacon.” [66]
Segue un gioco – sempre in versi – in cui Dumas elenca prima le ragioni per cui avrebbe dovuto di no a tenere una mostra parallela con bacon, e poi i motivi per cui avrebbe dovuto dire di no Bacon. Il gioco in versi si conclude, sempre nella traduzione di Laura
Borro, con alcune frasi in prosa:
“Ragioni per dir sì (in ordine casuale).
Alla fine poi non ho saputo resistere alla tentazione. Come se Bacon avesse
detto: ‘Un artista non deve aver timore di prendersi in giro.’ O come dico io:
‘una donna non deve aver paura di essere chiamata una poco di buono’.
Bacon e Dumas sono stati accusati di crimini differenti ma simili.
C’è il suo nichilismo e la mia indifferenza.
C’è il nostro interesse comune per Picasso, per il cinema, per la
fotografia e per la crudeltà della vita.
C’è la nostra dipendenza dal caso.
E l’accusa che entrambi usiamo immagini di infelicità, orrore gotico, e il
sensazionalismo dei soggetti. E per ultimo, ma non meno importante, c’è il
problema della sessualità: a lui piacciono gli uomini e anche a me.” [67]
Ecco una dichiarazione della Dumas che chiarisce un elemento fondante
dell’arte figurativa del XX secolo: se nel Rinascimento la figura umana ed il
nudo erano in funzione della centralità dell’uomo nel creato, se nel Barocco
erano in funzione dell’esuberanza felice della vita, la riscoperta del
figurativo a partire dalla scuola di Londra ha il solo fine di certificare la
sofferenza dell’uomo, le sue incertezze, la sua perdita di centralità. Vi è
dunque una continuità tra l’arte di fine secolo dell’Ottocento ed il primo
Novecento (caratterizzata da decadenza, simbolismo e deformazione) e la
riscoperta a Londra della figura umana nell’arte. Dopo il bagno nell’astrattismo
e nel concettualismo, la pittura riscopre la persona non per celebrarne la
vittoria sull’astrazione, ma per notificarne il dramma, la miseria,
l’immersione in un universo ostile. Nel 1959 Peter Selz ha tenuto al MoMa di
New York una delle prime mostre sulla riscoperta dell’uomo nella pittura
contemporanea, intitolata “New images of man”, (Le nuove immagini dell’uomo) [68].
Il catalogo è disponibile su internet [69] e vale la pena sfogliarne le pagine.
L’introduzione è del filosofo esistenzialista e teologo protestante tedesco
Paul Tillich: “Così come l’arte più astratta di questo periodo, queste immagini
prendono la situazione umana, la situazione difficile dell’umanità, invece
della struttura formale, come punto di
partenza. L’esistenza, e non l’essenza, è il centro di maggior attenzione per
loro.” [70]
E sarebbe davvero bello poter percorrere in questi giorni una mostra che
allargasse la comparazione Dumas-Bacon della mostra al Castello di Rivoli e
illustrasse le varie componenti del figurativo contemporaneo, ovviamente non
solo con le pitture della Dumas e della scuola di Londra, ma almeno con le
numerose esperienze dell’arte figurativa contemporanea in Europa (la Figuration narrative in Francia, la Transavanguardia in Italia, i Nuovi Selvaggi in Germania Occidentale,
la scuola di Lipsia nella Germania
orientale e molti altre). E sarebbe ancora più interessante analizzare il
rapporto dei maggiori artisti figurativi con fotografia e cinema (si pensi a
Gerhard Richter in Germania e Jacques Monory in Francia, artisti che – in modo
assai diverso – utilizzarono anch’essi la fotografia come strumento intermedio
tra realtà e pittura). Ed infine bisognerebbe considerare il ruolo che per
molti di essi (ancora Richter e Monory) la scrittura sull’arte ha avuto nella definizione
della loro identità artistica.
Impegno politico
Negli ultimi anni la riflessione sugli avvenimenti di Africa e Medio
Oriente si è imposta all’attenzione di Marlene Dumas, in un tentativo di
affrontare tutti i termini del problema. Per essere creibile, la pittrice
ha dovuto ovviamente discostarsi dal genere del ritratto. È invece rimasta la
consuetudine di far uso d’immagini a stampa. Alla pittura di quadri di chiara
ispirazione politica è ovviamente corrisposta anche la scrittura di testi sulla
necessità di risolvere il conflitto israelo-palestinese, i cui titoli sono
eloquenti: “La terza guerra mondiale”(2009), “Contro il muro” (2010), “Contro
il muro. Lettera a David”(2010). Si tratta di testi pacifisti, che condivido,
ma discuterne il contenuto politico non è al centro di questo articolo. È
sufficiente dire che l’origine sudafricana della Dumas ed il rimorso per
l’apartheid si trasfigurano sempre in un elemento di solidarietà umana con la
parte più debole del conflitto.
Alla difficile emancipazione dell’Africa sono invece dedicati i due quadri dal
titolo “La vedova”, entrambi del 2013. È la storia di Pauline Lumumba, che nel
1961 attraversò a seno nudo (in segno di lutto, secondo i costumi locali) la
città di Leopoldville (l’attuale Kinshasa) per ottenere invano la salma del
marito, primo presidente del Congo belga indipendente, dopo che questi era stato
assassinato da ribelli anti-governativi del Katanga e che la sua salma era
stata occultata. In una conversazione con Theodora Vischer nel catalogo unico
per la mostra allo Stedelijk Museum, la Tate Modern e la fondazione Beyeler,
l’autrice racconta di aver visto per la prima volta in Olanda la foto, e di
aver già realizzato un’opera basata su di essa nel 1982, in forma di collage.
Il mio primo impiego di
quell’immagine fu per questo collage del 1982. Usai tre donne: la moglie di
Mandela, Winnie, la moglie di Malcom X, Betty, e la moglie di Lumumba, Pauline:
una sudafricana, un’americana ed una congolese. Quando quest’opera è stata
mostrata, sia in America sia in Europa, la gente ha sempre commentato che si
trattava dell’apartheid in Sudafrica. Ma in realtà riguardava la storia
americana, il passato del Congo e la storia del Sudafrica. Il collage era su
tre donne. Erano tutte e tre di colore, ma erano di luoghi diversi. I loro
mariti erano stati in prigione quasi per un’eternità, come nel caso di Winnie
Mandela, il secondo era stato appena assassinato ed il terzo era stato
anch’egli brutalmente ammazzato. Quelle donne avevano dovuto appena subire
un’esperienza del tutto traumatica ma – essendo le mogli di tre controversi leader
politici, uomini troppo onesti per i loro tempi – era stato chiesto loro di
commentare immediatamente la loro tragedia. (…)" [71]
“Ho prodotto
prima di tutto il quadro più grande. In questo quadro ho specificatamente posto
l’enfasi sul contrasto tra i colori bianco e nero: gli uomini indossano camicie
bianchissime che producono questa luce assai chiara, e – dall’altro lato – i
pantaloni scuri, le gambe nere. Il resto della pittura è tutto in blu, tonalità
bluastre, il suo volto scuro e le loro facce blu-chiaro… Il dipinto più
piccolo ha tutti questi verdi artificiali, mentre i bianchi sono più rosati.
Nel collage l’immagine è usata come un documento. Non ho cercato di renderla
più calda o più impressionistica. Nella pittura, invece, io cerco di rendere
l’immagine più toccante attraverso l’uso del colore. Ha un effetto psicologico
totalmente differente, a causa del colore e dei pennelli.
Non voglio dire che ogni pittura
debba essere ricca di gesti, ma io ne faccio ancora molto uso, cosa che è – per
certi aspetti – molto tradizionale. È tradizionale nel senso che – come in
Rembrandt e Frans Hals, la scena sembra molto realistica o illusionistica da
distanza, ma quando ti avvicini diviene quasi astratta.” [72]
Alla Guerra d’Algeria si riferiscono la Donna
d’Algeri del 2001 e il Trofeo del
2013. Anche qui l’immagine di riferimento è ben nota:
in segno di scherno due militari francesi mostrano una ragazzina algerina
completamente nuda, loro prigioniera. Si tratta, ancora una volta, di
un’immagine fotografica dei primi anni 60.
È del 2008 il testo poetico di accompagnamento, contenuto in Sweet Nothings:
“Nord Africa
(Donna d’Algeri)
Patria dello spogliarello
Patria della danza dei sette veli.
Patria degli antenati di Abramo,
da cui discendono Ebrei, Mussulmani e Cristiani.
Patria di un Dio che non vuole si riproduca la sua
immagine.
Ad Algeri Nelson Mandela ha ricevuto il
proprio addestramento militare,
imparando lezioni di tattica militare dalla guerra
di liberazione.
Delacroix ha prodotto un dipinto chiamato “Le
donne d’Algeri” (1834),
donne che si rilassano in un pacifico harem
femminile.
Nel 1954 Picasso ha prodotto uno dei tanti dipinti
sensuali
ispirati da questa fonte franco-algerina.
Egli davvero non sapeva quale direzione avrebbe
preso quest’orientalismo.
Nel 2000 ho visto una fotografia di una giovane,
in piedi nuda
trattenuta da (esibita da) due soldati francesi in
posa.
Era stata presa ad Algeri nel 1960.
Ho dipinto la mia Donna d’Algeri nel 2001.”
(2008) [73]
Marlene Dumas e l’Italia
Si è parlato,
all’inizio di questa serie di post su Marlene Dumas, delle sue mostre in
Italia, al Castello di Rivoli (1995), alla Fondazione Bevilacqua La Masa di
Venezia (2003), alla Galleria Civica Montevergini di Siracusa (2004), ed alla
Fondazione Stelline a Milano (2012). A queste mostre debbono essere aggiunte le
presenze regolari alla Biennale di Venezia (1995, 2003, 2005).
L’omaggio che la
pittrice ha fatto all’Italia è di triplice natura. In primo luogo, alcune
importanti opere sono state mostrate per la prima volta in Italia: fra quelle
incluse nei post in questo blog, ricordo per esempio la serie dei cadaveri nel
2003, Lucy nel 2004, e Pasolini, Mamma Roma e l’Omaggio a Michelangelo nel
2012. Molte altre potrebbero essere elencate.
In secondo
luogo, per queste mostre la Dumas ha anche sempre preparato nuovi testi. La
mostra di Venezia è stata da lei intitolata “Suspect” ed ha avuto come tema la morte. Sia la morte della fiducia
nelle opere d’arte sia la morte dell’uomo. Ecco due poesie composte per
l’occasione, nella traduzione di Enza Sicuri, per il catalogo della mostra.
"Suspect
Guardare immagini non avvicina alla realtà.
Induce in tentazione.
Il
problema non è la morte di un mezzo.
È che tutti i media sono sospetti.
Non si attacca il soggetto degli artisti,
si processano le loro intenzioni.
Ora che sappiamo che le immagini possono
significare qualunque cosa, da parte di chiunque, non ci fidiamo più di
nessuno, tanto meno di noi stessi. [74]
La stanza dei disegni
Non siamo
Dio o dei. Tutto ciò che otteniamo,
lo otteniamo a posteriori (dopo il fatto).
Un’immagine morta non è mai altrettanto morta
quanto una persona morta." [75]
Infine, vi sono testi
della Dumas sull’ispirazione che ha tratto dall’arte italiana, in particolare
alla mostra della Fondazione Stelline a Milano, nel 2012, intitolata “Sorte”.
Le “stelline” erano le orfane, ed il palazzo che ha ospitato la mostra era
l’orfanotrofio: un’occasione per la Dumas per confrontarsi con la sorte, intensa
nel senso antico del ‘fato’ (il nome inglese della mostra è appunto ‘Fate’). Il
testo italiano è sempre nella traduzione di Enza Sicuri.
"Written in the stars
Sorte è una parola triste. Destino è un po’ meglio.
La
Libertà è incastrata tra le due.
Più invecchi. Più ti muovi verso le ultime
possibilità.
A Milano è conservato il Cenacolo di
Leonardo da Vinci e anche la scultura a cui Michelangelo ha lavorato prima di
morire, la Pietá Rondanini, l’ultima
sua lotta con un soggetto che non è riuscito a completare. Nel 1993 ho
realizzato un’opera dal titolo The image as a Burden (L’immagine come
fardello), una metafora, una sorta di Pietà con l’artista che porta il peso del proprio soggetto. L’anno scorso ho
dipinto dei crocifissi ispirati alle sculture religiose gotiche. In realtà, l’ispirazione
derivava piuttosto dalle idee e dalle immagini di queste sculture, non dagli
oggetti in sé. E dalle ultime parole di Cristo sulla croce: “E, verso l’ora
nona, Gesù gridó a gran voce: Elí, Elí, lamà sabactàni? Cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt. 27,46).
Questo mi fa venire in mente un altro artista
legato a Milano, Maurizio Cattelan (Padova, 1960), che comprende molto bene il
rapporto tra una scultura e l’immagine di una scultura. La sua controversa
opera sul Papa colpito da un meteorite si intitola La nona ora
(1999). Spesso i lavori di Cattelan sembrano cercare una qualche formula magica
per cambiare la sorte avversa o aiutarci a sfuggire il fatalismo … o la
prigione che l’arte può diventare. [...]
Nel tentativo di combinare la Pietà incompiuta di
Michelangelo e le orfane delle Stelline, sono arrivata a tre classici del cinema
italiano in bianco e nero: Il Vangelo secondo Matteo (1964) e Mamma Roma (1962) di
Pier Paolo Pasolini e La ciociara
(1960) di Vittorio de Sica.
Ho passato intere notti a cercare di dipingere un
ritratto di Sophia Loren che piange per la violenza subita dalla figlia ne La Ciociara.
Non ha funzionato (una volta lei stessa ha detto, sebbene in tutt’altro
contesto: “Se non hai mai pianto non puoi avere dei begli occhi”). Ho anche
tentato di dipingere la madre di Pasolini nel Vangelo secondo Matteo, dove aveva il ruolo di Maria da vecchia,
ma anche questo non ha funzionato.
Alla fine, il mio modello è diventata Anna Magnani
nella parte di Mamma Roma, che grida tutto il dolore di una madre che ha perso
suo figlio. Per lo più raffigurazioni della Pietà hanno a che fare con il lutto e
l’accettazione del dolore. La dolente Pietà Rondanini è una madre che cerca di sollevare il corpo del figlio nel tentativo
di resuscitarlo dalla morte, non volendo accettare l’inaccettabile.” [76]
Conclusioni
Scrivendo sul catalogo della mostra itinerante tra
Amsterdam, Londra e Basilea, Marlene Dumas apre le sue riflessioni con la frase
“Io non sono una pensatrice lineare”.
[77]
È qui tutto il fascino, ma anche tutta la
difficoltà del suo tentativo di scrivere d’arte e di se stessa come artista,
senza ricorrere ad alcuno degli strumenti consueti (i trattati, i saggi, le
interviste, le lettere) della letteratura artistica, ma facendo uso di un mezzo
inconsueto per i nostri tempi: la poesia, come strumento di narrazione
sull’arte.
Viene subito a pensare all’età barocca, quando
poemi d’arte in rima non erano infrequenti. Anche la scelta del metodo
pittorico, tutto incentrato, con l’eccezione della produzione politica, su un
solo genere (il ritratto) e su un solo metodo (l’appropriazione dalla
fotografia), sembra ricalcare un gusto ricercato e singolare.
Se l’attitudine è barocca, lo stile è di un
espressionismo intimista, ispirato ad un minimalismo sia dei mezzi pittorici
sia di quelli verbali.
Vi è una chiara corrispondenza tra l’uso della
lingua (la poesia) e quello della pittura (il ritratto): Sweet nothings si avvia nel 1982 quando l’artista – sotto
l’influsso dell’arte americana – sceglie di abbandonare l’espressionismo
astratto e si affida al figurativo.
Pur a fronte dell’uso di strumenti inconsueti di
narrazione, l’intenzione della Dumas di utilizzare la lingua scritta come
elemento indispensabile all’artista per sottrarsi al controllo esterno della
critica è fermissima. Dunque, per sua stessa ammissione, non una pensatrice
lineare, ma una pensatrice autonoma, che vuol poter scrivere di se stessa.
Due sono le ragioni per le quali far stabile uso
della lingua è fondamentale. Primo, l’opera d’arte non contiene da sola un
messaggio completo ed univoco che possa auto-rivelarsi. Infatti, pur sempre
inspirata dalle immagini di stampa o delle fotografie, la pittura si emancipa
da quest’ultime, acquisendo nuovi significati che richiedono chiarimento.
Secondo, scegliendo lo strumento linguistico preferito, ogni artista può
selezionare il proprio linguaggio e stile di comunicazione, anche in conformità
a quello artistico.
Gli anni Ottanta si confermano un periodo di
recupero della centralità della letteratura artistica, basata sul binomio
bi-direzionale tra parola da un lato e arte figurata dall’altro, lungo una
tradizione aperta da Bacon negli anni 1950-1960 ed ancora oggi vivissima. Nel
momento in cui si riscoprono la pittura e la figura umana, si riscopre anche la
centralità, per l’artista moderno, della capacità di scrivere (o discutere)
sull’arte.
Nasce così non solamente un nuovo episodio
dell’arte figurativa, ma in parallelo un nuovo episodio di diffusione della
letteratura artistica. Il nuovo ciclo dell’arte figurativa ha per oggetto il
dramma profondo della condizione umana; in piena sincronia la letteratura
artistica non ha la forma rassicurante del saggio ma quello interrogante della
poesia.
Non è un caso che l’arte astratta, ispirata da una
profondissima spiritualità (il testo fondamentale è “La spiritualità nell'arte”
di Kandinskij, del 1910), abbia avuto il suo culmine degli anni della
ricostruzione postbellica, anni di grande energia e quasi illimitata fiducia
nel progresso, mentre il figurativo si sia imposto nei decenni in cui
emergevano i limiti dello sviluppo economico e le difficoltà della
governabilità globale.
Oggi domina il figurativo, ma è il segno non di un recupero di fiducia, ma di nuova crisi. Note
[55] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, Seconda edizione, rivista
e ampliata, Londra, 2014. La citazione è a p. 27
[56] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 11
[57] Berger, John - Ways of Seeing,
1972), tr. Maria Nadotti, Questioni
di sguardi, Torino: Bollati Boringhieri, 2009
[58] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 33
[59] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 65
[60] Marlene Dumas
Francis Bacon, Castello di Rivoli, Milano, Edizioni Charta, 1995, pp. 199. La
mostra si è tenuta dal 5 giugno al 1 ottobre 1995. Si era precedentemente
tenuta anche alla Malmö Konsthall, tra il 18 marzo ed il 14 maggio.
[61] Stilles Kristine e Selz Peter,
Theories and Documents of Contemporary Art. A Sourcebook of Artists’ Writings,
Second Edition, Revised and Expanded, Berkeley and Los Angeles, University of
California Press, 2012. La citazione
é a pagina 192.
[62] Marlene Dumas
Francis Bacon, Castello di Rivoli, (citato) p. 13
[63] Marlene Dumas
Francis Bacon, Castello di Rivoli, (citato) p. 13
[64] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 pp. 176-177
[65] Marlene Dumas
Francis Bacon, Castello di Rivoli, (citato) pp. 27-33
[66] Marlene Dumas
Francis Bacon, Castello di Rivoli, (citato) p. 29
[67] Marlene Dumas. The Image as
Burden, Londra, Tate Publishing, 196 pagine. Il testo é alle pagine 178-179
[68] Selz, Peter - New Images of Man,
New York, Museum of Modern Art Publications, 1959, 160 pagine. La mostra si è tenuta tra il 30 settembre ed il 29
novembre.
[70] Anche in Stiles Kristine e Selz
Peter, Theories and documents (citato), p. 192
[71] Marlene Dumas. The Image as
Burden (citato), p.169
[72] Marlene Dumas. The Image as
Burden (citato), pp. 169-170
[73] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), p. 152
[74] Marlene Dumas,
Suspect, a cura di Gianni Romano, Ginevra-Milano, Skira, 2003. La citazione è a
pagina 35 (in italiano ed in inglese). Il testo inglese è anche pubblicato in Dumas,
Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), p. 134.
[75] Marlene Dumas,
Suspect, (citato), p. 80 Il testo inglese è anche pubblicato in Dumas, Marlene
– Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), p. 134.
[76] Marlene Dumas. Sorte, a cura di Giorgio Verzotti, Milano, Silvana
Editoriale, 2012, 120 pagine. La mostra si è tenuta tra il 13 marzo ed il 17
giugno 2012 alla Fondazione Stelline di Milano.
[77] Marlene Dumas. The Image as
Burden, (citato), p. 11

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