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giovedì 19 marzo 2015

Marlene Dumas. 'Sweet Nothings. Notes and Texts'. Londra 2014. Parte Seconda


Marlene Dumas
Sweet Nothings. Notes and Texts. Parte Seconda

A cura di Mariska van den Berg

Seconda edizione, rivista ed ampliata.
Londra, Koenig Books, 2014

(Recensione di Francesco Mazzaferro)

[Versione originale: marzo 2015 - nuova versione: aprile 2019]

Fig. 2) 'Sweet Nothings': la seconda edizione (2014) pubblicata da Koenig Publishing a Londra


Perché dipingo

No, non sono tutti auto-ritratti.
No, non è sempre mia figlia. No, non ho avuto un’infanzia infelice.
No, non sono mai stata in terapia.
No, non sono mai andata a letto con i direttori dei musei.
Sí,  trovo che la compassione sia la cosa piú difficile che ci sia e
che non sia compatibile con la creativitá.
Sí, mi considero il migliore esempio del male.

(da Dai alle persone quel che vogliono, 1993) [40]

Il titolo del mio autoritratto Il Male è banale (1984) si riferisce anche a questi temi. Ognuno è potenzialmente capace di crudeltà estrema, se le circostanze lo spingono abbastanza. La matrigna dai capelli scuri può essere una persona meravigliosa, mentre la bionda madre dalla voce vellutata potrebbe essere una strega. Noi non sappiamo (non possiamo sapere) che cosa possa succedere, sul momento.”

(da L’amante perfetto, l’amante assente e la figlia, 1996) [41]

Alcuni interpretano queste parole come un riferimento al regime sudafricano dell’apartheid, dove anche la persona più dolce era una potenziale complice di un sistema razzista. Marente Bloemheuvel e Jan Mot scrivono, nel testo “La peculiarità di essere umani”, nel catalogo della mostra “Marlene Dumas Francis Bacon” al Castello di Rivoli del 1995: “Nel dipinto  The Banality of Evil [La banalità del male], 1984, l’artista ha usato una sua fotografia e ha cancellato l’interno dell’auto sullo sfondo in modo che la testa venisse isolata in uno spazio astratto. Il titolo, mutuato da un testo di Hannah Arendt sulla burocrazia dell’Olocausto, prende questo innocente ritratto di giovane donna radiosa e e lo fa diventare strumento per un dibattito sulla discriminazione razziale. La pelle bianca rende Dumas involontariamente complice dell’oppressione nella sua patria. L’artista sente questa responsibilità e il bisogno di giustificare la propria posizione a se stessa e agli altri.” [42]

Nel momento piú intimo della confessione, la pittrice racconta di sé come di una donna che ha radici in continenti diversi, si è mossa del Sudafrica dell’apartheid all’Olanda liberale e tollerante, ha un cognome di origine francese ed ama l’arte contemporanea statunitense. Proprio per questo, una donna dall’identità complessa ed indefinita.

"Casa è dove si porta il cuore" (1994) [43] 

La mia terra paterna è il Sudafrica
la mia lingua madre è l’Afrikaans
il mio cognome è francese.
Io non parlo francese.
Mia madre ha sempre voluto che andassi a Parigi
pensava che l’arte fosse francese,
per via di Picasso.
Io pensavo che l’arte fosse americana,
a causa di Artforum.
Pensavo che anche Mondrian fosse americano,
e che il Belgio fosse una parte dell’Olanda.
Io vivo ad Amsterdam
ed ho un passaporto olandese.
A volte penso di non essere un’artista vera e propria,
perché il mio cuore è troppo diviso;
e io non so mai dove sono
.”

Dunque, una donna che ama le proprie contraddizioni. Si leggano alcuni versi di Donne e Pittura del 1993, una lunga dichiarazione in versi in cui l'artista ragiona sulla propria scelta di dipingere:

Io dipingo perché sono una donna.
(È una necessità logica).
Se dipingere è femminile e la pazzia è una malattia femminile, allora tutte le
pittrici sono pazze e tutti i pittori sono
donne.

Io dipingo perché sono una donna bionda artificiale.
(Le brunette non hanno scuse) […]

Io dipingo perché sono una donna di campagna.
(Ragazze intelligenti e di grandi città non dipingono) […]

Io dipingo perché sono una donna religiosa.
(Io credo nell’eternità).
[…]

Io dipingo perché sono una donna di vecchi costumi.
(Io credo alle streghe). […]

Io dipingo perché sono una donna sporca.
(Dipingere è un vero caos). […]

Io dipingo perché mi piace essere comprata e venduta.
[…]

(da Donne e pittura, 1993) [44]


Dall’astrazione al neo-espressionismo

La pittrice ci spiega di aver studiato in Sudafrica in piena fase di dominio dell’astrattismo. In un collage del 1982, pubblicato in “Sweet Nothings”, scrive di aver vissuto l’astrazione con un complesso di colpa, perché troppo distante dalla concretezza della vita. [45] Nel 1987, la questione viene approfondita in maniera più analitica:

Andai alla scuola d’arte in Sudafrica tra il 1972 ed il 1975. Gli insegnanti mi dicevano che  ‘l’illustrazione’ ed il ‘letterale’ erano i peccati più gravi. Così come lo capii io, il tema (qualsiasi esso fosse) non doveva essere facilmente riconoscibile o (meglio ancora) non doveva essere affatto riconoscibile. Insomma, qualsiasi motivo che derivasse dalla realtà, dalla superficie, dall’apparenza esterna delle cose doveva essere distorto o corretto. Immaginazione, non imitazione. Chi potrebbe non essere d’accordo? Ma io non ero soddisfatta di quella situazione. Qualcosa si stava insinuando in me. La musica pop, la letteratura ed il cinema usavano temi cui ognuno poteva fare riferimento diretto, ma che la pittura non aveva (più) il permesso, la possibilità o la volontà di affrontare”. [46]

È l’artista canadese Jeff Wall (1946-) a portare Marlene Dumas sul sentiero dell’arte figurativa. Wall fotografa delle scene che sono artificialmente preparate, come nella scena di un film. Le immagini fotografiche, che sono incluse in grandi scatole e proiettate come diapositive retroilluminate, hanno un enorme successo alla mostra Documenta 7 di Kassel nel 1982. Molte delle sue opere principali (si veda Immagine per donne) sono concepite come rivisitazioni di capolavori del passato (in questo caso, "il Bar delle Folies-Bergère” di Manet), e da lui definite “la pittura della vita moderna”. Quella del 1982 è anche la prima Documenta a cui partecipa Dumas, all’epoca ancora sconosciuta. I primi scritti contenuti in Sweet Nothings sono proprio di quell’anno: si può dunque dire che la scoperta dell’arte figurativa e il desiderio di darne un’interpretazione autentica a mezzo della scrittura viaggino di pari passo.

Dumas è conquistata dal lavoro di Wall, che pone (sia pure in termini diversi) il rapporto tra fotografia e pittura al centro dell’arte. È una transizione difficile: negli anni precedenti i suoi miti erano stati i grandi astrattisti della prima metà del secolo (Malevich, Mondrian) e l’espressionismo astratto, sulla scia dell’insegnamento di Clement Greenberg.
Le fonti pittoriche
La conoscenza della storia dell’arte è fondamentale per la pittrice sudafricana.

Quando ho visto il Prado per la prima volta, sono rimasta in soggezione davanti a Velázquez e ho capito perché è considerato il più grande pittore europeo.

Ma non ho pianto.

Poi sono entrata nella sala con le Pitture nere di Goya. Mi hanno parlato. Mi sono chiusa la bocca, volevo impedire che il diavolo entrasse. Le Parche sono la conclusione della discussione tra astrazione e l’arte figurata. Ogni cosa è allo stesso tempo in superficie ed in profondità. Le quattro figure, il cui genere è impreciso, non provocano alcuna simpatia. Sono forze, non esseri umani. Come se Goya non avesse dipinto le urla degli uomini, ma il silenzio di Dio.

Mi sono sentita così sola ed al tempo stesso a casa. Mi sono immersa in questo infuso sensuale ed infausto di riti ed esorcismi. Ho sentito gli zingari, l’islam, la cristianità e l’Africa, tutto allo stesso tempo.

E poi ho pianto.

(da Le Parche di Goya, 1996) [47]

Artisti morti" (1993)

Infine, ho scoperto in Europa gli artisti morti.
Quelli che sono più vivi della maggior parte dei viventi,
come Goya, Holbein, Manet, Degas e Courbet. La cosa
più importante, li ho potuti vedere dal vero. Ho capito
che (per esempio) la mia antipatia per l’impressionismo era basata
largamente sull’ignoranza ed il pregiudizio. Quel che pensavo (che mi era
stato detto, che avevo letto) non era quel che vedevo.
Io non ho artisti o pittori come eroi. Mi piacciono, ed uso
pezzi di molti, molti artisti e non artisti.
Non posso vivere senza gli altri. Sono il mio pubblico, il mio
fardello, la mia ispirazione, il mio tema soggettivo ed oggettivo.
” [48]


Lo dice nella sua già citata lezione al MoMa di New York del 2005, ed anzi chiarisce che l’influenza della storia dell’arte ha contributo al suo stile molto di più del fatto di essere donna. Ma Dumas non è una saggista, e forse la poesia non si addice a spiegare le fonti pittoriche. E dunque Dumas realizza nel 1989 uno schema, nella forma di disegno, dal titolo “Le pitture della figura umana”. [49] Analizzandolo, si individuano tre filoni e si capisce molta della sua arte.

Primo: vi è ina passione di base per la ‘pittura figurativa umanista’ antica e contemporanea (Holbein, Rembrandt, Gericault, Hodler, Nolde, Baselitz) anche al fine di liberarsi dal concetto – prevalente nell’arte europea del dopoguerra, dopo Auschwitz – che gli “uomini siano mostri”. 

Secondo: vi è un filone di pittura figurativa americana contemporanea (Eric Fischl, Alice Neel, Alex Katz, Robert Longo, Philip Gouston) che probabilmente costituisce un elemento di paragone per la sua arte.

Terzo: vi sono alcuni riferimenti ad artisti con cui il rapporto di simbiosi si è ormai alterato. Primo fa tutti Francis Bacon, perché “troppo controllato e manierista” (a lui Marlene Dumas è stata fra l’altro associata nella mostra del Castello di Rivoli del 1995), poi Willem de Kooning (troppo elegante) e Francesco Clemente (troppo dolce).


Alla ricerca dei riferimenti iconografici 

La realtà è ovviamente molto complessa, e Dumas gioca su un sistema di riferimenti incrociati tra arte, immagini fotografiche e cinematografiche, eventi drammatici e ri-contestualizzazione pittorica.

Il dipinto che dà il titolo alle attuali mostre europee, per esempio, è “L’immagine come fardello”, del 1993. Da un punto di vista iconografico, è chiaramente una Pietà, anche se a parti invertite: qui è l’uomo a sostenere il corpo senza vita di una donna. L’immagine è però certamente tratta da una sequenza di un film in bianco e nero del 1936, anche se il tratto della pennellata non può che ricordare la deposizione di Nolde del 1915. Il significato dell’opera è però diverso da ognuna di queste fonti: la donna è il simbolo dell’immagine, del fascino dell’arte figurativa; l’uomo la sostiene con fatica; la donna è divenuta un peso, un fardello e dunque motivo di grande sforzo. 

Anna Magnani, nel film di Pasolini, Mamma Roma, del 1962, è citata nell’omonimo dipinto del 2012. Non è impossibile però trovare in essa anche i tratti della pittura fiamminga più espressiva del secolo d’oro dei Paesi Bassi.

La serie dei cadaveri del 2003 ripropone – attraverso diverse citazioni di pittori svizzeri (Hodler, Valloton) il corpo di Cristo morto nella tomba di Holbein a Basilea.

L’opera Stern (si tratta di un riferimento al settimanale tedesco) ha anch’essa una derivazione multipla, accogliendo sia un’opera di Gerhard Richter sulla morte della terrorista Ulrike Meinhof (derivata da una foto pubblicata da Stern nel 1976), sia la famosa immagine di una vittima dell'azione terroristica al teatro Dubrovka a Mosca (forse una terrorista cecena o forse un ostaggio vittima dell’azione sconsiderata delle forze dell’ordine che usarono gas letali per cercare di liberare gli ostaggi), sia i dipinti di Hodler sulla compagna Godé-Dare sul letto di morte (Hodler è citato dalla Dumas nei suoi disegni sulla storia dell’arte, già menzionati in precedenza).

Il modello di Lucy è un quadro di Caravaggio (Il seppellimento di Santa Lucia): un chiaro omaggio al pittore italiano, dal momento che il quadro della Dumas è stata esposto per la prima volta a Siracusa, dove appunto si trova l’opera di Michelangelo Merisi.

Ed è un tributo alla Pietà Rondanini di Milano l’Omaggio a Michelangelo esposto per la prima volta al Palazzo delle Stelline nella stessa città, in occasione della mostra del 2012.


Le fonti critiche

Nel suo scritto “Angoli morti” (uno dei pochi che sia interamente concepito in forma saggistica) Marlene Dumas dà un ordine perentorio al lettore. Se si vuol capire il suo concetto di scrittura sull’arte, sono due gli scritti che debbono essere letti. Ci siamo attenuti all’ordine.

Il primo è un classico delle fonti di storia dell’arte olandese, di Theo van Doesburg (1883-1931): “I principi fondamentali delle belle arti” pubblicato in olandese nel 1919, tradotto nel 1925 a Dessau dalla Bauhaus e letto in una versione anastatica tedesca del 1966 [50]. È il testo fondamentale del movimento artistico De Stijl, e dunque la bibbia dell’arte contemporanea olandese. Fondamentale il riferimento all’obbligo dell’artista di spiegare la propria opera d’arte, facendo un uso ordinato della parola. “Delle molte critiche che si sollevano contro l’arte moderna una delle più importanti è che essa si rivolga all’opinione pubblica non solamente con l’opera d’arte ma anche con la parola. Coloro che fanno questo rimprovero agli artisti dimenticano in primo luogo che nel rapporto dell’artista con la società vi è stato uno spostamento (ed anzi uno spostamento nella consapevolezza sociale), ed in secondo luogo che lo scrivere ed il parlare dell’artista sulla sua opera sono una conseguenza naturale della generale incapacità del pubblico non professionista di capire le rivelazioni artistiche moderne. Dal momento che le opere si trovano al di là del confine della consapevolezza di molti contemporanei, sono questi ultimi a chiedere all’artista una spiegazione.” [51] Su van Doesburg Dumas nota: “È estremamente chiaro sui principi fondamentali. Mi piace la chiarezza: almeno per quel che sia possibile essere chiaro in questa professione tragica. Non è davvero necessario, almeno in questi giorni, di aggiungere uno sull’altro nuovi livelli di ambiguità. Noi sappiamo già che, per definizione, l’arte non può  che essere ambigua. Ma ciò non significa che noi si debba soccombere al principio di Duchamp del “così stupido come un pittore”. Piano piano si capirà che sto cercando di realizzare qualcosa di diverso da un’opera d’arte esatta, anche se (fino ad oggi) io non sono in grado di fissare le mie opinioni con la sua stessa lucidità.” [52]

Il secondo è il libro Trasparenze (Transparencies) di Jeff Wall, già citato come uno degli ispiratori della Dumas [53]. L’artista canadese recupera il concetto di “pittura della vita moderna” di Baudelaire come forma fondamentale dell’arte, ma decide di tradurla in una tecnologia – la diapositiva inserita in una scatola retroilluminata - che si combini con la fotografia, il film, la pubblicità.

Scrive la Dumas: “Egli dimostra che il motivo di un racconto non deve necessariamente produrre un’immagine casuale ed aneddotica, e che un interesse politico sociale non deve per forza tradursi immediatamente in un atteggiamento ideologico á la Agit-prop [n.d.r di propaganda], a condizione che l’intelligenza visuale presente sia sufficiente.” [54]


Fine della Parte Seconda


Note

[40]  Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 71

[41] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 106

[42] Marlene Dumas Francis Bacon, Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea, Milano, Edizione Charta, 199 pagine. Citazione a pagina 14

[43] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 84

[44] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 pp. 76-77

[45] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 20

[46] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 42

[47] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 105

[48] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 75

[49] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 pp. 52-53

[50] Van Doesburg, Theo – Grundbegriffe der neuen gestaltenden Kunst (Principi fondamentali delle nuove belle arti), con un contributo del curatore H.M. Wingler e una postfazione di H.L.C. Jaffé, Magonza, Editore Florian Kupferberg, Serie I Nuovi Libri della Bauhaus, 1966, pagine 75

[51] Van Doesburg, Theo – Grundbegriffe... (citato, p. 5)

[52] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 42

[53] Wall, Jeff – Transparencies, Monaco, Schirmer/Mosel Editore, 1986, 111 pagine

[54] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 43

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