Marlene Dumas
Sweet Nothings. Notes and Texts. Parte Seconda
A cura di Mariska van den Berg
Seconda edizione, rivista ed ampliata.
Londra, Koenig Books, 2014
(Recensione di Francesco Mazzaferro)
[Versione originale: marzo 2015 - nuova versione: aprile 2019]
Perché dipingo
“No, non sono tutti
auto-ritratti.
No, non è sempre mia figlia. No, non ho avuto un’infanzia infelice.
No, non sono mai stata in terapia.
No, non sono mai andata a letto con i direttori dei musei.
Sí, trovo che la compassione sia la cosa piú difficile che ci sia e
che non sia compatibile con la creativitá.
Sí, mi considero il migliore esempio del male.”
No, non è sempre mia figlia. No, non ho avuto un’infanzia infelice.
No, non sono mai stata in terapia.
No, non sono mai andata a letto con i direttori dei musei.
Sí, trovo che la compassione sia la cosa piú difficile che ci sia e
che non sia compatibile con la creativitá.
Sí, mi considero il migliore esempio del male.”
(da Dai alle persone quel che vogliono, 1993) [40]
“Il titolo del mio autoritratto Il Male è banale (1984) si riferisce
anche a questi temi. Ognuno è potenzialmente capace di crudeltà estrema, se le
circostanze lo spingono abbastanza. La matrigna dai capelli scuri può essere
una persona meravigliosa, mentre la bionda madre dalla voce vellutata potrebbe
essere una strega. Noi non sappiamo (non possiamo sapere) che cosa possa
succedere, sul momento.”
(da L’amante perfetto,
l’amante assente e la figlia, 1996) [41]
Alcuni interpretano queste
parole come un riferimento al regime sudafricano dell’apartheid, dove anche la
persona più dolce era una potenziale complice di un sistema razzista. Marente
Bloemheuvel e Jan Mot scrivono, nel testo “La peculiarità di essere umani”, nel
catalogo della mostra “Marlene Dumas Francis Bacon” al Castello di Rivoli del
1995: “Nel dipinto The Banality of Evil [La banalità del male], 1984, l’artista ha usato una sua fotografia e ha cancellato l’interno dell’auto sullo sfondo in modo che la testa venisse isolata
in uno spazio astratto. Il titolo, mutuato da un testo di Hannah Arendt sulla
burocrazia dell’Olocausto, prende questo innocente ritratto di giovane donna
radiosa e e lo fa diventare strumento per un dibattito sulla discriminazione razziale. La
pelle bianca rende Dumas involontariamente complice dell’oppressione nella sua
patria. L’artista sente questa responsibilità e il bisogno di giustificare la
propria posizione a se stessa e agli altri.” [42]
Nel momento piú intimo della
confessione, la pittrice racconta di sé come di una donna che ha radici in
continenti diversi, si è mossa del Sudafrica dell’apartheid all’Olanda liberale
e tollerante, ha un cognome di origine francese ed ama l’arte contemporanea
statunitense. Proprio per questo, una donna dall’identità complessa ed
indefinita.
"Casa è dove si porta il cuore" (1994) [43]
La mia
terra paterna è il Sudafrica
la mia lingua madre è l’Afrikaans
il mio cognome è francese.
Io non parlo francese.
Mia madre ha sempre voluto che andassi a Parigi
pensava che l’arte fosse francese,
per via di Picasso.
Io pensavo che l’arte fosse americana,
a causa di Artforum.
Pensavo che anche Mondrian fosse americano,
e che il Belgio fosse una parte dell’Olanda.
Io vivo ad Amsterdam
ed ho un passaporto olandese.
A volte penso di non essere un’artista vera e propria,
perché il mio cuore è troppo diviso;
e io non so mai dove sono.”
il mio cognome è francese.
Io non parlo francese.
Mia madre ha sempre voluto che andassi a Parigi
pensava che l’arte fosse francese,
per via di Picasso.
Io pensavo che l’arte fosse americana,
a causa di Artforum.
Pensavo che anche Mondrian fosse americano,
e che il Belgio fosse una parte dell’Olanda.
Io vivo ad Amsterdam
ed ho un passaporto olandese.
A volte penso di non essere un’artista vera e propria,
perché il mio cuore è troppo diviso;
e io non so mai dove sono.”
Dunque, una donna che ama le proprie contraddizioni. Si leggano alcuni
versi di Donne e Pittura del 1993,
una lunga dichiarazione in versi in cui l'artista ragiona sulla propria scelta di
dipingere:
“Io dipingo perché sono
una donna.
(È una necessità logica).
Se dipingere è femminile e la pazzia è una malattia femminile, allora tutte le
pittrici sono pazze e tutti i pittori sono
donne.
(È una necessità logica).
Se dipingere è femminile e la pazzia è una malattia femminile, allora tutte le
pittrici sono pazze e tutti i pittori sono
donne.
Io
dipingo perché sono una donna bionda artificiale.
(Le brunette non hanno scuse) […]
(Le brunette non hanno scuse) […]
Io
dipingo perché sono una donna di campagna.
(Ragazze intelligenti e di grandi città non dipingono) […]
(Ragazze intelligenti e di grandi città non dipingono) […]
Io
dipingo perché sono una donna religiosa.
(Io credo nell’eternità). […]
(Io credo nell’eternità). […]
Io
dipingo perché sono una donna di vecchi costumi.
(Io credo alle streghe). […]
(Io credo alle streghe). […]
Io
dipingo perché sono una donna sporca.
(Dipingere è un vero caos). […]
(Dipingere è un vero caos). […]
Io
dipingo perché mi piace essere comprata e venduta.
[…]”
[…]”
(da Donne e pittura, 1993) [44]
Dall’astrazione al neo-espressionismo
La pittrice ci spiega di aver studiato in Sudafrica in piena fase di
dominio dell’astrattismo. In un collage del 1982, pubblicato in “Sweet Nothings”, scrive di aver vissuto
l’astrazione con un complesso di colpa, perché troppo distante dalla
concretezza della vita. [45] Nel 1987, la questione viene approfondita in
maniera più analitica:
“Andai alla scuola d’arte in
Sudafrica tra il 1972 ed il 1975. Gli insegnanti mi dicevano che ‘l’illustrazione’ ed il ‘letterale’ erano i
peccati più gravi. Così come lo capii io, il tema (qualsiasi esso fosse) non
doveva essere facilmente riconoscibile o (meglio ancora) non doveva essere
affatto riconoscibile. Insomma, qualsiasi motivo che derivasse dalla realtà,
dalla superficie, dall’apparenza esterna delle cose doveva essere distorto o
corretto. Immaginazione, non imitazione. Chi potrebbe non essere d’accordo? Ma
io non ero soddisfatta di quella situazione. Qualcosa si stava insinuando in
me. La musica pop, la letteratura ed il cinema usavano temi cui ognuno poteva
fare riferimento diretto, ma che la pittura non aveva (più) il permesso, la
possibilità o la volontà di affrontare”. [46]
È l’artista canadese Jeff Wall (1946-) a portare Marlene Dumas sul
sentiero dell’arte figurativa. Wall fotografa delle scene che sono
artificialmente preparate, come nella scena di un film. Le immagini
fotografiche, che sono incluse in grandi scatole e proiettate come diapositive
retroilluminate, hanno un enorme successo alla mostra Documenta 7 di Kassel nel
1982. Molte delle sue opere principali (si veda Immagine per donne) sono concepite come rivisitazioni di capolavori
del passato (in questo caso, "il Bar delle Folies-Bergère” di Manet), e da
lui definite “la pittura della vita moderna”. Quella del 1982 è anche la prima
Documenta a cui partecipa Dumas, all’epoca ancora sconosciuta. I primi scritti
contenuti in Sweet Nothings sono
proprio di quell’anno: si può dunque dire che la scoperta dell’arte figurativa
e il desiderio di darne un’interpretazione autentica a mezzo della scrittura
viaggino di pari passo.
Dumas è conquistata dal lavoro di Wall, che pone
(sia pure in termini diversi) il rapporto tra fotografia e pittura al centro
dell’arte. È una transizione difficile: negli anni precedenti i suoi miti erano
stati i grandi astrattisti della prima metà del secolo (Malevich, Mondrian) e
l’espressionismo astratto, sulla scia dell’insegnamento di Clement Greenberg.
Le fonti pittoriche
La conoscenza della storia dell’arte è fondamentale per la pittrice
sudafricana.
“Quando ho visto il Prado per la prima volta, sono rimasta in soggezione
davanti a Velázquez e ho capito perché è considerato il più grande pittore
europeo.
Ma non ho pianto.
Poi sono entrata nella sala con le Pitture nere di Goya. Mi hanno parlato.
Mi sono chiusa la bocca, volevo impedire che il diavolo entrasse. Le Parche
sono la conclusione della discussione tra astrazione e l’arte figurata. Ogni
cosa è allo stesso tempo in superficie ed in profondità. Le quattro figure, il
cui genere è impreciso, non provocano alcuna simpatia. Sono forze, non esseri
umani. Come se Goya non avesse dipinto le urla degli uomini, ma il silenzio di
Dio.
Mi sono sentita così sola ed al tempo stesso a casa. Mi sono immersa in
questo infuso sensuale ed infausto di riti ed esorcismi. Ho sentito gli
zingari, l’islam, la cristianità e l’Africa, tutto allo stesso tempo.
E poi ho pianto.”
(da Le Parche di Goya, 1996) [47]
“Artisti morti" (1993)
Infine, ho scoperto in Europa gli artisti morti.
Quelli che sono più vivi della maggior parte dei viventi,
come Goya, Holbein, Manet, Degas e Courbet. La cosa
più importante, li ho potuti vedere dal vero. Ho capito
che (per esempio) la mia antipatia per l’impressionismo era basata
largamente sull’ignoranza ed il pregiudizio. Quel che pensavo (che mi era
stato detto, che avevo letto) non era quel che vedevo.
Io non ho artisti o pittori come eroi. Mi piacciono, ed uso
pezzi di molti, molti artisti e non artisti.
Non posso vivere senza gli altri. Sono il mio pubblico, il mio
fardello, la mia ispirazione, il mio tema soggettivo ed oggettivo.” [48]
Lo dice nella sua già citata lezione al MoMa di New York del 2005, ed anzi
chiarisce che l’influenza della storia dell’arte ha contributo al suo stile
molto di più del fatto di essere donna. Ma Dumas non è una saggista, e forse la
poesia non si addice a spiegare le fonti pittoriche. E dunque Dumas realizza
nel 1989 uno schema, nella forma di disegno, dal titolo “Le pitture della
figura umana”. [49] Analizzandolo, si individuano tre filoni e si capisce molta
della sua arte.
Primo: vi è ina passione di base per la ‘pittura figurativa umanista’
antica e contemporanea (Holbein, Rembrandt, Gericault, Hodler, Nolde, Baselitz)
anche al fine di liberarsi dal concetto – prevalente nell’arte europea del
dopoguerra, dopo Auschwitz – che gli “uomini siano mostri”.
Secondo: vi è un filone di pittura figurativa americana contemporanea (Eric
Fischl, Alice Neel, Alex Katz, Robert Longo, Philip Gouston) che probabilmente
costituisce un elemento di paragone per la sua arte.
Terzo: vi sono alcuni riferimenti ad artisti con cui il rapporto di simbiosi si
è ormai alterato. Primo fa tutti Francis Bacon, perché “troppo controllato e
manierista” (a lui Marlene Dumas è stata fra l’altro associata nella mostra del
Castello di Rivoli del 1995), poi Willem de Kooning (troppo elegante) e
Francesco Clemente (troppo dolce).
Alla ricerca dei riferimenti
iconografici
La realtà è ovviamente molto complessa, e Dumas gioca su un sistema di
riferimenti incrociati tra arte, immagini fotografiche e cinematografiche,
eventi drammatici e ri-contestualizzazione pittorica.
Il dipinto che dà il titolo alle attuali mostre europee, per esempio, è “L’immagine come fardello”, del 1993. Da
un punto di vista iconografico, è chiaramente una Pietà, anche se a parti invertite: qui è l’uomo a sostenere il
corpo senza vita di una donna. L’immagine è però certamente tratta da una
sequenza di un film in bianco e nero del 1936, anche se il tratto della
pennellata non può che ricordare la deposizione di Nolde del 1915. Il significato
dell’opera è però diverso da ognuna di queste fonti: la donna è il simbolo
dell’immagine, del fascino dell’arte figurativa; l’uomo la sostiene con fatica;
la donna è divenuta un peso, un fardello e dunque motivo di grande sforzo.
Anna Magnani, nel film di Pasolini, Mamma Roma, del 1962, è citata nell’omonimo
dipinto del 2012. Non è impossibile però trovare in essa anche i tratti della
pittura fiamminga più espressiva del secolo d’oro dei Paesi Bassi.
La serie dei cadaveri del 2003 ripropone – attraverso diverse citazioni di
pittori svizzeri (Hodler, Valloton) il corpo di Cristo morto nella tomba di
Holbein a Basilea.
L’opera Stern (si tratta di un
riferimento al settimanale tedesco) ha anch’essa una derivazione multipla,
accogliendo sia un’opera di Gerhard Richter sulla morte della terrorista Ulrike
Meinhof (derivata da una foto pubblicata da Stern nel 1976), sia la famosa
immagine di una vittima dell'azione terroristica al teatro Dubrovka a Mosca (forse una terrorista cecena o forse un
ostaggio vittima dell’azione sconsiderata delle forze dell’ordine che usarono
gas letali per cercare di liberare gli ostaggi), sia i dipinti di Hodler sulla
compagna Godé-Dare sul letto di morte (Hodler è citato dalla Dumas nei suoi
disegni sulla storia dell’arte, già menzionati in precedenza).
Il modello di Lucy è un quadro di Caravaggio (Il seppellimento di Santa Lucia): un chiaro omaggio al pittore
italiano, dal momento che il quadro della Dumas è stata esposto per la prima
volta a Siracusa, dove appunto si trova l’opera di Michelangelo Merisi.
Ed è un tributo alla Pietà Rondanini di Milano l’Omaggio a Michelangelo
esposto per la prima volta al Palazzo delle Stelline nella stessa città, in
occasione della mostra del 2012.
Le fonti critiche
Nel suo scritto “Angoli morti” (uno dei pochi che sia interamente concepito
in forma saggistica) Marlene Dumas dà un ordine perentorio al lettore. Se si
vuol capire il suo concetto di scrittura sull’arte, sono due gli scritti che
debbono essere letti. Ci siamo attenuti all’ordine.
Il primo è un classico delle fonti di storia dell’arte olandese, di Theo
van Doesburg (1883-1931): “I principi fondamentali delle belle arti” pubblicato
in olandese nel 1919, tradotto nel 1925 a Dessau dalla Bauhaus e letto in una
versione anastatica tedesca del 1966 [50]. È il testo fondamentale del
movimento artistico De Stijl, e
dunque la bibbia dell’arte contemporanea olandese. Fondamentale il riferimento
all’obbligo dell’artista di spiegare la propria opera d’arte, facendo un uso
ordinato della parola. “Delle molte
critiche che si sollevano contro l’arte moderna una delle più importanti è che
essa si rivolga all’opinione pubblica non solamente con l’opera d’arte ma anche
con la parola. Coloro che fanno questo rimprovero agli artisti dimenticano in
primo luogo che nel rapporto dell’artista con la società vi è stato uno
spostamento (ed anzi uno spostamento nella consapevolezza sociale), ed in
secondo luogo che lo scrivere ed il parlare dell’artista sulla sua opera sono
una conseguenza naturale della generale incapacità del pubblico non professionista
di capire le rivelazioni artistiche moderne. Dal momento che le opere si
trovano al di là del confine della consapevolezza di molti contemporanei, sono
questi ultimi a chiedere all’artista una spiegazione.” [51] Su van Doesburg
Dumas nota: “È estremamente chiaro sui principi fondamentali. Mi piace la
chiarezza: almeno per quel che sia possibile essere chiaro in questa
professione tragica. Non è davvero necessario, almeno in questi giorni, di
aggiungere uno sull’altro nuovi livelli di ambiguità. Noi sappiamo già che, per
definizione, l’arte non può che essere
ambigua. Ma ciò non significa che noi si debba soccombere al principio di
Duchamp del “così stupido come un pittore”. Piano piano si capirà che sto
cercando di realizzare qualcosa di diverso da un’opera d’arte esatta, anche se
(fino ad oggi) io non sono in grado di fissare le mie opinioni con la sua
stessa lucidità.” [52]
Il secondo è il libro Trasparenze
(Transparencies) di Jeff Wall, già citato come uno degli ispiratori della Dumas
[53]. L’artista canadese recupera il concetto di “pittura della vita moderna”
di Baudelaire come forma fondamentale dell’arte, ma decide di tradurla in una
tecnologia – la diapositiva inserita in una scatola retroilluminata - che si
combini con la fotografia, il film, la pubblicità.
Scrive la Dumas: “Egli dimostra che il
motivo di un racconto non deve necessariamente produrre un’immagine casuale ed
aneddotica, e che un interesse politico sociale non deve per forza tradursi
immediatamente in un atteggiamento ideologico á la Agit-prop [n.d.r di
propaganda], a condizione che
l’intelligenza visuale presente sia sufficiente.” [54]
Fine della Parte Seconda
Note
[40] Dumas,
Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p. 71
[41] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 106
[42] Marlene Dumas
Francis Bacon, Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea, Milano, Edizione
Charta, 199 pagine. Citazione a pagina 14
[43] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 84
[44] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 pp. 76-77
[45] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 20
[46] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 42
[47] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 105
[48] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 75
[49] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 pp. 52-53
[50] Van Doesburg,
Theo – Grundbegriffe der neuen gestaltenden Kunst (Principi fondamentali delle
nuove belle arti), con un contributo del curatore H.M. Wingler e una
postfazione di H.L.C. Jaffé, Magonza, Editore Florian Kupferberg, Serie I Nuovi
Libri della Bauhaus, 1966, pagine 75
[51] Van Doesburg, Theo –
Grundbegriffe... (citato, p. 5)
[52] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 42
[53] Wall, Jeff – Transparencies,
Monaco, Schirmer/Mosel Editore, 1986, 111 pagine
[54] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 43
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