Marlene Dumas
Sweet Nothings. Notes and Texts. Parte prima
A cura di Mariska van den Berg
Seconda edizione, rivista ed ampliata.
Londra, Koenig Books, 2014
(Recensione di Francesco Mazzaferro)
[Versione originale: marzo 2015 - nuova versione: aprile 2019]
Fig. 1) 'Sweet Nothings': la prima edizione (1998).
una co-produzione di Marlene Dumas e della Galleria Paul Andriesse di Amsterdam
|
Sono un’artista che usa
immagini di seconda mano
ed esperienze di prima mano
(da: Appuntamenti al buio e tende tirate, 1993) [1]
Marlene Dumas, nata in Sudafrica nel 1953 a Città del Capo, è una delle
artiste di maggior successo degli ultimi decenni. È conosciuta soprattutto per
i suoi ritratti, tutti ispirati ad immagini a stampa oppure a fotografie (molto
spesso, ma non sempre) scattate da lei stessa con la Polaroid. Gli scatti sono poi
reinterpretati e dipinti, con acquarelli, olio su tavola, inchiostro, acrilico
ed altre tecniche. La Dumas – che in Italia ha esposto a Rivoli [2] (1995),
Venezia [3] (2003), Siracusa [4] (2004)
e Milano [5] (2012) - è oggetto di interesse internazionale, tanto che è
divenuto luogo comune definirla come un’artista della globalizzazione. Lei
stessa ha scritto: “Potrei dire: Il
Sudafrica è il mio contenuto e l’Olanda è la mia forma, ma le immagini di cui
mio occupo sono poi familiari quasi ad ognuno, dappertutto.” [6]
Nel 2014 si é tenuta in Olanda (suo paese d’adozione) una retrospettiva,
dal titolo “L’immagine come un fardello”
(The image as Burden), al Museo
Civico di Amsterdam (in olandese, Stedelijk
Museum). Oggi la mostra é ospitata alla galleria Tate Modern di Londra,
dove ha attirato grandissimo interesse. Nella seconda metà dell’anno si
sposterà a Basilea alla Fondazione Beyeler. Tre appuntamenti in tre centri
nevralgici dell’arte moderna, che intendono far conoscere meglio la sua
produzione al pubblico europeo. A dimostrare che le tre mostre, in realtà, sono, singolarmente prese, parte di un progetto unitario sta il fatto che vi è un solo
catalogo a documentarle [7], anche se vi sono state e vi saranno lievi
differenze fra un appuntamento e l’altro: allo Stedelijk si è data maggiore
enfasi alle opere giovanili; al Tate Modern agli aspetti politici; alla
Fondazione Beyerler si insisterà su aspetti pittorici ed uso dei materiali.
Come sempre, il titolo della mostra (The
Image as Burden) è stato scelto dalla pittrice, ispirandosi ad un'opera di cui parleremo in seguito. Si tratta di un lavoro che simboleggia le
difficoltà (il fardello) che l’artista deve sopportare quando deve scegliere
un’immagine.
Visitando la mostra a Londra, ho avuto l’impressione di assistere ad una
testimonianza di continuità con il passato: il ritorno del ritratto e della
pittura di genere, in uno stile intimamente neo-espressionista che ricorda, al tempo
stesso, sia l’arte europea di cento anni fa sia la ritrattistica dei primitivi
olandesi. È uno stile, per molti versi, minimalista e che, dunque, spesso cerca
proprio nelle variazioni di un tema ripetuto la logica dell’arte visiva, così
come la partitura musicale minimalista si basa sulla capacità del nostro
cervello di amplificare la reazione alla minima variazione di toni, se
ripetuti. Si pensi a Steve Reich, per cercare un equivalente.
È la stessa Dumas a confermare il suo interesse per i meccanismi
minimalisti, applicandoli all’uso della parola. Lo fa in versi,
come vedremo spesso:
“Ho visto la gloria ed il potere della parola.
Ho sperimentato il potere della ripetizione,
lo stordimento dovuto all’eccitazione retorica del
ritmo.” [8]
(da Perché io
scrivo (d’arte) 1992)
Dumas è infatti anche una riconosciuta scrittrice d’arte, e suoi scritti sono stati inclusi nell’antologia di fonti di storia dell’arte contemporanea di Kristine Stiles e Peter Selz, la cui seconda edizione è apparsa nel 2012 [9]. La Dumas vi è ospitata nella sezione dedicata all’arte contemporanea figurativa (‘figuration’) che si estende per circa 130 pagine, a partire dai testi di Max Beckmann del 1948 fino a quelli di Takashi Murakami del 2000. [10]
Nel 2014, Marlene Dumas ha pubblicato la seconda edizione di un suo libro
dal titolo “Sweet Nothings” [11]: si
tratta di una raccolta, rivista ed ampliata, di scritti e soprattutto di
aforismi e poesie sull’arte. La prima edizione era comparsa nel 1998 e già
all’epoca aveva suscitato grande interesse. Un confronto tra le due edizioni
rivela che la struttura del volume originario è rimasta intatta. Le prime 121
pagine sono identiche: offrono, in sequenza cronologica, la medesima antologia
di scritti che coprono gli anni dal 1982 (quando Dumas aveva 29 anni, e si era
trasferita da sei anni ad Amsterdam, dove vive tuttora) al 1997. Segue un
aggiornamento, fino a pagina 169, di nuovi testi composti fra il 1998 ed il
2014. La sezione seguente, intitolata “La
politica (dell’arte)” copriva gli anni 1989-1997 nella prima versione (pp.
120-134) ed è riprodotta senza alcuna variazione nella seconda (pp. 172-186). È
invece del tutto nuova la sezione “Sugli
altri 1986-2014”, che include testimonianze e testi su altri artisti, tutti
contemporanei, ad eccezione di van Gogh ed Ingres (pp. 191-220). Seguono, con
le opportune integrazioni operate nella seconda edizione, immagini, indici e
note.
Il titolo del libro (Sweet Nothings)
è evocativo, più che esplicativo (come capita spesso anche nei titoli dei
quadri dell’artista): si tratta di un’espressione idiomatica, usata nella
letteratura inglese fin dal romanticismo ottocentesco, e definibile come una
serie di “parole vuote o romantiche che hanno il solo scopo di lusingare,
corteggiare o sedurre”; le nostre “paroline dolci”, se proprio vogliamo trovare
un equivalente italiano. Dumas, dunque, ci vuole trarre in inganno con
lusinghe, corteggiarci o addirittura tentare di sedurci. Non a caso, in
un’intervista ad Alessandra Klimciuk pubblicata all’interno del catalogo della
mostra di Milano del 2012, afferma: “Spesso
mi rivolgo allo spettatore come fosse il mio, o la mia, amata” [12]. Lo
stesso fa con i propri lettori e lettrici.
È chiaro che Marlene Dumas sente la necessità primaria di usare la parola
per spiegare la sua arte, che altrimenti (a suo stesso parere) non sarebbe
pienamente comprensibile: così come l’artista è sostanzialmente una pittrice di
genere (ritratto), è anche una scrittrice di genere, legata alla poesia, il
genere letterario dominante in Sweet Nothings.
Naturalmente in altre occasioni, specie all’interno dei cataloghi delle mostre,
sono reperibili anche interviste e brevi saggi. In rete è possibile anche
visionare alcune sue lezioni, molto spontanee ed interessanti [13]; ma resta il
fatto che quando deve esprimere a parole la sua arte, Dumas usa la poesia.
Nel selezionare i materiali per la seconda edizione di Sweet Nothings, la curatrice, ovvero Mariska van den Berg, segnala
di aver volutamente previlegiato quelli che più si discostano dalla scrittura
tradizionale: “Marlene Dumas ha una voce
del tutto individuale, che in nessun modo si conforma alla scrittura sull’arte.
Il tono della sua scrittura è personale, colorato di emozioni e relativizzante,
a volte beffardo e pieno di humour, riflettente la complessità della condizione
umana e delle comunicazioni
interpersonali, spesso problematiche. ‘Se vuoi realmente parlare agli altri,
prendi un buon traduttore’, ci dice. Usa parole e maniere per presentarsi
mutuandole dalla vita di tutti i giorni, spesso confrontandosi con il lettore
in maniera diretta, ricorrendo all’‘io’ e al ‘tu’. Se nell’arte inizia sempre
il lavoro da immagini che già esistono, nei suoi scritti si basa su forme
letterarie esistenti. Quando scrive d’amore, gioca con modi di dire criptici e
seducenti, la lettera d’amore e la poesia, tutti con lo scopo ultimo di dire
qualcosa sull’arte. Per citare le sue parole [14], usa tutti i ‘trucchi più banali’ per attirare l’attenzione e
relazionarsi con l’osservatore in maniera diretta (…).” [15]
Leggere i testi di Dumas suscita emozioni forti e pone domande, esattamente
come vedere i suoi dipinti. Che immagini e parole siano fra loro
indissolubilmente legate è dimostrato dallo stesso allestimento delle sue
mostre, (ad esempio quella della Tate Modern), dove il visitatore è posto di
fronte all’alternarsi dei quadri e degli aforismi dell’artista. La connessione
è ovviamente ancora più stretta all’interno del catalogo.
In realtà i testi della Dumas non forniscono risposte; forse (come a volte Dumas suggerisce, anche se
poi sembra smentirsi) poesie ed aforismi
articolano in forma scritta le medesime questioni che i dipinti pongono in
forma visiva: interrogativi che l’opera d’arte rivolge allo spettatore, così
come il testo poetico pone al lettore. Di certo, a Marlene Dumas piace più
porre domande che dare risposte: non a caso, ha più volte detto di non amare
l’essere intervistata. Nel 1987, anzi, ha pubblicato uno scritto dal titolo “Basta interviste”.
“1. Non voglio più rilasciare alcuna intervista ‘spontanea’. Presuppone
una facilità di parola che io non ho con i miei intervistatori, o con la
situazione dell’intervista. È una finzione di spontaneità.
2. L’informalità della parola parlata e la formalità della parola scritta sono
due cose differenti. Adesso più che mai.
3. Il rispetto per (o fare una distinzione tra) cose private e pubbliche è
qualcosa che viene sempre più sottovalutato.
4. Nelle conversazioni orali i gesti (insieme al tono, all’enfasi,
all’aspetto) sono veramente importanti. Ma l’intervistatore non traduce questa
gestualità. Non c’è quando scrivono su di me.
E non voglio neppure che lui o lei siano presenti con me quando rispondo
a queste domande. In tal modo, l’artificialità della conversazione non viene mascherata,
ed il materiale scritto è reso più genuinamente.
5. Io non sono un’intrattenitrice.
6. Non riesco a pensare le cose a fondo con un estraneo di fronte a me.
7. L’arte non è un tema che si addica a risposte eleganti o a chi riesce a
raccontare una barzelletta dietro l’altra.
8. L’opposto di apertura non è sempre elitarismo. Le persone hanno un
bisogno fondamentale per la riservatezza, soprattutto in un mondo bombardato da
messaggi, tranelli psicologici e manipolazioni dei media, che non hanno nulla a
che fare con amicizia o con ricerca approfondita ed analisi.
9. Io non parlo olandese.
10. Ho una galleria che è a conoscenza dei miei punti di vista.” [16]
(da Basta interviste, 1987)
Se si considera che l’intera produzione pittorica della Dumas deriva dalla
trasformazione di immagini fotografiche, si può forse azzardare un sistema di
equivalenze così descrivibile: per la pittrice sudafricana la pittura sta alla
poesia come l’immagine fotografica sta alla saggistica. Sul rapporto tra pittura
e poesia Dumas dice: “Vorrei che i miei
dipinti fossero come poesie. Le poesie sono come frasi che si sono spogliate
dei loro vestiti. Il significato di una poesia sta in ciò che produce il suo
palpito, il suo ritmo. Il modo in cui le parole si muovono sulla pagina. La
poesia è una scrittura che respira, fa dei salti, lascia spazi aperti, così che
possiamo leggere tra le righe.” [17]
Di questa equivalenza solamente la prima parte (pittura e poesia) è esplicito
per il pubblico; la seconda (fotografia e saggistica) esiste, è anch’essa
fondamentale, ha uguale valore creativo, ma non è quasi mai svelata. È anzi
l’oggetto della ricerca a cui il pubblico viene invitato: da quale foto è
derivato il quadro, e qual è il valore della poesia per la critica d’arte?
Perché scrivo (sull’arte)
Scrivo d’arte perché sono una credente.
Io credo
nel potere
delle parole
in particolare della
PAROLA SCRITTA. [18]
(da Perché scrivo (sull’arte), 1992)
Con questi versi si apre un testo programmatico intitolato “Perché scrivo (sull’arte)”, redatto per il convegno “Scrivere d’arte” che
si tenne ad Eindhoven il 30 Novembre-1 Dicembre 1991 [19]. È un testo di tre
pagine in cui ai versi si alterna la prosa.
Il convegno di Eindhoven fu l’occasione per discutere fra artisti, critici, filosofi dell’arte e curatori sulle modalità e sulla possibilità di conciliare gli scritti dei critici d’arte e quelli degli artisti. I primi possono avere carattere promozionale, essere oggettivi, esplicativi dell’opera e tecnici, mentre i secondi, per loro natura, tendono ad essere autonomi da ogni manifestazione, soggettivi, esplicativi dell’intenzione e colloquiali.
Il dibattito sorgeva a seguito delle affermazioni della scrittrice ed
intellettuale Susan Sontag, che aveva duramente preso posizione contro i
critici d’arte: “L’interpretazione è la
vendetta dell’intelletto sull’arte, il desiderio di rimpiazzarla con qualcosa
d’altro.” [20]
Al convegno parteciparono artisti concettuali come Joseph Kosuth (autore di
un’amplissima produzione critica di carattere analitico, con cui si apre la
collezione di fonti di storia dell’arte contemporanea del MIT, la “MIT Press
Writing Art series”, nel 1991 [21]). Kosuth teorizza che la partecipazione
dell’artista ad ogni discorso critico sull’opera debba essere al contempo
condizione minima e necessaria perché l’artista stesso mantenga la sua libertà,
evitando la mercificazione della sua opera.
L’intervento della Dumas al convegno è così riassunto da Selma Klein
Essink, curatrice del medesimo: “In un
contributo emotivo Marlene Dumas esamina le ragioni per le quali scrive
d’arte. Tali ragioni includono: (i) la fede nel potere della parola scritta;
(ii) il piacere di scrivere; (iii) il poter partecipare alla scrittura della
propria storia; (iv) il risolvere gli elementi di confusione e contraddizione
su temi come quale sia il ruolo che l’arte possa nella nostra società; (v) il
divertirsi nella politica dell’interpretazione, (vi) il voler scrivere in modo diverso dalla
maggior parte dei critici d’arte: non pomposo, pedante ed accademico, o
contrario a tutto per ragioni di miopia; (vii) scrivere non per promuovere o
spiegare, ma piuttosto come forma di giustificazione.” [22]
Riproponendo il testo all’interno di Sweet Nothings, Mariska van den Berg (curatrice dell’antologia) aggiunge che la Dumas è convinta che un’opera d’arte non possa parlare per se stessa. “Se un’opera d’arte non contiene in se stessa tutta l’informazione necessaria – ed infatti non la contiene, a suo parere – allora la discussione è di importanza vitale per la sua contestualizzazione. In questa discussione lei [Marlene Dumas] vuole parlare per se stessa, per evitare fraintendimenti, posto che crede che non vi sia alcuna ‘corretta interpretazione’ del suo lavoro, ma che le interpretazioni possano essere ‘più o meno creative’”. [23]
Ecco cosa dice (in versi) Marlene Dumas sulle motivazioni del suo
contributo alla letteratura artistica:
“Io scrivo perché mi piace scrivere.
Io scrivo sull’arte perché offre un contesto
(sicuro). È un
privilegio poter leggere ed essere letta. Qual
piacere avere
conversazioni con essere umani (morti e vivi)
senza doverli
incontrare. (…)
Scrivo sul mio lavoro perché voglio
parlare per me stessa.
Potrei non essere la sola competente, e neppure la più competente, ma voglio
partecipare alla scrittura sulla mia storia. Perché gli artisti dovrebbero
essere giudicati da autorità esterne? Non mi piace essere trattata con
condiscendenza o essere colonizzata da un qualsiasi Tom, Dick o Harry di
passaggio (sia uomo o donna).” [24]
(da Perché scrivo (sull’arte), 1992)
Anche qui emerge l’influenza di Susan Sontag. Il testo prosegue
trasformandosi da poesia a prosa:
“La sovraesposizione del ‘significato’ ed il suo sfruttamento. Non è la paura di essere fraintesa che mi spinge a scrivere (non più). ‘Significato’ e ‘fra-intendimento’ non sono così utili, come termini, a descrivere questioni visive. De- e re-contestualizzazione sono un elemento essenziale (part and parcel) delle esperienze creative. Lo stesso Duchamp ha fatto riferimento al rapporto tra ‘non espresso ma intenzionale’ ed ‘espresso intenzionalmente’. Dal momento che il cosiddetto spettatore passivo è scomparso, siamo ormai dipendenti da collaboratori (iper)attivi, che completano le opere d’arte. Poiché accettiamo la libertà di parola, ciò è inevitabile. Ma il problema è distinguere chi dice che cosa (e a beneficio di chi?). I critici non dovrebbero cadere nell’errore di esprimere intenzioni al contrario, giocando a fare il Freud che mi rivela le mie vere intenzioni. L’opera d’arte non è sinonimo di intenzione. È davvero strano che, sebbene praticamente tutti dicano che l’opera d’arte non dà risposte, sembrino essere sicuri che un buon lavoro ponga domande. A me sembra l’altro lato della stessa medaglia. Non mi è chiaro che cosa le opere d’arte facciano, quale ruolo esse abbiano o quale ruolo giochino nella società. Scrivere sull’arte affina le mie proprie confusioni e contraddizioni su questi temi.” [25]
“La sovraesposizione del ‘significato’ ed il suo sfruttamento. Non è la paura di essere fraintesa che mi spinge a scrivere (non più). ‘Significato’ e ‘fra-intendimento’ non sono così utili, come termini, a descrivere questioni visive. De- e re-contestualizzazione sono un elemento essenziale (part and parcel) delle esperienze creative. Lo stesso Duchamp ha fatto riferimento al rapporto tra ‘non espresso ma intenzionale’ ed ‘espresso intenzionalmente’. Dal momento che il cosiddetto spettatore passivo è scomparso, siamo ormai dipendenti da collaboratori (iper)attivi, che completano le opere d’arte. Poiché accettiamo la libertà di parola, ciò è inevitabile. Ma il problema è distinguere chi dice che cosa (e a beneficio di chi?). I critici non dovrebbero cadere nell’errore di esprimere intenzioni al contrario, giocando a fare il Freud che mi rivela le mie vere intenzioni. L’opera d’arte non è sinonimo di intenzione. È davvero strano che, sebbene praticamente tutti dicano che l’opera d’arte non dà risposte, sembrino essere sicuri che un buon lavoro ponga domande. A me sembra l’altro lato della stessa medaglia. Non mi è chiaro che cosa le opere d’arte facciano, quale ruolo esse abbiano o quale ruolo giochino nella società. Scrivere sull’arte affina le mie proprie confusioni e contraddizioni su questi temi.” [25]
Citando di nuovo Duchamp (ma questa volta per disapprovarlo), Dumas
racconta come la sua famosa espressione 'bête
comme un peintre' (stupido/a come un pittore/pittrice) l’avesse offesa
negli anni di formazione. “I pittori
sembravano incapaci di ogni seria critica ai propri assunti (ed ancora oggi lo
sono). Eppure quel criterio di intelligenza che è considerato il teorizzare è
stato messo in discussione da molti”. Ed aggiunge: “Ci sono molti più modi di scrivere che la mente umana possa concepire.
Io vorrei dipingere canzoni d’amore e scrivere come una cantante rap”. [26]
Il ruolo della scrittura: il filo
conduttore dal 1982 ad oggi
Il primo testo, in ordine cronologico, in Sweet Nothings è del 1982 (la pittrice ha ventinove anni e scrive
per la sua prima esibizione ad Art Basel, in occasione di una mostra intitolata
“Giovane arte dall’Olanda, Forma ed
espressione”). Dumas si pone immediatamente la questione centrale:
“Il commento testuale è utile? Io dico di sì.
Tutta l’informazione necessaria
non è contenuta nel lavoro stesso? Io dico di no.
È largamente contenuta al di fuori
dell’opera d’arte.” [27]
(da Alcune qualità che io mostro, 1982)
E’ del 1984 la poesia “Sulle parole e sulle immagini”:
“Io posso capire perché a molti artisti
visivi
non piacciano le parole nelle opere d’arte. Essi
credono
che le parole sporchino le acque limpide che
debbono riflettere il cielo. Disturbano
il piacere dell’immagine silenziosa,
la libertà dalle storie, la bellezza
di forme senza nome.
Io voglio
chiamare i nostri dolori per nome.
Io voglio continuare a cambiare
i nostri nomi.
Io so che
né le immagini né le parole
possono sfuggire l’ubriacatura e
la brama causata dal fatto che il mondo
gira.
Parole ed immagini bevono lo
stesso vino.
Non vi è purezza da proteggere”. [28]
Ed ha toni molto aspri il testo del 1990 in cui
chiarisce che – a suo parere – cercare il significato di un’opera d’arte in se
stessa è del tutto inutile:
“L’arte come fraintendimento
Vi è una crisi che riguarda la Rappresentazione.
Cercano un Significato come se fosse una cosa.
Come se fosse una ragazza, cui si chiede di togliersi gli slip
come se volesse farlo, non appena
passa l’interprete della verità.
Come se ci fosse qualcosa di cui spogliarsi.” [29]
Questa rassegna
di testi in cui la Dumas sottolinea l’importanza del linguaggio scritto per
l’arte si conclude nel 2009, con toni solo apparentemente più morbidi, facendo
riferimento al rischio di manipolazioni ideologiche delle immagini, che solo la
presenza di un testo scritto può evitare.
“Riferendosi a coloro che hanno perpetrato i
crimini piuttosto che alle loro vittime, la mostra “Rispecchiando il male:
l’immaginario nazista nell’arte recente” al Museo Ebraico di New York include
il lavoro di Piotr Uklanski “Senza titolo (I nazisti)” composto di 116
fotografie di stelle del cinema nel ruolo di nazisti. Senza un testo di
chiarimento la possibilità di attirare neo-nazisti è sempre possibile. Ciò mi
fa ricordare che ogni immagine richiede un testo che la protegga… e che ogni
testo richiede qualcuno che lo decifri”.
(da La Terza
Guerra Mondiale, 2009) [30]
Il testo serve
dunque anche ad impedire che le immagini possano essere manipolate.
Il ruolo dell’immagine
Cogliere tutte le diverse sfaccettature con cui la Dumas motiva il proprio
interesse per l’immagine non è semplicissimo. Si tratta di un meccanismo
ripetuto di trasformazione: prima dall’immagine reale a quella fotografica, e
poi da quella fotografica a quella pittorica. Non succede mai che la pittrice
si serva direttamente delle proprie capacità artistiche per ritrarre un modello
o una scena dal vero (persino i ritratti della figlia hanno tutti origine in
scatti operati con l’amata Polaroid).
“Le mie persone sono state tutte fotografate
da una macchina fotografica, incorniciate,
prima che io le dipingessi. Non sapevano quel che
avrei fatto loro”. [31]
(da Gli occhi
delle creature notturne, 1985)
Non si tratta di un semplice esercizio di realismo pittorico tramite la
macchina fotografica. Ed infatti, nel 1990, Dumas scrive in “Il
mondo è una superficie”: “non è il
rapporto tra pittura e fotografia ad essere la questione piú importante oggi.
Il fatto è che il modo fotografico - non la fotografia come strumento mediale
specifico, ma un modo particolare di esprimere un significato – sta
influenzando tutte le arti in questo momento.” [32]
Bisogna dunque che l’immagine
fotografica abbia la possibilità, almeno potenziale, di essere trasformata in
immagine pittorica. Dumas è dunque prima di tutto una collezionista di foto e
ritagli di immagini (alcune decine di migliaia), che poi usa alla ricerca
dell’ispirazione artistica. “Poiché io
uso fotografie come materiale originario per le mie composizioni, la scelta
dell’immagine giusta (appropriata) è molto importante. L’immagine deve portare
con sé la possibilitá di poter essere trasformata nello strumento mediale
(acqua ed inchiostro oppure olio su tela). Io non cerco di imitare la
fotografia, io uso la fotografia.” [33]
Tutti i passaggi (dall’osservazione della foto alla sua traslazione in
dipinto) modificano sostanzialmente l’immagine e il suo significato. Sempre in
”Gli occhi delle creature notturne”, del 1985, citato poca fa, Dumas continua
spiegando che, con le sue immagini, cattura delle anime. Le immagini ospitano
quelle che lei chiama “tensioni passive”. Nel 1992 aggiunge: “Nella mia pittura (…) le figure sono per lo
più inattive e non fanno nulla. Nella maggioranza dei casi, il dramma è
psicologico piuttosto che pittorico (soprattutto nei ritratti). Il potenziale
narrativo aumenta includendo attributi e/o azione (il ragazzino in Biancaneve
e la storia sbagliata ; la presa della
macchina fotografica in Biancaneve ed il braccio rotto ). Tuttavia, nei Disegni neri siamo ‘tornati’ dove avevamo iniziato con
le Creature della notte, in un modo molto essenziale. La narrativa si è
dissolta in presenza’. Gli spettatori sono entrati di nuovo nell’aula di corte.”
[34]
L’arte come dimensione autonoma
dalla realtà
Se la Dumas coltiva il genere del ritratto, è ben consapevole che le sue
sono immagini artificiali, piatte, fatte di colori ad olio e vernice, non di
carne e sangue.
“Ed io sono anche consapevole delle differenze tra
esseri umani ed immagini artificiali. Che olio e
vernice, non carne e sangue, scorrono nelle loro vene.
Le mie figure lo sanno anch’esse. E come angeli caduti certo
biasimano me (e te) per averli creati
per esistere nel paese dell’astrazione – chiamato arte.” [36]
esseri umani ed immagini artificiali. Che olio e
vernice, non carne e sangue, scorrono nelle loro vene.
Le mie figure lo sanno anch’esse. E come angeli caduti certo
biasimano me (e te) per averli creati
per esistere nel paese dell’astrazione – chiamato arte.” [36]
Perciò arte e vita non appartengono alla stessa categoria. “Che si voglia riconoscerlo oppure no, fare
arte ci esclude dalla vita come processo dinamico. Questo è il motivo per il
quale io trovo espressioni come ‘L’arte è vita’ completamente prive di
significato, troppo semplicistiche, una frase vuota.” [37]
Il dipinto non ha vita propria senza un muro cui poggiarsi (ed opporsi): “Un quadro ha bisogno di un muro cui opporsi”
[38] è l’aforisma più conosciuto, del 1995.
Dumas riflette qui alcuni dei temi fondamentali di quella corrente
dell’arte contemporanea che – a partire dal cosiddetto ready made di Duchamp – si appropria di oggetti esterni all’arte
per utilizzarli, in un diverso contesto, nell’opera d’arte. Si parla di appropriation art (in modo molto diverso
è praticata anche da Jeff Koons). Nel caso della Dumas, l’oggetto che viene
appropriato è l’immagine fotografica: l’opera d’arte in cui l’immagine viene
ricontestualizzata ha però la sua piena autonomia.
Citando il critico d’arte americano Thomas McEvilley, teorico della
rinascita della pittura nel celebre “The
Exile’s Return: Toward a Redefinition of Painting for the Post-Modern Era”
(Ritorno dall’esilio: verso una ridefinizione della pittura nell’era
post-moderna), Dumas scrive:
“Che cosa intendiamo quando parliamo
del contenuto di un’opera d’arte? Il contenuto non è una sola cosa. Il
contenuto è una rete di rapporti. Il migliore saggio d’arte che io abbia letto
fino ad oggi è di Thomas McEvilley. Egli concentra la nostra attenzione sulle
seguenti tredici categorie.
Tredici modi di guardare un merlo [Nota del traduttore: Il titolo è tratto da una
famosa poesia di Wallace Stevens]
1.
Il contenuto che origina da quell’aspetto
dell’opera d’arte che è concepito come rappresentativo.
2.
Il contenuto che origina dai supplementi verbali
forniti dall’artista.
3.
Il contenuto che origina dal genere o dallo
strumento mediale dell’opera d’arte.
4.
Il contenuto che origina dal materiale di cui è
fatta l’opera d’arte.
5.
Il contenuto che origina dalle dimensioni
dell’opera d’arte.
6.
Il contenuto che origina dalla durata temporale
dell’opera d’arte.
7.
Il contenuto che origina dal contesto dell’opera
d’arte.
8.
Il contenuto che deriva dalla relazione dell’opera
con la storia dell’arte.
9.
Il contenuto che il lavoro acquisisce mentre
progressivamente rivela il suo destino attraverso il persistere nel tempo.
10.
Il contenuto che deriva dalla partecipazione ad
una specifica tradizione iconografica.
11.
Il contenuto che deriva direttamente dalle
proprietà formali dell’arte.
12.
Il contenuto che deriva da gesti attitudinali
(verve, ironia, parodia e così via) che possono apparire come qualifiche di
qualsiasi delle categorie sopra menzionate
13.
Il contenuto che si basa su risposte biologiche o
fisiche, o nella consapevolezza cognitiva delle stesse.” [39]
Fine della Parte prima
Vai alla Parte seconda
NOTE
[1] Dumas, Marlene – Sweet Nothings.
Notes and Texts, seconda edizione, rivista ed ampliata, a cura di Mariska van
den Berg, Londra, Koenig Books, 2014, 256 pagine. La citazione è a pagina 80.
[4] Insieme a Marijke van Warmerdam. Si veda: http://www.exibart.com/Print/notizia.asp?IDNotizia=10147&IDCategoria=79
[6] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 85
[7] Marlene Dumas. The Image as
Burden, Londra, Tate Publishing, 2014, pagine 196.
[8] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 11
[9] Stiles Kristine e Selz, Peter, A sourcebook of artists’ writings, Second
edition, Revised and Expanded by Kristine Stiles, Berkeley e Los Angeles,
University of California Press, 2012
[10] Un’ampia
selezione degli scritti della Dumas è anche disponibile sul suo sito ufficiale,
in inglese ed olandese, all’indirizzo http://www.marlenedumas.nl/texts/.
[11] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 11
[12] Marlene Dumas. Sorte, a cura di Giorgio Verzotti, Milano, Silvana
Editoriale, 2012. La citazione è a pagina 94.
[13] Si vedano per
esempio http://www.moma.org/visit/calendar/exhibitions/34
(una lezione al MoMa di New York, della durata di un’ora e dieci minuti) e http://www.stedelijk.nl/en/calendar/booklaunch/marlene-dumas-sweet-nothings-notes-and-texts
(il lancio della seconda edizione di Sweet Nothings, il 14 dicembre 2014, della
durata di 42 minuti).
[14] “Io uso tutti I
trucchi più banali per attirare l’attenzione: gli occhi ti guardano, le parti
sessuali sono esposte oppure deliberatamente coperte. È l’attrazione primitiva
del riconoscimento. L’immagine come una prostituta. Tu sei forzato a dire di sì
oppure di no.” Da: “L’amante perfetto, l’amante assente e la figlia, 1996” Dumas,
Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato),
2014, p. 107
[15] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 pp. 8-9.
[16] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes and Texts, (citato), 2014 p.
40
[17] Marlene Dumas. Sorte (citato), p. 96
[18] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 11
[19] Programma e
testi programmatici del convegno del 1991 sono disponibili a http://alexandria.tue.nl/vanabbe/public/publiciteit/uitnodigingen/1991/UitnodigingSymposiumWritingaboutArt.pdf,
http://alexandria.tue.nl/vanabbe/public/publiciteit/toespraken/1991/ToespraakSymposiumWritingaboutArt.pdf
e http://alexandria.tue.nl/vanabbe/public/publiciteit/folders/1991/FolderSymposiumWritingaboutArt.pdf
[20] Sontag, Susan -
Contro l'interpretazione, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1967. Il testo (in
inglese) è disponibile su http://www.uiowa.edu/~c08g001d/Sontag_AgainstInterp.pdf
[21] Il testo di Art after philosophy and after di Joseph
Kosuth é disponibile all’indirizzo: https://activitiesandassignments.files.wordpress.com/2009/02/ccs_kosuth-art1.pdf
[22] Si veda in
particolare http://alexandria.tue.nl/vanabbe/public/publiciteit/toespraken/1991/ToespraakSymposiumWritingaboutArt.pdf
[23] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 8
[24] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 8
[25] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 pp.11-12
[26] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 12
[27] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 15
[28] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 25
[29] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 60
[30] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p.p.154-155
[31] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 26
[32] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 56
[33] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 106
[34] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 67
[35] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 57
[36] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 47
[37] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 58
[38] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 102-103
[39] Dumas, Marlene – Sweet Nothings. Notes
and Texts, (citato), 2014 p. 57
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