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William Hogarth
L'analisi della Bellezza
Scritta con l’intenzione di fissare le fluttuanti idee del Gusto
A cura di C. Maria Laudando
Palermo, Aesthetica, 1999
Palermo, Aesthetica, 1999
Fig. 1) William Hogarth, Il Pittore e il suo carlino (Londra, The Tate Britain) Fonte: Wikimedia Commons |
[1] La presente è la seconda traduzione italiana. La prima, dovuta ad un anonimo del Settecento, fu stampata a Livorno nel 1761; nel 1989 è stata riproposta dall’ediz. SE di Milano.
[2] Scrive Schlosser (La Letteratura Artistica, p. 655): “notevolissimo libro… opera di assoluta indipendenza, che non si preoccupa affatto delle opinioni insegnate dall’accademia e offre, nonostante qualche capricciosità, cose altamente singolari e interessanti”.
Fig. 2) William Hogarth, Il Pittore e il suo carlino (particolare) |
[3] La teoria della linea ondeggiante della bellezza, sostenuta da Hogarth, è stata giudicata in vario modo: ad es. come un ritorno su posizioni tipiche del Manierismo o come un invito alla lettura dei caratteri formali delle opere d’arte o, addirittura, come un’anticipazione dei princìpi che saranno poi cari alla scuola “purovisibilista”.
[4] Si riporta recensione all'opera. La recensione è stata scritta da Armando Massarenti, ed è apparsa sul Domenicale del Sole 24 ORE in data 4.4.1999 (l’articolo è tratto da Biblioteca Multimediale del Sole 24 ORE – Cd Rom Domenica 1983-2003 Vent’anni di idee)
Hogarth, la Bellezza colta in una linea
di Armando Massarenti
Fig. 3) William Hogarth, L'analisi della Bellezza. Tavola 1) Fonte: Wikimedia Commons |
L’analisi della Bellezza di William Hogarth nasce da una sfida e da una provocazione. Nel 1745 il pittore inglese pubblicò nel frontespizio di una raccolta di incisioni un autoritratto ponendovi, in basso, una tavolozza con sopra disegnata una linea, elegante e inusuale, definita senza spiegazioni “La Linea della Bellezza e della Grazia” (fig. 1). L’esca funzionò - racconta lo stesso Hogarth - e “più di qualunque geroglifico egiziano” divertì pittori e scultori che andavano da lui per chiedergli che cosa diavolo significasse. Solo dopo qualche spiegazione alcuni “si resero conto che si trattava di una loro vecchia conoscenza”, e che di tale “linea serpentina”, fonte di ogni bellezza, avevano già parlato, o vi avevano alluso, autori di trattati sulla pittura e di vite di pittori. Paolo Lomazzo, ad esempio, riferiva ciò che Michelangelo una volta suggerì a un suo apprendista: di partire sempre da una figura piramidale entro cui moltiplicare la forma di un serpente “per uno, due, tre”. “Nel quale precetto - commentava Lomazzo - consiste tutto il mistero dell’arte”. La “somma grazia e vita”, lo “spirito di un quadro”, dipende infatti dalla sua capacità di esprimere il movimento, e niente è più adatto a questo scopo di quella linea già presente in natura nella “fiamma del fuoco”. Sulla “grazia” espressa dalle linee ondeggianti avevano insistito anche Dufresnoy, in un altro trattato di pittura, e De Piles, nelle sue vite di pittori. Soltanto che - lamenta Hogarth - per rendere conto di tale grazia non trovavano di meglio che riferirsi a quel “non so che” divenuto allora di moda, che invece di aiutarci a capire le ragioni della bellezza la trasformavano in qualche cosa di misterioso e vago. Per non parlare degli “intenditori”, o dei copisti e degli imitatori di quadri e statue antiche, che in Inghilterra ai tempi di Hogarth andavano per la maggiore e contro i quali egli lancia le sue frecce più velenose, che recisamente negavano l’esistenza - in arte o in natura - di regole per la bellezza.
Fig. 4) William Hogarth, L'analisi della Bellezza, Tavola 2 Fonte: Wikimedia Commons |
A tale scetticismo Hogarth rispose con L’analisi della Bellezza, pubblicata nel 1753, nel quale la sua “linea” appariva, insieme alla piramide, come l’elemento principale di un sistema basato su un’idea, dialettica e piena di tensioni, di “varietà”, “intrigo” e “movimento” (contrapposta ai “pregiudizi” correnti della semplicità, della simmetria e della staticità). Il risultato è un libro unico nel suo genere, ingiustamente trascurato dalle storie dell’estetica, forse a causa della sua difficile collocazione letteraria: trattato di pittura e di scultura, ad uso di apprendisti e artisti, ricchissimo di trucchi del mestiere che ogni vero artista (al contrario dei “copisti” e degli “intenditori”, che Hogarth dispera di convincere) dovrebbero conoscere, ma anche - illuministicamente e democraticamente - manuale per chiunque, esperto o no, voglia imparare a cogliere (o creare), imparando a “vederla con i propri occhi”, la bellezza di ciò che lo circonda. Tutto ciò è intrecciato a un continuo riferimento alle modalità del nostro sistema visivo, attraverso il quale Hogarth anticipa, almeno nello spirito, le analisi percettologiche e di psicologia della visione di questo secolo di un Arnheim o di un Gregory. La sua è una ricerca che oggi potrebbe piacere ai fenomenologi (visto il rifiuto di sovrapporre al fenomeno della percezione della bellezza sovrastrutture filosofiche o metafisiche) e ai filosofi analitici, non solo perché la parola “analisi” è presente fin nel titolo, ma anche per la capacità di aggredire direttamente, senza troppe mediazioni storiche, un problema che è insieme pratico e filosofico. Che è quello del sottotitolo: come fissare in poche regole comprensibili, prive di allusioni “misteriose”, “le fluttuanti idee del Gusto”? Il testo di Hogarth è un intrico splendidamente congegnato, una specie di gioco, pieno di ironia, di cattiverie e di sorprese, che si dispiega attraverso i continui rimandi alle due splendide tavole che lo accompagnano.
Merito della nuova edizione, che sarà a giorni in libreria per le edizioni di Aesthetica (la precedente traduzione italiana, riproposta dieci anni fa dalle edizioni SE, risaliva al 700), è anche quello di renderne agevole la visione durante la lettura, proponendole fuori testo in una tasca esterna del libro. Nella prima tavola Hogarth riproduce la maggior parte delle sculture, copie di statue famose dell’antichità (fig. 2), di cui erano pieni i giardini e le case aristocratiche inglesi (nelle quali, anche per quel che riguarda i quadri, si privilegiavano le copie dei classici rispetto alle opere originali dei pittori inglesi contemporanei). Nella seconda invece, a mo’ di applicazione dei principi ricavati dalla prima, propone una sua incisione, un ballo nella casa di campagna di un nobile, nella quale convivono il leggiadro e - per contrasto rispetto alle stesse regole da lui esposte sulla bellezza - il grottesco, il parodistico e l’ironico, di cui com’è noto egli era maestro (fig, 3). Sulle pareti vi è una quadreria che rispecchia i gusti della committenza aristocratica del tempo della quale Hogarth mette alla berlina il cattivo gusto e l’idea statica e ingessata di bellezza cui essa, senza neppure rendersene conto, faceva riferimento. La cornice delle due stampe presenta, in una disposizione che ricorda le regole della mnemotecnica, una miriade di esemplificazioni - volti, candelabri, girarrosti, figure geometriche, sezioni anatomiche ecc. - attraverso le quali Hogarth spiega le sue regole apparentemente semplici, ma ricche di implicazioni sorprendenti e tutte legate a un gusto che fuoriesce dalle stanze chiuse dell’aristocrazia per aprirsi alla vita della città, a una committenza più vasta, al nuovo spirito borghese e alla nuova esigenza di legare il fare artistico-estetico alla produzione industriale e agli oggetti di uso quotidiano. Una ragione in più per riscoprire oggi questo formidabile saggio.
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