Jeff Koons
Conversations with Norman Rosenthal
(Conversazioni con Norman Rosenthal)
(recensione di Francesco Mazzaferro)
London, Thames and Hudson, 2014, pp. 295
ISBN: 978–0–500–09382-5
[Versione originale: dicembre 2014 - Nuova versione: aprile 2019]
Fig. 1) La copertina del libro |
Un libro-intervista come fonte di
storia dell’arte
In occasione della retrospettiva su Jeff Koons al Whitney Museum of American Art di New York nel giugno 2014 (mostra poi
replicata al Centre Pompidou di
Parigi fino all’aprile 2015), sono appena uscite le conversazioni tra Jeff
Koons e Sir Normal Rosenthal, a cura dell’editore londinese Thames &
Hudson. È anche uscita l’edizione francese, per i tipi della parigina
Flammarion. La retrospettiva, ancora in corso a Parigi, si sposterà infatti al Museo
Guggenheim di Bilbao, dove aprirà nel giugno 2015.
Un libro-intervista, dunque, tra un artista ed un critico e curatore. Ormai,
una forma classica di fonte di storia dell’arte contemporanea [1]. Corredato da
un apparato iconografico notevole, il volume è pubblicato in un corpo
tipografico particolarmente piccolo: dunque, chi ha raggiunto l’età della
presbiopia dovrà munirsi di occhiali potenti. Per il resto, è un testo
piacevole e – a mio parere - anche convincente: dà la parola a Koons e
Rosenthal in modo ben strutturato, permettendo – grazie al loro interloquire – di
collocare l’artista americano, nato nel 1955, nel quadro della storia
dell’arte, contemporanea e non, disegnandone un percorso di maturazione artistica,
che parte da un’ispirazione popolare strettamente statunitense e rivela in
realtà un artista universale, molto colto, dagli insospettabili legami con l’Europa.
Questo volume riuscirà forse a consolidare l’idea di un Koons non semplicemente
artista del kitsch americano (espressione con cui viene spesso definito, a
volte in termini positivi, ma molto più spesso con intenzioni spregiative). Ciò
consentirebbe una comprensione più completa dell’artista.
Chi voglia vedere una piacevolissima conversazione tra Koons e Rosenthal
(in occasione di Art Basel 2012) può trovare la versione video integrale su
Youtube [2]. Sir Norman è stato per molti anni Exhibitions Secretary alla Royal Academy of Arts di Londra. A lui
si devono trent’anni di esibizioni a Londra, che hanno segnato quella che viene
chiamata la “rinascita della pittura” negli ultimi decenni dello scorso secolo,
con particolare riferimento a movimenti come la ‘Scuola di Londra’ (si pensi a Francis
Bacon, Lucian Freud e David Hockney), i Neue
Wilden in Germania e la Transavanguardia in Italia. Rosenthal ha dedicato in
particolare grande attenzione all’arte contemporanea tedesca (Beuys, Baselitz, Kiefer
e Schnabel) e ha contribuito a renderla celebre al di là dei confini tedeschi
(il suo interesse per il mondo tedesco è espressione diretta del suo retaggio
culturale: proviene da una famiglia ebraica tedesco-slovacca che riuscì ad
emigrare in Gran Bretagna all’avvento del nazismo) Rosenthal non è dunque un
cultore dell’arte contemporanea come fenomeno leggero ed effimero. È tuttavia
un grandissimo ammiratore di Koons, che degli artisti complessi e per certi
versi aggressivi appena citati rappresenta in qualche modo l’opposto.
Presentare un’intervista in forma cartacea (con l’ambizione di coprire tutti i periodi e le attività di Koons) contribuisce peraltro a confermare la centralità permanente del libro come forma di trasmissione della cultura rispetto ad altri (e più alla moda) strumenti mediatici. È ovvio che Koons possegga le sue pagine sul web (http://www.jeffkoons.com/) e su twitter (https://twitter.com/jeffkoonsstudio), fonti ufficiali che consentono di seguire tutte le sue dichiarazioni, gli articoli, le interviste televisive e gli altri avvenimenti. La maggior parte delle immagini in questo post sono peraltro tratte da queste fonti ufficiali. Esistono anche numerose pagine non ufficiali su Koons su Facebook [3], la più importante delle quali vanta più di 50 mila fans. La ricerca di video su “Jeff Koons” su Google restituisce 84.200 risultati (con la stessa ricerca per le pagine web si ottengono 1 milione 840 mila risultati).
E tuttavia è con questo nuovo libro-intervista che Koons sceglie di fornire
una visione d’insieme sui trentacinque anni della sua carriera artistica. Del
resto, Koons - a differenza di molti altri artisti contemporanei che hanno sì prodotto
opere in forma di libro, i cosiddetti ‘libri d’artisti’, ma sostanzialmente come
opere d’arte senza commenti – non ha problemi di ordine letterario. Insiste anzi
moltissimo sul ruolo della narrazione nell’arte, e identifica la centralità del
“vocabolario dell’iconografia personale” come parte dello stile dell’artista.
Sono tutti concetti profondamente legati alla scrittura.
L’opera è strutturata in otto capitoli/conversazioni: il primo sul concetto
d’arte, il secondo sulla formazione dell’artista, i capitoli terzo, quarto e
quinto sulle differenti serie di opere dagli anni settanta ad oggi, il sesto sul
gesto dell’artista, il settimo sul mondo dell’arte e l’ottavo sul vocabolario
dell’estetica di Koons. Lo stile è, deliberatamente, quello del linguaggio
parlato, anche per sottolineare che si tratta di conversazioni reali, non di
dialoghi ricostruiti a tavolino. La lettura è molto scorrevole, anche se concetti
e termini vengono spesso ripetuti nel corso della conversazione, e altrettanto spesso
nel corso della stessa pagina (è vero comunque che in inglese la ripetizione
dei termini e dei concetti non ha l’effetto irritante che ad essa si
attribuisce in italiano; ripetere vuol dire aiutare a comprendere). Sir Norman Rosenthal
mostra un linguaggio forbito, anche se a volte si compiace di alcune libertà
lessicali. Jeff Koons è più diretto, come ci si aspetta da uno statunitense,
anche se il suo intento è sempre quello di 'volare alto'. Il dialogo ha ritmi
serrati: di solito, nello spazio di una pagina, i due interlocutori si lasciano
rispettivamente la parola due o tre volte, e le loro affermazioni non occupano
mai comunque una pagina intera. L’apparato delle illustrazioni aiuta il lettore
a meglio comprendere lo scambio tra gli interlocutori.
Il risultato è un’interazione del tutto amichevole. Per usare il linguaggio
sportivo, Sir Norman, suo grande ammiratore, offre all’amico pittore molti
buoni passaggi, veri e propri assist, che consentono a Jeff Koons di chiarire
al meglio il suo pensiero. Le divergenze di vedute sono rare. Rosenthal usa
continuamente aggettivi di grande apprezzamento sull’arte di Koons; l’artista
sembra a volte quasi intimidito da tanta esaltazione.
Confesso di aver acquistato il volume spinto soprattutto dalla curiosità,
non senza avere qualche pregiudizio, dopo aver letto le recensioni negative
della stampa francese in coincidenza dell’apertura della mostra al Centre Pompidou. Critiche a cui faceva
da contraltare un grande successo di pubblico. Jeff Koons, dunque, grande
ammaliatore? Un uomo che grazie alla capacità di vendere le proprie opere (non
a caso in gioventù fu operatore di borsa) riesce ad imbonire il pubblico?
I giudizi negativi sono ben noti. Si riferiscono al ruolo della cultura del consumo di massa, al senso dell’effimero, alla rappresentazione di forme estetiche considerate altrove prive di valore artistico, ed infine all’intento commerciale, e quasi speculativo: produrre arte utilizzando materiali costosissimi, in modo quasi industriale, al fine di venderla ad un pubblico di miliardari pronti a pagare ogni prezzo. I prezzi delle opere di Koons hanno ormai raggiunto livelli stratosferici: il “Cane palloncino - arancione” (fig. 4) è stato venduto nel novembre 2013 dalla casa d’aste Christie’s per ben 58.4 milioni di dollari, circa 48 milioni di euro al cambio attuale: è il prezzo più alto mai registrato per l’opera di un artista vivente.
Dopo aver letto il libro mi chiedo però se tutte queste critiche, in
realtà, non siano il riflesso di un pregiudizio provincialista.
Tre parole-chiave: decorazione,
monumentalità, archetipo
Se dovessi cercare di identificare tre parole-chiave utilizzate nel libro
per definire l'arte di Koons direi: arte
decorativa, arte monumentale, ed archetipo. È una mia lettura personale,
non necessariamente quella dei due protagonisti dell’intervista.
Arte decorativa per il gusto del particolare e del sorprendente, per
l’amore della precisione nell’uso della linea e delle forme e per il reimpiego
ricorrente degli stessi temi, e degli stessi oggetti, per rendere più
riconoscibile la chiave dell’opera d’arte. Koons si collega idealmente a fasi
molto precedenti della storia dell’arte, tutte legate ad un mondo visivo
figurativo e simbolico, e caratterizzate dalla preminenza della linea e
all’importanza del narrato: il mondo dell’antichità classica ed il
rinascimento, ma anche il barocco ed il rococò (di cui Koons parla molto nel
libro), l’Art Nouveau e lo Jugendstil (cui Koons non si riferisce
mai in realtà, ma con cui mi sembrano vi siano legami evidenti), la pop-art ed il fumetto (un riferimento
ovvio). Proprio per la natura decorativa della sua opera, avrei invece molti problemi
a legarlo a molte altre fasi dell’arte contemporanea: espressionismo,
astrattismo, espressionismo astratto e tanti altri movimenti d’avanguardia (con l'eccezione di dadaismo e pop-art).
Arte monumentale per la volontà di creare arte di grande effetto e
- come lui la chiama – di grande gestualità (the grandest gesture). Più volte Koons esprime addirittura il
rammarico di essere rimasto – in merito - ancora al di sotto delle proprie
potenzialità. “Io vorrei raggiungere una certa coscienza, una certa libertà
gestuale prima di morire. Mi piacerebbe davvero fare quel gran gesto che nel
mio intimo sento di avere il potenziale di realizzare. Quel che trattiene me o
gli altri dal farlo è una forma di ansia. Io credo davvero che ogni cosa possa
essere rivelata, a condizione che le persone godano di un senso di
accettazione. Io cerco costantemente di partecipare a questa accettazione, e penso
infatti che la semplicità di ogni cosa possa essere rivelata. Allora non ci sarà
più nulla che mi possa trattenere dal più grande gesto possibile che io possa mai
fare” (p. 34).
Forse il gesto che Koons ha in mente è un’opera come la Torre Eiffel, un
monumento che ha segnato simbolicamente un’epoca. Ovviamente, l’iconografia
monumentale di Koons è differente da quella di Gustave Eiffel. Koons narra nel
libro di un progetto di cui esiste solamente un modellino: una gru giallo-rossa
di 49 metri, a cui viene appesa una locomotiva a vapore (a testa in giù) e
sotto la quale può camminare il pubblico. È un progetto concepito per il Los
Angeles County Museum of Art (LACMA), ma – ci dice Koons – potrebbe finire da
qualche altra parte.
Una delle opere di chiara natura monumentale realizzate da Koons è la
combinazione di due dondoli per bambini (a forma di pony e di dinosauro),
abbinati in una struttura in acciaio inossidabile costruita – secondo metodi
ingegneristici – in modo tale che su di essa possano vivere, tramite un
impianto interno di irrigazione, 50 mila fiori. L’opera è stata fra l’altro
esposta ad Avignone, Versailles, Basilea, e da ultimo a New York, davanti al
Rockefeller Centre.
Archetipo, per l’idea di dar vita a un mondo artistico platonico
e jungiano, dove ogni opera rappresenta (in modo astratto e generalizzato) concetti
arcani, fondamentali ed innati: equilibrio, grazia, accettazione, sessualità,
trascendenza, lusso. L’arte – spiega Koons – è “il regno dell’archetipo (the realm of archetypal) dove il
vocabolario è profondo e comune (profound
and communal). (…) In termini artistici, l’umanità ha usato diversi lessici
d’arte nel corso della storia. Questi lessici ci riconducono indietro nel tempo
e ci connettono ad un’informazione che è essenziale per la vita, e che ha
aiutato a tenere la gente in vita. Questo è quello che io definisco un
archetipo: un’informazione che aiuta a sostenere la vita” (pp. 13-14). Rosenthal
richiama gli esempi di Dalí, De Chirico e Magritte; Koons spiega di aver
conosciuto i surrealisti attraverso la scuola dei Chicago Imagists, ed il suo maestro Ed Paschke, ma di essersi
confrontato davvero con l’arte europea solo dopo essersi trasferito a New York.
In realtà, egli spiega, il suo riferimento è un’arte arcana, e per questo
motivo in realtà molto antica ed anzi fuori del tempo. Un’arte che si può valere
di oggetti industriali utilizzati in forma simbolica: Koons adotta perciò la
tecnica dada del ready-made,
ispirandosi a Marcel Duchamp. Un’arte che (soprattutto nella pittura, basata
sulla sovrapposizione non prospettica di diversi livelli) intende esplicitare
la contemporaneità e la compresenza di archetipi. Ma anche un’arte che può
cercare il dialogo diretto con quella dell’antichità classica (come nella serie
delle Gazing balls, le sfere di
cristallo care alla tradizione popolare della Pennsylvania, che vengono
sovrapposte a dei gessi greci e romani antichi).
L’arte come rimozione dell’ansia
Jef Koons racconta: “È trascorso davvero molto tempo prima che scoprissi
che l’arte è in realtà un processo per rimuovere l’ansia. L’arte continua a
rivelare quel che può essere, e il significato cambia in realtà ogni giorno, ma
per me l’arte rimane sempre associata a questa rimozione dell’ansia. Io penso
che rimuovere l’ansia riveli appunto quanto possano essere semplici il mondo e
la realtà della nostra esperienza. Si tratta di conoscere noi stessi, perché il
senso di auto-accettazione è estremamente importante. La ragione dell’arte è la
rimozione di ogni tipo di colpa o vergogna, o di ogni cosa che le persone
possano celare nella loro storia e che possa impedire loro semplicemente di
occuparsi di se stessi”(p. 10). L’arte ha dunque funzione terapeutica; ma la
possibilità di conoscere se stessi - ribatte Sir Norman - non è solamente un
prodotto dell’arte, ma di qualsiasi altra attività: matematica, fisica, medica,
politica. Chiede quindi Rosenthal: l’arte e le altre attività sono la stessa
cosa, oppure sono fondamentalmente differenti? Rosenthal si aspetta che Koons
attribuisca all’arte poteri superiori, ma la risposta lo sorprende: “Sono la
stessa cosa – replica Koons –, assolutamente la stessa cosa. Ma l’arte rende
molto evidente il proprio potenziale terapeutico, perché crea un collegamento
tra differenti discipline e ti consente di entrare in un dialogo con la
teologia ed al tempo stesso con la sociologia. Con molta eleganza, porta
l’attenzione su molti temi specifici ed in tal modo diventa un regalo meraviglioso
che uno fa a se stesso. L’arte è come avere interesse per la vita, sviluppare
un senso di rispetto per se stessi, per gli altri e per l’energia della vita”
(pp. 12-13).
L’arte come accettazione
L’atteggiamento eclettico di Koons ha la sua fonte ultima (I) nell’idea della
necessità di stabilire una regola di accettazione generale (acceptance of everything - Rosenthal
dice che Koons ha in realtà applicato il buddhismo all’arte), (II) nel
superamento di ogni giudizio critico sul bello e (III) nella necessità di
cercare la perfezione in ogni cosa. L’arte ha dunque un effetto liberatorio,
perché consente all’uomo di superare le proprie ansie e di accettare ogni parte
del proprio passato; ma non in senso catartico aristotelico (cioè confrontando
il pubblico con le mostruosità del mondo), bensì in senso platonico,
confrontandolo con una straordinaria varietà di archetipi positivi. E
l’artista, facendo un uso consapevole del banale, si pone l’obiettivo preciso
di non volere imporre il proprio mondo alla società, ma anzi di volere far uso
degli oggetti che proprio il suo pubblico impiega quotidianamente al di fuori
della sfera dell’arte, e perciò di non volergli fare alcuna violenza. Koons non
accetta la definizione di kitsch (da
questo punto, è molto diverso da Warhol), ma assegna al termine ‘banale’ un
significato tutt’altro che negativo.
Il tema centrale della serie “Banalità” è infatti quello della rimozione del giudizio. La serie è centrata sulla figura del maiale, combinato in opere differenti come il Giovanni Battista (Fig. 13) (una porcellana di soggetto religioso con una chiara derivazione rinascimentale italiana) e Accatastati (Fig. 14) (una scultura in legno policromo che ricorda la favola dei musicanti di Brema, ma con un maiale al posto dell’asino, alla base della piramide degli animali). Sir Michael chiede a Jeff Koons se a queste immagini debba essere precisamente assegnata eguaglianza di qualità immaginifica (equality of imagenary).
“Jeff Koons – Debbo dire, Norman, che tu hai fatto assolutamente bene a parlare di uguaglianza. In “Banalità” questo aspetto della rimozione del giudizio è assolutamente chiaro. So che in quegli anni guardavo la pubblicità, guardavo le cartoline, guardavo alle cose attorno a noi, in particolare a quelle di fronte alle quali cui la gente reagiva. La gente sicuramente reagirà ad una pubblicità in cui qualcuno tiene in bilico un cocomero sulla sua testa, indossando grandi occhiali da sole, e forse suonando al tempo stesso un trombone jazz. Ma anche se quella pubblicità piacerà, vi sarà ancora in qualche modo un senso di colpa. Vi sono persone che usano l’arte per togliere potere [disempower] ad altre persone. La usano per dar poter [empower] a se stessi. Sono coloro che custodiscono le regole, sono coloro che custodiscono il significato della cultura; con loro, l’arte è qualcosa a cui ti devi preparare prima di avvicinarla. Io ho voluto produrre un corpus artistico che sia fondato sul dare potere [empowerment] e sul far sapere alla gente che tutto nel loro passato, nel passato della loro cultura, è perfetto.
Norman
Rosenthal – Che cosa intendi esattamente con il termine
‘banalità’? Per me cercare di capirlo è una cosa molto importante. Dire che
qualcosa è banale è davvero peggiorativo. È quasi la cosa peggiore che si possa
dire di un artista – quasi il peggior termine che si possa usare – e qui tu
stai facendo un’arte che hai chiamato ‘Banalità’, in cui tu includi cose come
la torre dei maiali, Michael Jackson e – fra tutti – San Giovanni Battista.
Perché credi che il banale possa essere elevato ad arte? Come sei arrivato ad
una tale intuizione? È chiaramente un aspetto della tua arte che è
incredibilmente importante.
Jeff Koons – Su una
lavagna, in una delle mie pubblicità per la mostra “Banalità”, ho scritto
“Banalitá come salvezza" (Banality as saviour)
Norman
Rosenthal – Banalità come salvezza
Jeff Koons – Banalità
come format artistico. Io ho usato la banalità per comunicare che le cose che
sono nella nostra storia sono perfette. Non importa quali esse siano: sono
perfette. Non possono essere null’altro che perfette. È il nostro passato e la
nostra essenza, sono le cose alle quali reagiamo, e sono perfette. E ho usato questo
termine per rimuovere il giudizio e per rimuovere il tipo di gerarchia
esistente. Non mi piace il termine ‘kitsch’ perché kitsch automaticamente
richiama un giudizio su qualcosa. Ho sempre visto la banalità come qualcosa di
più libero del kitsch” (pagg. 138-140).
L’arte come legame tra individui,
tra cose, tra periodi dell’arte
L’arte ha anche il potere di legare passato e futuro. “(...) quando perdi il
controllo, e compi quest’attività di aprirti all’energia umana, al potenziale
che l’uomo ha di porsi in relazione, è allora che ti rendi conto che il tempo
si curva. In uno stesso momento sei connesso al passato ed al futuro,
nonostante tu sia assolutamente parte del presente. Improvvisamente puoi scendere
per strada ed assolutamente ogni persona ti sembrerà già conosciuta, ogni volto
così familiare . Vi è il senso di andare avanti, di avanzare nel tempo.
L’esempio più banale è semplicemente la creazione di connessioni tra le cose.
Puoi vedere come ogni cosa davvero riveli se stessa attraverso queste
combinazioni” (p. 14). “Occuparsi della storia dell’arte è come viaggiare nel
tempo, perché ti permette di focalizzare i tuoi interessi e fare connessioni.
Invece di avere questa visione lineare del tempo, improvvisamente il tempo si
curva e si può fare un salto che ti porta più vicino al presente” (p. 27).
Cultura americana e cultura europea
Si è già detto che, a partire dal suo trasferimento da Chicago a New York,
Koons ha dedicato grande energia al dialogo tra cultura americana e cultura
europea. Più volte, nel corso dell’intervista, Sir Norman cerca di descriverlo
come artista schiettamente americano, mentre Koons risponde di sentirsi un
artista molto più universale. Ecco un esempio di come ha combinato temi della
cultura americana con quelli della cultura europea.
Koons ha prodotto un busto di Luigi XIV (fig. 15), in coppia con il ritratto del
famoso attore e conduttore americano Bob Hope (fig. 16), perché i due rappresentavano a
suo parere i due opposti estremi della manipolazione dell’arte.
Incidentalmente, il busto di Luigi XIV di Koons si è trovato insieme a quello
dello stesso monarca prodotto dal Bernini, in occasione di una mostra di Koons
al Château de Versailles, nel 2008. L’erede della casa di Borbone aveva invano
cercato di proibire – attraverso la magistratura – l’esposizione del busto del
monarca realizzato da Koons Sentiamo comunque che cosa ci racconta Koons sulla contrapposizione
tra Luigi XIV e Bob Hope.
“Jeff
Koons – (…) Nell’esibizione “Statuaria” volevo offrire una veduta
panoramica della società. Avevo Luigi XIV ad un estremo di questa veduta
panoramica e Bob Hope all’altro estremo.
Norman
Rosenthal – Pensi che Bob Hope e Luigi XIV siano di ‘ugual
valore’ come simboli, simboli di cultura?
Jeff Koons – Erano
oggetti già preconfezionati [ready-mades] (…) Mi ricordo che camminavo
lungo Canal Street [una strada di Chinatown famosa per le
bancarelle di oggettistica a basso costo], quando ho visto un busto in lana di
vetro di Luigi XIV, in quel posto chiamato Canal Plastics, dove ho sempre
comprato molti fogli di plastica. Pensai che il busto fosse fantastico. Me lo
sono impresso nella mente e poi sono andato a passeggiare da qualche altra
parte, credo dalle parti di Times Square, dove ho visto una statuetta in gesso
di Bob Hope. È da quel momento che la narrativa ha iniziato a svilupparsi. Ho
capito che questi erano davvero simboli di quel che succede quando metti l’arte
nelle mani o delle masse (nel caso di Bob Hope), oppure di un singolo individuo
(nel caso del monarca Luigi). Se metti l’arte nelle mani delle masse - Bob Hope
– lui ti racconterà una barzelletta. Sceglierà la barzelletta non perché gli
piaccia realmente, ma perché l’ha raccontata la notte precedente e ne ha
ricevuto una risata fragorosa. L'arte viene influenzata dall'ego della massa. Ma se si mette l’arte nelle mani di un monarca
come Luigi XIV, essa diverrà alla fine solo un riflesso del suo ego personale” (pagine 125-128).
Il legame con l’arte europea
Basta comunque consultare l’indice analitico del volume per scoprire che
Bernini ha lo stesso numero di citazioni di Andy Warhol, e che le fonti europee
non includono solamente Dalí, Duchamp e Picasso (come si poteva forse sospettare),
ma anche Courbet, Manet, Masaccio, Michelangelo, Rubens e Tiziano. Ovviamente,
di questi artisti Koons dà una lettura personale, a volte sorprendente. Così
scopriamo – in molti passaggi – che molti artisti europei sono stati fonti
diretta d’ispirazione per l’artista americano. Ecco alcuni esempi.
“Jeff Koons
- (…) Quando ho prodotto 'Michael Jackson e Bubbles' [nota dell’editore: il nome
dello scimpanzé di Michael Jackson] ho pensato alla scultura del Rinascimento,
e non più alla scultura dell’antichità classica. ‘Michael Jackson e Bubbles’ ha
una struttura a forma di triangolo, come nella Pietà di Michelangelo. Fa anche
riferimento alla scultura egiziana – un po’ come Re Tut, ed il modo in cui le
gambe sollevate creano una piramide, ed il corpo forma un’altra piramide. Ma è
soprattutto un riferimento alla scultura del Rinascimento.
Norman
Rosenthal – Un’altra opera dell’arte rinascimentale,
l’affresco di Masaccio “La cacciata dal giardino dell’Eden” è stata il
catalizzatore per la tua nuova serie, le opere della serie “Prodotto in
paradiso”. È stato un periodo meraviglioso e comunque straordinariamente
difficile della tua vita.
Jeff Koons – Con la
serie “Banalità” avevo iniziato a comunicare per la prima volta che le persone
dovrebbero accettare quello che sono; accettare la loro storia, la storia della
loro cultura. “Prodotto in paradiso” trattava di uno di quei fattori che
impediscono alle persone di accettare quel che sono: la loro sessualità. Così
io ho voluto usare la sessualità come una metafora, come una forma di
continuazione di “Banalità”, per affrontare un po’ più direttamente quel che
trattiene le persone dall’accettare la loro identità. Quando vidi il dipinto di
Masaccio “La cacciata dal giardino dell’Eden” decisi di produrre un corpus di
lavori sulla sessualità che potesse aiutare le persone a rimuovere quel senso
di colpa e di vergogna. La mia ex-moglie, Ilona [nota dell’editore: Ilona Staller, celebre
porno-attrice], ha sempre accettato il
suo corpo senza nessuna colpa o vergogna, dal momento che aveva un’energia
davvero formidabile.
Norman Rosenthal – Energia?
Jeff Koons – Sì,
energia, e la grazia di rivelarsi proprio senza alcun senso di colpa e
vergogna. Quel corpus di opere è in realtà una delle prime serie di opere dove inizio
a fare interazioni più dirette con altri artisti, con Masaccio. Con Manet. Un
dipinto è intitolato Manet” (pagine
147-148) [4].
Ed ancora, Koons e Rosenthal dedicano un’altra pagina a Bernini, quando dialogano sulla scultura antica. I due hanno individuato Prassitele come modello, ed adesso parlano della scultura e dell’idea di perfezione. Ecco la conversazione che segue:
Norman
Rosenthal – Tu parli di Prassitele, e forse possiamo
passare agli scultori del passato che ti interessano. Per esempio, ti piace
Canova oppure no?
Jeff Koons – (…)
Non tanto, non tanto.
Norman
Rosenthal – Perché non ti piace Canova? Avrei davvero
pensato il contrario, dal momento che certamente fu un artista che cercò di
realizzare questo tipo di perfezione neoclassica.
Jeff Koons – Anche
io sento questo senso di perfezione, ma penso che le mie opere siano molto più
semplici. Non voglio che la mia opera sia percepita in modo così controllato,
che la sua performance sia così sottoposta a limiti. A mio parere, la
performance deve realizzarsi al di fuori dell’oggetto. È una performance molto
più libera. Se penso a Canova, sento che ogni cosa è così controllata e che
l’opera può svilupparsi in una sola direzione. Se penso invece a Bernini, è
così potente, così ricco, così appassionato…
Norman
Rosenthal – E la sua arte è anche così erotica…
Jeff Koons – … e
così perfetta. Guarda il petto del cane [nota dell’editore: il cane Cerbero, con tre teste] nel Ratto di Proserpina. È così leggermente affinato, se si guardano i
colpi di scalpello. Anche se il flusso del pelo del cane è modellato in una direzione,
la testa del cane si muove in una differente direzione, come non potrebbe mai
succedere in un cane vero e proprio, e tuttavia la combinazione funziona. È
perfetto, e quel senso di libertà è necessario. Norman, io so che ti è sempre
piaciuto ‘Puppy’ (fig. 20).
Norman Rosenthal – Questo tipo di scultura, per esempio ‘Puppy’, ha una maniera differente dalla quasi-perfezione delle sculture del ciclo ‘Celebration’ [nota dell’editore: ad esempio, il Cane Palloncino (Arancione), già mostrato sopra (fig. 4)]”.
Jeff Koons – L’elemento
che penso sia così riuscito in ‘Puppy’ è questo dialogo tra controllo e perdita
di controllo, e questo è esattamente quello che provi con Bernini – elementi
assolutamente controllati che si incontrano con altri elementi completamente
fuori controllo. Le passioni sono fuori controllo, e l’azione, il movimento,
quel che sta per accadere, è più aperto.
Norman
Rosenthal – Ed anche nell’’Estasi di Santa Teresa’ di
Bernini, per esempio.
Jeff Koons – Sí, se
tu pensi all’abilità nel controllare il materiale ed al tempo stesso alla gioia
che puoi percepire quando egli decide di abbandonare il controllo, come nel
petto del cane” (pagina 189).
Il ruolo della bottega/studio
dell’artista
Il libro-intervista si apre con un riferimento alla bottega di Rubens. È un
aspetto interessante che non vorrei dimenticare.
È Sir Norman a parlare: “Quando vedo tutti questi ragazzi lavorare in modo
così intenso nel tuo studio, immagino come possa essere stata la bottega di
Rubens, con Rubens che camminava in lungo ed in largo, dando ordini, facendo
disegni e pianificando composizioni, mentre attorno a lui vi erano un bel po’
di assistenti, occupati in ogni tipo di attività per realizzare le sue pitture”
(p. 10).
Perché un riferimento a Rubens? Rosenthal spiega che Rubens non eseguiva
manualmente alcuna delle sue opere: dava sempre e solo istruzioni ad un
centinaio di garzoni, e sorvegliava molto attentamente la loro esecuzione dei
suoi progetti.
Allo stesso modo, anche Koons è l’ideatore ed il costante supervisore delle
opere, in uno studio a New York con 100 e più persone. I lavori sono molto
difficili, i materiali sono veramente complessi, a volta la durata
dell’esecuzione richiede anni. Quel che sembra – lo si è detto – banale, può
richiedere numerosi anni di lavoro. Lo studio Koons realizza circa dieci
dipinti e dieci statue ogni anno. Per le statue si usa molto il computer
(specialmente per riprodurre gli oggetti esistenti) e la stampante 3D (per
realizzare i modelli).
Rosenthal chiede a Koons se si senta ancora un’artista, nonostante non
operi più direttamente con le mani. Ecco la sua risposta: “Sono responsabile di
qualsiasi segno (every mark) in ogni
dipinto; mi occupo di ogni dettaglio di ogni scultura. E quando lavoro con
qualcosa che pre-esiste, mi dà un formato e poi deve essere esattamente uguale.
Questo è il contesto (framework),
questa è la direttiva che le persone che lavorano con me debbono seguire,
all’interno del quale debbono lavorare, in modo tale che io possa essere
responsabile di ogni segno. Debbo essere sicuro di poterne prendere onestamente
la diretta responsabilità” (pagina 230).
Conclusioni
Leggendo le 295 pagine, si coglie che al centro dell’opera di Koons non vi
è un intento commerciale, ma l’ambizione (e forse l’illusione) di poter
utilizzare l’arte per liberare l’uomo dalle sue angosce, dal senso di colpa e
vergogna. Koons decide di seguire quest’obiettivo creando un tipo di arte che,
nel corso di trent’anni, combina alcune caratteristiche specifiche: aspetti
decorativi e monumentali, riferimenti a temi fondamentali della condizione
umana – veri e propri archetipi – e citazioni dall’arte americana ed europea.
La combinazione di questi elementi non mira però a rendere le opere più
complesse, ma al contrario a far passare il messaggio che un elemento di
bellezza (anzi, di perfezione) esiste in ogni opera d’arte così come nella
storia personale di ognuno di noi. Dunque, Koons mira a togliere ogni valore di
violenza all’arte, come attività che impone un sistema di valori esterno al
pubblico, e cerca di stabilire il principio che nell’atto artistico tutto sia
consentito, a condizione che esso assicuri, e non tolga, potere alle persone
che a quell’arte reagiscono. È un’arte che corre il rischio di esser considerata
banale (in fondo un rischio a cui sono state esposte molte generazioni di
artisti), ma a questo biasimo Koons risponde elevando la banalità ad arte. Ed è
forse per questo motivo che l’opera di Koons continua ad essere accolta dal favore
del pubblico e dallo scetticismo della critica.
Nel tentativo di operare una sintesi, Koons decide dunque di accettare tutto (a dire il vero, con una chiara repulsione per qualsiasi forma di riproduzione della violenza) e di sospendere il giudizio critico. Si mette nelle mani del pubblico, cercando di educarlo ad un eguale atteggiamento di accettazione, di sé e della propria storia (prima ancora che dell’opera d’arte).
Mi sono chiesto se questa non sia la stessa prospettiva in cui si pose il
mondo romano, quando (confrontandosi con
le culture dei popoli che aveva soggiogato) rispose allargando il proprio politeismo
ai nuovi culti (con eccezioni come quella ebraica e cristiana) e dunque
stabilendo un sistema di equiparazione tra divinità, culture, forme d’arte. Ad
ogni divinità latina corrispose una divinità greca, e spesso egiziana,
orientale, celtica, ecc.. L’obiettivo fu quello di creare una cultura globale
per gran parte dell’umanità allora conosciuta. A molti greci quella romana
dovette sembrare una terribile banalizzazione, ma, se lo fu, fu del tutto
consapevole: una semplificazione necessaria, se si voleva estendere la
condivisione del medesimo sistema di valori in un impero così variegato.
Viviamo oggi una nuova forma di globalizzazione, e quello di Koons è forse
un altro e diverso tentativo di cercare un linguaggio universale. Su Koons si
possono avere idee molto diverse, ma non è più possibile ignorarlo.
È merito di questo libro-intervista, e delle conversazioni che Jeef Koons
ha avuto con Norman Rosenthal, uno dei maggiori critici e curatori d’arte
contemporanea europei, aver dato la parola all’artista per presentarci la sua interpretazione
del mondo, in modo da consentire ad ogni lettore di tratte le proprie
conclusioni.
NOTE
[1] Si pensi ai Dialoghi con Marchel Duchamp di Pierre Cabannes,
editi nel 1971, e – nel mondo anglosassone – alle Interviste con Francis Bacon, che David Sylvester pubblicò nel
1975. Entrambi i volumi sono stati da allora regolarmente ripubblicati. Per il
mondo italiano si pensi per esempio ai Conversation
Pieces di Achille Bonito Oliva del 1993, ed al più recente Opere d'arte a parole: dialoghi sull'arte
contemporanea di Angelo Capasso. Video con serie di conversazioni tra
artisti e critici sono disponibili presso i siti internet delle maggiori
manifestazioni di arte contemporanea, come Art Basel (https://www.artbasel.com/en/Basel/About-the-Show/Talks/Conversations),
Palazzo Grassi (http://www.palazzograssi.it/it/archivio-incontri-artisti)
e la Fondazione Guggenheim (http://www.guggenheim.org/search?cx=001816328621941992898%3Aupy5cqylet8&ie=UTF-8&q=Conversations+with+Contemporary+Artists).
Che la forma della conversazione tra l’artista ed il critico/curatore sia rimasta
uno degli strumenti principali delle fonti contemporanee di storia dell’arte è
anche documentato dalla “Conversation
Series” di Hans Ulrich Obrist, curatore delle Serpentine Galleries di Londra, che ha pubblicato negli ultimi
decenni (nel quadro dell’“Interview
Project”) 28 conversazioni con i maggiori artisti viventi, per i tipi della
Walther König di Colonia. La conversazione numero 22 – datata 2010 - è con Jeff
Koons. Si veda: http://www.artbook.com/9783865606358.html.
[3] https://www.facebook.com/pages/Jeff-Koons/13590051972 ; https://www.facebook.com/JeffKoons; https://www.facebook.com/jeffkoons4
[4] E' l’Olympia di Manet ad aver
colpito Koons, fin dai giorni dell’accademia, come racconta a pagina 27. Il
professore di storia dell’arte parla degli aspetti simbolici dell’opera, e
spiega che il gatto nero era il simbolo della prostituzione. Il dipinto “Manet” di Koons è disponibile su
internet, ma non sul suo sito ufficiale, e non è neppure riprodotto nel libro.
Si veda comunque: http://faculty.etsu.edu/koterbay/images/ARTH4077ContemporaryArt/koons.manet.91.jpg
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