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mercoledì 3 dicembre 2014

Eugène Delacroix. Diario. A cura di Lamberto Vitali (Torino, Einaudi, 1954)



Eugène Delacroix
Diario

A cura di Lamberto Vitali

3 volumi, Torino, Einaudi, 1954

Eugène Delacroix, Autoritratto (1837 circa), Parigi, Museo del Louvre
Fonte: Wikimedia commons

[1] Si riporta il testo della scheda bibliografica n. 30 (maggio 1954) che si trova all’interno del primo volume:

“Scritto quasi quotidianamente dal 1822 al ’24, nel 1832 e soprattutto dal ’47 alla morte, il Diario di Delacroix costituisce un caso unico nella letteratura autobiografica degli artisti: non solo per l’estensione, quanto per la complessità dei motivi, la profondità dell’impegno e della meditazione, la grande ricchezza documentaria e testimoniale.

«Les jours que ce papier ne mentionne point…sont comme s’ils n’avaient jamais existé», confessa l’Autore e può essere indicativo del valore che egli annetteva a queste sue privatissime note d’ogni giorno.

Frequentatore dei salons intellettuali e eleganti, le sue note valgono a rievocare, nella luce di un giudizio fermo e preciso, in certi casi di una distaccata durezza, sempre lucido tuttavia, la vita culturale e mondana della Francia di Luigi Filippo e dell’Impero. Stendhal e la Sand, Chopin e Balzac, Hugo, Dumas, Berlioz, Thiers, il principe Napoleone, Gauthier, per non citare che i più noti, sono tra i personaggi del Diario

Uomo di mondo, ma insieme, e soprattutto, pittore: di una vocazione senza riserve, di un impegno intero. E nel Diario troviamo un commentario infaticabile e acutissimo all’attività creativa, una riflessa e consapevole indagine sui procedimenti, i mezzi, le esigenze, la natura dell’arte. Un quaderno d’officina, potremmo definirlo, che tuttavia, per la libertà e l’incessante passione d’indagine, la spregiudicata e concreta modernità del gusto, può annoverarsi, a fianco delle Lettere di Flaubert e delle Curieusités di Baudelaire, tra i più vivi documenti della critica del tempo.

Ma oltre che dei suoi contemporanei e del suo lavoro, Delacroix nel Diario sa anche dare conto di sé: con una nobile misura, una pacata e discreta fermezza che pongono molte di queste sue note al livello della più rigorosa letteratura memorialistica. E comunque valgono a disegnare dell’uomo un ritratto compiuto e indimenticabile: del giovane romantico, con gli abbandoni, le malinconie, le frementi accensioni; e pure soprattutto del maturo gentiluomo che, nel silenzio delle passioni superate, nell’affinarsi diuturno dell’intelligenza e del gusto, sa comporsi giorno per giorno una sua virile, tranquilla e un po’ amara saggezza.

Noto finora in Italia attraverso scelte frammentarie, il Diario di Delacroix si presenta finalmente in una traduzione fedele e in un’edizione di grande impegno critico. La traduzione di Lamberto Vitali, condotta sull’edizione ormai classica del Joubin, presenta ampliata rispetto all’originale, con lettere e frammenti sparsi, quell’integrazione che già il Joubin, allegando taccuini, note, abbozzi, aveva ritenuto necessario complemento al Diario. Un attentissimo apparato di note, di cui molte originali del traduttore, illumina il lettore su fatti e persone. […]”

Eugène Delacroix, Dante e Virgilio agli Inferi (1822), Parigi, Museo del Louvre
Fonte: Wikimedia commons


[2] Quasi cinquant’anni dopo l’uscita della prima edizione, ovvero nel 2002, Einaudi ha riproposto l’opera, questa volta in due volumi, con minimi aggiornamenti.

[3] Si riporta recensione all’opera apparsa in data 3 luglio 1954 a firma Emilio Cecchi sul quotidiano Corriere della Sera. L’originale dell’articolo è custodito all’interno di Raccolta di articoli e altri ritagli di giornale di Luciano Mazzaferro, conservata presso la Biblioteca Comunale Giulio Cesare Croce di San Giovanni in Persiceto.

CORRIERE DELLA SERA – Letture
Il «Diario di Delacroix»
di Emilio Cecchi

Con una lunga interruzione fra il 1824 e il 1847, il Diario d’Eugenio Delacroix accompagna la vita e l’opera del grande pittore francese fino alla vigilia della morte (1863). Ma sia per gli anni che precedono il 1822, da quando il Diario venne tenuto regolarmente, sia per quelli della interruzione suddetta, è possibile, almeno fino ad un certo punto, integrarlo con annotazioni sparse e con informazioni e confessioni che abbondano nell’epistolario. Così, nel complesso, come a tutti è noto, esso costituisce uno dei massimi monumenti della letteratura autobiografica. E il suo interesse per noi è accresciuto dal fatto di trattarsi di artista (non meno attraente anche come uomo) che, con la propria opera e le proprie idee, esercitò un incalcolabile influsso sulla formazione della pittura impressionista francese, e di conseguenza su tutta l’arte contemporanea.

Eugène Delacroix, Il massacro di Scio (1824), Parigi, Museo del Louvre
Fonte: Wikimedia commons


A parte una certa rassomiglianza fisica, e numerose circostanze di fatto che i risultati di nuovi studi e ricerche sembrano rendere sempre più probanti, fu opinione remota e assai diffusa che il vero padre di Delacroix fosse stato Talleyrand. Padre, diciamo così, putativo, era invece un dabben diplomatico e prefetto di Napoleone. La madre proveniva da famiglia di mobilieri alsaziani che furono famosi sulla fine del Settecento. Rimasta vedova, essa morì che il futuro pittore era sedicenne, e lo lasciò in disagiate condizioni economiche. Una misteriosa protezione sembra tuttavia avere aiutato l’artista nei primi lustri della sua carriera, allorché più acerbamente era combattuto dalla critica e dal pubblico; e potrebbe essere stata appunto la protezione di Talleyrand.

In qualunque modo stiano le cose, è certo che il Delacroix fu educato in un ambiente non privo di dirette tradizioni artistiche, e frequentato da notevoli personalità letterarie, politiche e mondane. Questo pittore della rivoluzione romantica, sa leggere una citazione o un verso latino. A parte ciò che ha tratto con il suo mestiere, di cui possiede i più sottili segreti, ha una cultura svariatissima. Ha forte spirito critico; e sui grandi romantici contemporanei: Hugo, Dumas, la Sand, Balzac, ecc., i suoi giudizi, che anche oggi sono validi, di continuo vengono da lui accuratamente ripresi, ritoccati, messi a fuoco. Anche più che di letteratura, e quasi altrettanto che di pittura, è insaziabile di musica, ma sempre con indipendenza assoluta. Se Beethoven gli incute venerazione, in Wagner lo infastidisce il teorizzatore (capitale difetto in un artista, secondo lui: ch’è pure artista intellettualissimo); ed ha una inesplicabile e stizzosa avversione per la musica di Verdi. Per lui vanno bene Cimarosa, Bellini; ma soprattutto Mozart, Mozart, Mozart ed ancora Mozart. Tanto è vero che i grandi rivoluzionari dell’arte, sono sempre pieni di spirito classico.

Eugène Delacroix, La Libertà guida il popolo (1830). Parigi, Museo del Louvre
Fonte: Wikimedia commons


Geloso della propria libertà di gusto, gli dà perfino sospetto la devozione, il fanatismo, la abnegazione di Baudelaire, che non si stanca di esaltare con speciale enfasi gli aspetti «febbrili, morbosi, faisandés», della pittura di Delacroix. Al quale, una volta, a proposito appunto di Baudelaire, scappa detto «Il m’ennuie, à la fin». Frase che, al confronto di quella abnegazione, ha suono di crudeltà e ingratitudine; e che esprime tuttavia esattamente lo stacco psicologico e morale fra i rivoluzionari della prima generazione romantica, e i loro eredi e continuatori della seconda generazione.

Oltre a rendere minutamente conto della quotidiana opera di pennello (un po’ come il giornale tenuto dal Pontormo, al tempo ch’egli lavorò agli affreschi in San Lorenzo), il Diario di Delacroix ci informa delle letture, conversazioni, riflessioni; delle esperienze di viaggio in Marocco ed in Spagna; delle commissioni e vendite di dipinti, delle frequentazioni mondane, delle molteplici simpatie femminili. E finisce con offrire, nello sfondo del nervoso, vivacissimo autoritratto, un vasto quadro di tutta l’epoca. L’eccellente traduzione fornita da Lamberto Vitali, ed ora pubblicata in tre grossi volumi (Eugène Delacroix, Diario, con circa duecento illustrazioni in nero e a colori; Edit. Einaudi, Torino), mette in risalto questi svariati aspetti, come meglio non si sarebbe potuto.

Chi presso allo stesso editore, vide le Lettere dei Macchiaioli, raccolte e commentate dallo stesso studioso (e a suo tempo ne fu scritto su queste colonne), sa cosa aspettarsi dalla competenza e dal buon gusto del Vitali. Naturalmente, egli s’è basato sulla seconda edizione del Diario e su quella della Corrispondenza curate dal compianto Andrea Joubin; il quale già aveva provvisto a talune integrazioni di cui si fa cenno al principio di questa nota. Ma il Vitali ha ampliato tali supplementi. Allo stesso modo, s’è partito dalle annotazioni del Joubin al Diario, addirittura indispensabili, considerando la moltitudine delle persone citate e il formicolio di fatti, fatterelli ed allusioni, inafferrabili senza un chiarimento. Ma ha spesso sviluppato le annotazioni francesi; e le ha cresciute di molte altre, originali, a miglior guida dei nostri lettori. Né sto a parlare dell’introduzione critica, dove è agilmente interpretato lo spirito e (con i suoi episodi contraddittorii) la particolare evoluzione del romanticismo di Delacroix, il quale alla fine riconosce il proprio ideale estetico nella pittorica saggezza di Tiziano.

Nella scelta del materiale illustrativo, anziché insistere sulle opere più conosciute, sono dati, non esclusivamente ma con giustificata prevalenza, abbozzi, schizzi, studi, fogli di album. Col loro carattere improvviso, provvisorio, essi s’intonano stupendamente alla pagina, ch’è sempre scritta con altrettanto fuoco e abbandono. Ne è venuta una pubblicazione in sé bella, quanto carica d’insegnamenti d’arte e ridondante di forza morale. E se certi nostri pittori ne facessero tesoro, certamente sarebbe un bel guadagno, e per essi e per tutti.

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