Antoine Ch. Quatremère de Quincy
Lettere a Miranda
Con scritti di Edouard Pommier
Introduzione, traduzione e a cura di Michela Scolaro
Minerva Edizioni, 2002
Parte seconda
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La Grecia
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Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Guido Reni, La strage degli innocenti (Bologna, Pinacoteca Nazionale) Fonte: Wikimedia commons |
La Repubblica delle arti
Alla teoria del rimpatrio
Quatremère replica, con espressione sibillina: “Lo Spirito di conquista, in una
Repubblica, è interamente sovversivo dello spirito di libertà” (p. 121). Si
tratta delle motivazioni politiche che lo spingono ad esprimersi contro le
requisizioni. In realtà, stando a quanto testimoniato dalle Lettere, quella politica è la parte di
ragionamento che doveva essere sviluppata da Miranda, mentre al critico
francese spettavano le argomentazioni più puntualmente di natura artistica. Non
sappiamo se Miranda abbia mai scritto qualcosa in merito. Il suo archivio,
nella sostanza, è andato perso.
Ma le Lettere sono sufficienti per capire – ci dice Pommier – che la
libertà a cui fa riferimento Quatremère non è (ovviamente) la stessa libertà di
cui parlano i membri della Convenzione. Si tratta della libertà che vive sulla
Carta fondamentale del diritti; è una libertà universale, che non concepisce la
prevaricazione di un popolo su un altro, che si sostanzia nel controllo del
Parlamento e in una Costituzione. La libertà della rivoluzione, nel 1795, è una
libertà totalitaria e nazionalista, basata sull’uso delle armi e, appunto, sul
diritto di conquista.
Non è un caso che, in maniera se
vogliamo retorica, ma in diretta continuità con la tradizione illuminista del
Settecento, il critico francese cominci innanzi tutto con l’affermare
l’esistenza di una repubblica delle arti e delle scienze: “In effetti, lo
sapete, le arti e le scienze formano da lungo tempo, in Europa, una repubblica,
i cui membri, legati tra loro dall’amore e dalla ricerca del bello e del vero,
che sono il loro patto sociale, tendono molto meno a isolarsi nelle loro
rispettive patrie che a ravvicinarne gli interessi, dal punto di vista così
prezioso di una fraternità universale. Questo felice sentimento […] non può
essere soffocato neppure da quelle discordie sanguinose che spingono le nazioni
a dilaniarsi tra loro. […] Il propagarsi dei lumi ha reso questo grande
servizio all’Europa, che non esiste più nazione che possa ricevere da un’altra
l’umiliazione del nome di barbara. […] Sarà come membro di questa repubblica
generale delle arti e delle scienze, e non come abitante di tale o tal’altra
nazione, che discuterò di questo interesse che tutte le parti hanno alla
conservazione del tutto. Qual è quest’interesse? E’ quello della civiltà, del
perfezionamento dei mezzi della felicità e del piacere, dell’avanzamento e del
progresso dell’istruzione e della ragione, del miglioramento, infine, della
specie umana. […] Colui che volesse attribuirsi una sorta di diritto e di
privilegio esclusivo sull’istruzione e sui mezzi d’istruzione, sarebbe ben presto
punito per questa violazione della proprietà comune, dalla barbarie e
dall’ignoranza. […] Se voi convenite sulla sola possibilità del pregiudizio che
porterebbe all’istruzione generale dell’Europa il dislocamento dei modelli e
delle lezioni che la natura per sua volontà onnipotente, ha posto in Italia, e
soprattutto a Roma, voi converrete anche sul fatto che la nazione che se ne
rendesse colpevole verso l’Europa, che contribuirebbe a rendere ignorante,
sarebbe anche la prima ad essere punita dall’ignoranza stessa dell’Europa, che
ricadrebbe su di lei” (Lett. I, pp. 170-172) [7]. Parole chiarissime:
Quatremère è un illuminista cosmopolita e rifiuta la deriva nazionalista della
Rivoluzione.
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Caravaggio, La deposizione di Cristo (Pinacoteca Vaticana) Fonte: Wikimedia commons |
L’Antichità
Se esiste un terreno comune su
cui si basa la repubblica delle arti, questo è costituito dall’Antichità. In
realtà tutte le tesi di Quatremère sono svolte avendo come paradigma le
antichità. Siamo in pieno clima neoclassico (e Winckelmann viene espressamente
citato come padre della scienza delle antichità). “E’ impossibile che questo
grande focolare, sempre crescente, dei lumi dell’antichità, non diffonda, tra
breve, una luce sconosciuta a coloro che ci hanno preceduto. […] Non credo di
ingannarmi predicendo che di tutte le cause di rivoluzione o di rigenerazione,
che possono influire sulle arti, la più attiva, la più capace di produrvi degli
effetti di un ordine del tutto nuovo, sia questa risurrezione generale di quel
popolo di statue, di quel mondo di antichi la cui popolazione aumenta tutti i
giorni” (p. 178). Quatremère naturalmente allude alla riscoperta delle
antichità che ha avuto inizio con gli scavi di Pompei ed Ercolano e ha dominato
la seconda metà del Settecento. “Quel mondo che non hanno visto né Leonardo daVinci, né Michelangelo, né Raffaello, o del quale avevano visto soltanto la
culla, deve esercitare un’influenza straordinaria sullo studio delle arti e sul
genio dell’Europa” (idem).
Roma e la teoria del contesto
Ma condizione indispensabile
perché il mondo delle statue possa esercitare tutto il suo influsso sul genio
delle arti è che esse restino dove la natura ha stabilito che fossero
conservate: Roma. E qui compare finalmente la teoria del contesto. E’ la natura
che ha voluto che Roma sia il luogo di elezione dell’arte. Non è possibile, non
è desiderabile, non è utile smembrare il patrimonio che si trova a Roma per
portarlo altrove e disseminarlo in giro per l’Europa. Al danno causato dal
saccheggio non si aggiungerà alcun utile per il saccheggiatore. E qui il
francese contesta il modello proposto come collettore finale dei capolavori
requisiti: il museo. L’idea di museo che ha in testa Quatremère è ben diversa
dalla raccolta di opere d’arte singolarmente prese ed esposte sul modello di
una ‘Camera delle meraviglie’. Leggiamo insieme: “Si possono trasferire
integralmente tutte le altre specie di depositi pubblici d’istruzione: quello
delle antichità di Roma non potrebbe esserlo che in parte; è inamovibile nella
sua totalità. […] Il vero museo di Roma, quello di cui parlo, si compone, è
vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di
terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di
affreschi, di bassorilievi, d’iscrizioni, di frammenti d’ornamenti, di
materiali da costruzione, di mobili, d’utensili, etc. etc. ma nondimeno è
composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche,
dalle rispettive posizioni della città in rovina, dai rapporti geografici,
dalle relazioni fra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali,
dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono
fare se non nel paese stesso” (Lett. II, pp. 182-183). Ecco l’insostituibilità
del contesto. L’opera d’arte può essere trasportabile, il contesto no. “Quale
artista non ha provato in Italia quella virtù armonica tra tutti gli oggetti
delle arti e il cielo che li illumina; e il paese che serve loro quasi da
sfondo; quella specie di fascino che si comunicano [n.d.r si comunicano, non
‘ci’ comunicano] le belle cose, quel riflesso naturale che si procurano i
modelli delle diverse arti, posti gli uni di fronte agli altri, nel loro paese
natale?” (Lettera IV, p. 195). L’asportazione dei capolavori è dunque da
evitare; i capolavori devono stare accanto a tutte le altre opere, anche quello
di qualità inferiore, proprio per dare la possibilità di comprendere il
contesto ed operare confronti; la comprensione del bello non è corretta (è anzi
distorta, e quindi dannosa) se prescinde dal contesto. Il museo di Quatremère,
dunque, è un museo diffuso, fatto di luce, di colori, di ambienti, di
tradizioni. E’ un museo a cielo aperto, è Roma, e, in maniera del tutto
analoga, è ognuna delle realtà locali dell’Italia, ciascuna espressione di una
scuola pittorica con proprie caratteristiche. Il museo che la rivoluzione sta
approntando non potrà essere altro invece che un deposito di tante opere,
fors’anche capolavori, ma prive del legame con la realtà, e quindi mute.
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Raffaello, La Madonna di Foligno (Roma, Pinacoteca Vaticana) Fonte: Wikimedia commons |
La Grecia
Quatremère, peraltro, è
perfettamente consapevole dei punti deboli del suo discorso. Uno su tutti: non
è Roma il luogo di origine di quelle statue, ma la Grecia; a Roma sono giunte o
per diritto di conquista o per via di accordi commerciali. “Quanto rimpiangono
gli artisti che quei tesori della scultura non possano ritrovarsi a confronto
con i templi della Grecia, con i monumenti dell’Attica! […] E’ là che il cielo,
la terra, il clima, le forme della natura, gli usi, lo stile degli edifici, i
giochi, le feste, gli abiti, si troverebbero ancora in armonia con i loro
antichi ospiti. Ecco, se fosse permesso auspicare uno spostamento della
scultura antica, dove la ricollocherebbe il voto di un artista. […] Roma è
divenuta per noi ciò che la Grecia era un tempo per Roma. Ebbene! Cosa diceva
Cicerone, il più delicato amico delle arti del suo tempo, che acquistava statue
in Grecia? Queste cose, diceva, perdono il loro valore a Roma. Qui non c’è
abbastanza agio per gustarle. La distrazione degli affari rende gli spettatori
indifferenti a tutte queste gioie, che vogliono, per essere sentite, il riposo
e la quiete filosofica della Grecia. E Cicerone non parlava soltanto per
gli studiosi di Roma […]; ma sentiva che le cose belle che aveva visto in
Grecia, a Roma non gli sembrano più così belle” (Lettera IV, p. 196).
Modernità di Quatremère
A chi dar ragione? All’idea di
museo enciclopedico o a quella di museo diffuso? Non è certo qui il caso di
prendere una posizione. Del resto dice bene Michela Scolaro nella sua introduzione:
il critico francese suscita in noi un moto di simpatia (e amarezza) che è lo
stesso che proviamo nei confronti di Denon, quando, nel 1815, cerca con le
unghie e coi denti di impedire lo smembramento del Louvre ed il ritorno (parziale)
delle opere requisite nelle rispettive patrie. Quello che è chiaro è che la
teoria del contesto sta alla base della moderna tutela del patrimonio
artistico. E in fondo (ricalibrando le cose sulla base della modernità) quello
che Quatremère solleva è il dibattito che riempie pagine e pagine dei nostri quotidiani
ai giorni nostri: dove esporre i Bronzi di Riace? Restituire alla Grecia i
marmi del Partenone? Sfruttare il filone delle mostre-evento o percorrere
quello meno gratificante ma più proficuo della mostra come espressione di un
percorso di ricerca? Insomma, siamo tutti figli di Quatremère, dell’illuminismo
e della rivoluzione francese. Se c’è un punto
che non convince nell’accorato appello del critico francese, semmai, è
quello di proporre una visione del mondo come risultato di eventi storici
millenari, ma privo di una dinamica futura. Il museo a cielo aperto comporta
l’idea che il tessuto sociale, civile, commerciale della città non cambierà
mai. Quella di Quatremère è una scelta identitaria, ma totalmente priva
dell’idea che l’organizzazione della società possa presentare dinamiche
differenti in epoche successive. Roma è un meraviglioso acquario, a cui
preoccuparsi di cambiare l’acqua nei tempi dovuti. Non di meno, la forza
emotiva dello scritto è senza dubbio trascinante.
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Federico Barocci, Circoncisione di Gesù (Parigi, Museo del Louvre) Fonte: Wikimedia commons |
Quatremère e Gaspard Monge
Vorrei concludere operando un
breve confronto fra le Lettere di
Quatremère e le lettere che, nello stesso periodo, Gaspard Monge, matematico
francese addetto in Italia alla requisizione delle opere d’arte, scriveva alla
moglie da Roma. I due (naturalmente) si odiano. Monge scrive ad esempio alla
moglie che male ha fatto il tribunale di Parigi a prosciogliere il critico
francese da ogni accusa di cospirazione per il colpo di Stato del 1795. Bisognava
passarlo per le armi. Al di là del diverso genere letterario (le lettere di
Quatremère sono fittizie; quelle di Monge hanno davvero natura privata) non
credo che possa esservi confronto più appropriato per mostrare quanto fossero
agli antipodi due mondi che si trovavano a convivere in Francia. L’argomento
del contendere, naturalmente, è Roma.
Quatremère:
“Molto tempo prima di Leone X,
Papa Nicola V, il maggior amatore delle arti che ci sia stato, aveva concepito
l’idea di ristabilire Roma antica in tutti i suoi edifici: questa gigantesca
idea […] era tuttavia un sogno dell’immaginazione più ardente e più appassionata
per le belle cose; ma quel progetto, inattuabile per quanto riguarda gli
edifici dell’Impero Romano, lo abbiamo visto e lo vediamo realizzare tutti i
giorni per quanto riguarda i monumenti dell’arte. Ogni istante, grazie alle
cure e agli incoraggiamenti del governo della Roma moderna, vede risorgere
dalla rovine alcuni preziosi frammenti della Roma antica. […] Sapete anche voi
quante volte vi siete meravigliato con me del fatto che, al centro dell’Europa,
il governo di Roma, con finanze così esigue, spendesse per le arti più di tutti
gli altri governi messi insieme, sia ricercando e restaurando in modo
dispendioso i capolavori nascosti e mutilati dell’arte degli antichi, sia
costruendo per contenerli quelle sontuose gallerie, la magnificenza e lo
splendore delle quali attestano all’Europa l’onore che si fa alle belle cose e
a coloro che vanno a visitarle o a studiarle” (Lettera II, pp. 176-177)
Gaspard Monge [8]:
“… Sono trasecolato quando ho
visto in che stato di abbruttimento è costretto a vivere un popolo retto da un
governo che si fonda sull’impostura e che, da dieci secoli, sopravvive solo
grazie alle sovvenzioni delle nazioni cristiane. Le rovine dell’antica Roma
sono peraltro magnifiche; rispetto ad esse tuttavia, gli imbecilli che abitano
questa città manifestano un’estraneità pari a quella che, relativamente alle
piramidi d’Egitto, dimostrano i poveri maomettani, i quali non sanno neanche da
chi siano state erette. Il Foro, il luogo dove il popolo romano esprimeva la
propria volontà, il teatro delle grandi passioni di uomini straordinari; il
Foro, dagli imperatori successivamente arricchito di splendidi monumenti […],
ebbene! Il Foro viene oggi chiamato Campo Vaccino, nome ovviamente degno
dell’attività che vi si svolge: il mercato del bestiame. […] Roma, mia cara
amica, non è che una mummia, il cui spirito vitale si è spento da tempo” (Roma,
29-30 luglio 1796, pp. 67-68) Ed ancora: “quando avremo portato a termine la
nostra missione, nessuno ci farà caso e tanto meno sarà in grado di ricordare
il numero dei pezzi che avremo prelevato” (Roma, 2 agosto 1796, p. 70). Triste
dirlo, ma (salvo i capolavori assoluti) è esattamente quello che successe.
NOTE
[7] Ovviamente, il fatto che
Quatremère, accanito monarchico, parli dell’esistenza di una repubblica delle
arti non ha alcuna valenza politica. Il termine ‘repubblica’ è qui inteso nel
senso di ‘spazio comune di libertà e confronto’. Allo stesso modo, la
consapevolezza dell’esistenza di una comunità transnazionale è ben lungi dal
progetto di un soggetto politico federale. Gli Stati nazionali non sono messi
in discussione. Anzi, nella lettera II, alla loro esistenza sembra che
Quatremère attribuisca un valore positivo nel caso dell’Italia: “La divisione
dell’Italia in diversi stati rivali, non ha contribuito poco a moltiplicarvi
sia gli artisti sia le opere d’arte: […] vi hanno prodotto quelle differenti
scuole, tra le quali regnò la più viva emulazione, sia relativa alla grandezza
delle imprese sia riguardo alla diversità delle maniere o dei procedimenti
d’imitazione” (p. 175).
[8] Si veda Gaspard Monge, Dall’Italia (1796-1798), a cura di
Sandro Cardinali e Luigi Pepe, Palermo, Sellerio, 1993
mi viene da piangere,sono emozionata da quanto leggo .Mi sono sempre chiesta se è democratico il tour delle opere d'arte di cui oggi tutti si sentono fieri.E se qualcuno si interroga sul significato della celebrazione del numero dei visitatori e degli introiti nei luoghi d'arte Angela Surace
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