Antoine Ch. Quatremère de Quincy
Lettere a Miranda
Con scritti di Edouard Pommier
Introduzione, traduzione e a cura di Michela Scolaro
Minerva Edizioni, 2002
Parte prima
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Paolo Veronese, Le nozze di Cana (Parigi, Museo del Louvre) Fonte: Wikimedia Commons |
Un manifesto contro
la requisizione delle opere d’arte
Ci sono testi che hanno un
significato simbolico nella storia della tutela del patrimonio artistico. Le Lettere a Miranda del critico d’arte
francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, pubblicate in piena
Rivoluzione, entro il luglio del 1796, sono una di queste opere. Intendiamoci,
le lettere di Quatremère (come vedremo) nascono ‘morte’ e non hanno alcun
effetto pratico. Se si vogliono studiare le tappe della tutela dei beni
artistici in senso positivo, il libro da consultare è uno scritto pionieristico
di Andrea Emiliani del 1978 (Leggi, bandi
e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi
Stati italiani (1571-1860)). E non si può prescindere, ad esempio, dal
cosiddetto Chirografo Chiaromonti (alias Papa Pio VII, ottobre 1802) e
dall’editto del Cardinal Pacca (1820). Tuttavia le Lettere di Quatremère hanno un altissimo valore simbolico: sono un
manifesto programmatico (il primo steso in maniera così organica) contro la
spoliazione delle opere d’arte per diritto di conquista. Nel caso specifico,
stiamo ovviamente parlando della requisizione delle opere d’arte italiane, ed
in particolare romane, operata dalle armate francesi di Napoleone a seguito
della sua prima campagna bellica nella Penisola. Le ragioni che portano Quatremère
a contestare lo spostamento (proprio mentre esso è in atto e viene celebrato da
tutta l’opinione pubblica francese) non sono solo di natura politica (ovvero
relative alla maggiore o minore convenienza ad umiliare altri popoli
depredandoli delle loro ricchezze), ma sono sviluppate nell’ambito della
cosiddetta ‘teoria del contesto’, in base alla quale solo là dove si trovavano
in origine, solo calate nel milieu
culturale che le ha prodotte, quelle opere hanno senso e restituiscono per
intero la loro ricchezza. Vedremo meglio.
Questa recensione è divisa in due
parti. Nella prima cercheremo di conoscere meglio i personaggi, le vicende
storiche e quelle editoriali che si muovono attorno alle Lettere. Nella seconda esamineremo nello specifico le tesi di
Quatremère.
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Raffaello, Estasi di Santa Cecilia (Bologna, Pinacoteca Nazionale) Fonte: Wikimedia commons |
Luglio 1796: la pubblicazione delle Lettere
Le Lettere di Quatremère sono sette. Sono fittizie, nel senso che non
si tratta di missive private, ma sono destinate alla pubblicazione. Compaiono a
stampa in una data imprecisata, ma probabilmente nei primi quindici giorni del
luglio 1796 (mai come nelle vicende della Rivoluzione francese le date sono
importanti; non solo gli anni, ma anche i mesi e a volte i giorni). Il loro
titolo esatto è Lettere sul pregiudizio
che potrebbero causare alle Arti e alla Scienza, la rimozione dei monumenti
dell’arte in Italia, lo smembramento delle sue scuole, la spoliazione delle sue
collezioni, gallerie, musei etc. Nell’edizione originale l’autore compare
solo in sigla (A.Q.) e il destinatario è ignoto. Solo in un’edizione successiva
(nel 1836) Quatremère specifica che la controparte è il generale venezuelano
Francisco de Miranda (se credevate che Miranda fosse una donna, non preoccupatevi;
capita a tutti). Del generale Miranda parleremo più avanti; per ora
immaginatelo come un eroe dei due mondi, esattamente come Garibaldi; ma terribilmente
più sfortunato). Come detto l’effetto delle lettere sulla spoliazione delle
opere d’arte italiane è nullo. L’operazione è già in corso. Ne abbiamo già
parlato in precedenti occasioni. Si vedano ad esempio Paul Wescher, I furti d’arte e le Lettere dall’Italia di Gaspard Monge. Tutto quello che l’opera
produce è una petizione rivolta al Direttorio e firmata da 50 artisti fra i più
famosi di Francia, in cui si chiede di sospendere momentaneamente lo
spostamento delle opere e di valutare meglio la validità delle tesi di
Quatremère. Un appello che cadrà nel vuoto e che ricordiamo solo perché, fra i
cinquanta artisti, compare anche il nome di Dominique Vivant-Denon, futuro
direttore del Museo Napoleone (il Louvre), che dal 1802 dirigerà (con grande competenza)
la selezione delle opere da asportare non solo dall’Italia, ma da tutta
Europa.
Si diceva che le Lettere nascono morte. Non potrebbe
essere diversamente. Si tratta di un manifesto chiaramente indirizzato contro
la politica della Convenzione, scritto da un uomo che vive in clandestinità,
condannato a morte in contumacia in seguito al tentativo di colpo di Stato del
5 ottobre 1795 (13 vendemmiaio anno IV), in cui i sostenitori della monarchia
costituzionale cercano di riprendere in mano il potere. La storia personale di
Quatremère, in realtà, è lineare: partecipa alla Rivoluzione nelle fila di
coloro che guardano come sbocco al modello politico inglese, con una monarchia
i cui poteri sono ampiamente sottoposti a controllo parlamentare. La sua Rivoluzione
è quella della Dichiarazione dei diritti universali e della Costituzione del
1791. Naturalmente, il succedersi delle vicende storiche lo travolge.
Dall’arresto di Luigi XVI, nell’agosto 1792, passa in clandestinità. Viene
arrestato nel marzo 1794; sopravvive al Terrore; è rilasciato dopo il colpo di
Stato che depone Robespierre (27 luglio) e torna a militare nelle fila dei
monarchici, fino, appunto, al nuovo periodo di clandestinità legato alle accuse
di aver cospirato contro la Convenzione. Condannato a morte, nell’agosto del
1796 (un mese dopo la pubblicazione delle Lettere)
è prosciolto dall’accusa. Nuovamente accusato di cospirazione, si rifugerà in
Germania fino all’amnistia proclamata da Napoleone in seguito al nuovo
ribaltamento politico che porta il generale al potere (1798). Ma anche sotto il regime
di Bonaparte si terrà defilato, per poi tornare alla vita pubblica con la
Restaurazione monarchica del 1814.
Esiste grande incertezza in
merito alla pubblicazione delle Lettere.
Nel testo pubblicato a luglio Quatremère fa frequentemente riferimento ad una
precedente pubblicazione delle epistole sulla stampa. Tradizionalmente si tende
a dire che le lettere comparvero prima singolarmente su ‘Le Rédacteur’ e poi
vennero stampate in volume unico immediatamente dopo. Edouard Pommier ritiene
di poter escludere la circostanza, non solo perché ha battuto a tappeto la
collezione completa del quotidiano, senza trovarne traccia; ma perché fa
presente che, all’epoca, ‘Le Rédacteur’ era un quotidiano che supportava pienamente
la Convenzione, e mai avrebbe pubblicato le lettere di un anti-rivoluzionario.
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Correggio, Madonna di San Girolamo (Parma, Galleria Nazionale) Fonte: Wikimedia commons |
La fortuna editoriale
La fortuna del pamphlet di
Quatremère fu rapida quanto fugace. Abbiamo detto della petizione al
Direttorio. Dopo non se ne parla più. Eppure, sia pur sottotraccia, le Lettere non mancano di avere una loro
importanza. Sappiamo ad esempio dal carteggio fra Canova e Quatremère (i due
erano molto legati) che lo scultore italiano le lesse nel 1802, quindici giorni
dopo essere stato nominato da Papa Pio VII Chiaromonti Ispettore Generale delle
Arti a Roma, e che a sua volta le fece leggere al Papa, che le gradì moltissimo
[1]. Non è certo fantasia pensare che Pio VII le avesse in mente nel momento in
cui, due mesi dopo, scrisse il Chirografo con cui stabiliva regole certe per
vietare l’esportazione delle opere d’arte all’estero. Risulta peraltro dallo
stesso carteggio che Canova le fece ristampare una prima volta nel 1803 [2] e
una seconda nel 1815, quando ne distribuì il testo a dignitari e ambasciatori delle
varie parti coinvolte, una volta ricevuto l’incarico di andare a Parigi a
recuperare i capolavori requisiti dai francesi; quasi a ribadire che agli
ostacoli giuridici agitati da Denon (che faceva presente come le opere non
fossero state rubate, ma fossero passate di proprietà secondo regolari trattati
di pace, riconosciuti dal diritto internazionale), Canova contrapponeva la
necessità di ricucire un tessuto culturale e ristabilire un contesto che erano
stati violati a danno di tutta la comunità internazionale, e non solo del Papa.
Nel 1836 Quatremère curò una nuova edizione dell’opera, e in quell’occasione –
come visto – rese pubblico che il destinatario delle lettere era il generale
Miranda.
Pur oggetto di alcuni studi nel
primo Novecento, le Lettere non sono
mai state ripubblicate fino al 1989, anno in cui sono comparse contemporaneamente
una nuova edizione francese, curata da Edouard Pommier e la prima traduziona
italiana, operata da Michela Scolaro [3]. La presente edizione (del 2002) le
ripropone sia nell’originale francese sia nella traduzione italiana e vi
aggiunge tre saggi pubblicati in precedenza da Pommier sulla politica delle
requisizioni e tradotti da Michela Scolaro. Pommier è sicuramente lo storico
dell’arte che meglio riesce a districarsi nei meandri degli anni rivoluzionari.
Questa recensione si basa soprattutto sul suo saggio La Rivoluzione e il destino delle opere d’arte, che in origine
accompagnava l’edizione francese del 1989 e che, appunto, la Scolaro ha
tradotto per l’edizione 2002.
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Mantegna, Madonna della Vittoria (Parigi, Museo del Louvre) Fonte: Wikimedia commons |
Francisco de Miranda
Nato in Venezuela nel 1750,
Miranda è ufficiale di carriera nell’esercito spagnolo (il Venezuela era
colonia iberica). La sua è una carriera brillante, che però s’inceppa per
motivi estranei alla vita militare. Miranda nutre infatti anche interessi di
natura culturale; accumula un’enorme biblioteca privata e diviene oggetto
dell’attenzione (poco gradita) dell’Inquisizione spagnola per il possesso di
libri e di opere d’arte dal contenuto ritenuto immorale. Dopo un breve periodo
di detenzione, nel 1783 riesce a scappare nell’America del Nord. L’incontro con
il mondo della Rivoluzione americana è fulminante. Miranda progetta la
creazione di una federazione di Stati che vada dal Mississipi a Capo Horn, a
cui sogna di dare il nome di Colombea. Naturalmente, per liberare il continente
sud-americano dal giogo delle colonie spagnole (e portoghesi) ha bisogno
dell’appoggio delle grandi potenze europee. Si trasferisce clandestinamente in
Inghilterra, dove prende contatti col governo britannico chiedendo (e non
ottenendo) di finanziare l’impresa. Con analogo obiettivo gira letteralmente
tutta Europa (spesso sotto falso nome), giungendo sino alla Russia. In Francia
arriva nel 1792, in piena rivoluzione, e si arruola nelle fila dell’esercito
con l’intima speranza di promuovere la sua causa. Dopo una serie di vittorie,
promosso da maresciallo a generale e posto a capo dell’Armata del Nord, viene
sconfitto dalle truppe anti-francesi in Belgio ed è accusato, del tutto
ingiustamente, di aver combuttato per la disfatta. E’ arrestato nel 1793 e
liberato solo nel 1795, ma (come Quatremère) conduce vita sostanzialmente
clandestina: la sua rivoluzione è quella parlamentare e costituzionale degli
Stati Uniti d’America e ha poco a che fare con la Convenzione e il Direttorio.
Tornato in Inghilterra, riorganizza le fila di coloro che aspirano
all’indipendenza latino-americana ed è pronto alla grande avventura nel 1806.
Il suo piano di liberazione parte proprio dal natio Venezuela, ma non è
fortunato: è vero che Miranda riesce a issare per la prima volta la bandiera
del Venezuela indipendente (da lui personalmente disegnata), ma è anche vero
che è costretto a una rapida ritirata per non essere travolto dalle truppe
spagnole. Il generale torna in Inghilterra e continua a tessere le sue trame
per la rivoluzione sud-americana. Nel frattempo, però, il Venezuela si solleva
nuovamente contro la Spagna e conquista l’indipendenza grazie alle gesta di
Simón Bolivar. Come prima cosa, gli insorti si recano a Londra e convincono Miranda
a tornare in Venezuela, dove (nel 1810) viene accolto come padre nobile della
patria. In realtà, una serie di vicissitudini (compreso un terribile terremoto)
fanno sì che la neonata repubblica incontri non poche difficoltà, e l’immagine
di Miranda ne risulta particolarmente offuscata agli occhi della popolazione.
Lo stesso Bolivar, che lo aveva convinto a tornare in patria, lo consegna agli
spagnoli. Il generale Miranda muore in carcere, nel luglio del 1816.
Oggi praticamente ignoto,
Francisco de Miranda era, all’epoca, un simbolo della lotta per la libertà di
tutti i popoli oppressi. La sua libertà è di impronta illuminista e liberale.
Al di là della reale efficacia dei suoi progetti, quello che conta è la
popolarità che le idee di Miranda ebbero, soprattutto nelle classi dirigenti
europee dell’epoca. Miranda diventa sinonimo di libertà. E’ molto bello quanto
Quatremère scrive di lui in un testo cronologicamente successivo alle Lettere (p. 17): “Miranda non è l’uomo
di un paese, si è convertito in una specie di proprietà comune, inviolabile”.
Più o meno, è quanto il critico francese scriverà anche delle opere d’arte.
Opere requisite dalle armate francesi nella campagna d'Italia 1796-1797: Raffaello, La Trasfigurazione (Museo della Città del Vaticano) Fonte: Wikimedia commons |
La teoria del rimpatrio
Prima di prendere in
considerazione nel merito le Lettere
è giusto richiamare quale fosse l’ideologia dominante in Francia al momento
della loro pubblicazione. Pommier ne dà conto con grande chiarezza ed
efficacia. Gli anni della Rivoluzione – non dimentichiamolo – sono anche gli
anni della furia iconoclasta che abbatte i simboli del potere monarchico.
Sbagliato pensare che tutto avvenga in una notte. Siamo di fronte ad una
spirale che si avvita su se stessa fino a raggiungere il suo apice nel 1792,
con l’arresto del Re da un lato e dall’altro l’abbattimento e la fusione della
statua ‘per eccellenza’, ovvero l’enorme gruppo bronzeo dedicato a Luigi XIV in Place des Victoires [4]. Il primo a contrapporre all’ondata di distruzioni
ancora in pieno corso la volontà di fare della Francia la nuova patria dei
capolavori dell’Europa è Armand Guy Kersaint nel suo Discours sur les monuments publics prononcé au Conseil du département
de Paris le 15 décembre 1791 [5]. “Kersaint [n.d.r. che finirà
ghigliottinato sotto Robespierre] si riallaccia, di fatto, a un’intera corrente
di pensiero del XVIII secolo che, facendosi forte in particolare delle tesi di
Winckelmann sull’arte greca, identifica la fioritura delle arti e il regno
della libertà” (p. 74). Le arti non possono fiorire dove non vi sia libertà. E
posto che la patria dell’unica e vera libertà è la Francia, ne consegue
direttamente che le arti non possono fiorire che in Francia. Tutte le opere
d’arte prodotte dal genere umano, e conservate in qualsiasi altro paese, sono,
di fatto, prigioniere di sistemi politici dove la libertà non esiste e non
aspettano altro, non chiedono altro che di essere liberate. Le tesi di Kersaint
saranno riprese negli anni successivi e diventeranno un vero e proprio cardine
della politica francese. E’ assolutamente vero che, in questo senso, politica
interna, politica estera e politica culturale si tengono assieme in un legame
inscindibile, e senza alcuna reale soluzione di continuità fra le varie fasi
della Rivoluzione. Non è la Francia che rivendica a sé le opere d’arte altrui
per diritto di conquista; sono le opere d’arte che chiedono espressamente di
poter tornare nel regno della libertà per scampare dalla prigionia. A questo
ribaltamento logico, Pommier dà brillantemente il nome di teoria del rimpatrio.
I primi esempi di ‘rimpatri’ si hanno con la conquista del Belgio nel 1794: “La
scuola fiamminga si leva in massa per venire ad ornare i nostri musei” (pp.
79-80), scriveranno in Francia [6]. La grande operazione di requisizione ha
avuto il suo inizio.
C’è un luogo in cui le opere
d’arte, una volta giunte in Francia, troveranno degna collocazione? Ovviamente
sì. E’ il Museo Nazionale (poi Museo Napoleone), ovvero il Louvre, ex residenza
del sovrano, come espressione di una cultura enciclopedica ed universale.
Come risponde Quatremère a queste
tesi? Lo vedremo nella seconda parte.
FINE PARTE PRIMA
NOTE
[1] Il carteggio Canova-Quatremère de Quincy 1785-1822 nell’edizione di
Francesco Paolo Luiso, a cura di Giuseppe Pavanello, Ponzano (Tv), Vianelli
Libri, 2005. Si vedano le lettere X, XII e XVI.
[2] Il carteggio cit… Lettera XXIX del 26 ottobre 1803 (“Si è qui fatta
una ristampa delle vostre già note Lettere, e vengono lette col dovuto
aggradimento”).
[3] All’interno di Lo studio delle arti e il genio dell’Europa.
Scritti di A.C. Quatremère de Quincy e di Pio VII Chiaromonti (1796-1802).
Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1989.
[4] Si veda François Lemée, Traité des Statuës, a cura di Diane H.
Bodart e Hendrick Ziegler, Weimar, Vdg, 2012.
[5] Per una recente edizione
bilingue (tedesca e francese) dell’opera si veda Armand-Guy Kersaint, Abhandlung über die öffentlichen
baudenkmäler. Paris, 1791/92, a cura di Christine Tauber, Heidelberg,
Manutius Verlag, 2010.
[6] Si veda anche Bénédicte
Savoy, Patrimoine annexé. Les biens culturels saisis par la France en Allemagne autour de 1800. Éditions de la Maison des Sciences
de l’homme, 2003.
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