François Lemée
Traité des Statuës [Treatise on Statues]
Traité des Statuës [Treatise on Statues]
A cura di Diane H. Bodart e Hendrick Ziegler
2 voll., Weimar, VDG, 2012
Isbn 978 3 89739-5
Frontespizio del Trattato delle Statue di François Lemée Fonte: http://voyageursaparistome2.unblog.fr/page/5/ |
Edizione critica del Trattato delle Statue, pubblicato da
François Lemée a Parigi nel 1688. L’edizione è organizzata in due volumi: il
primo presenta l’edizione anastatica dell’opera ed il secondo i commenti e i
ricchissimi apparati al testo. La presente pubblicazione è il frutto di una
collaborazione franco-tedesca. Vi hanno fatto capo gruppi di studio delle
Università di Poitiers ed Amburgo, guidati rispettivamente da Diane H.
Bodart e da Hendrick Ziegler. Questo il
motivo per cui parte dell’opera è in duplice versione, francese e tedesca.
Quando non lo è, interviene in aiuto il database
che è accessibile agli acquirenti dell’opera. Per spiegarci meglio: il testo
del trattato è – come detto – in ristampa anastatica, e quindi in francese, ma
si trova trascritto in tedesco su Internet. Lo stesso dicasi per tutti quegli
apparati (ad esempio il ‘Glossario dei monumenti’) che a stampa sono presentati
solo in francese (che resta quindi la lingua di riferimento per chi non
consulti il database).
Un Trattato apologetico
Il Trattato delle Statue non è un trattato di scultura. Non esamina
aspetti legati alle tecniche, non distingue fra scultura in bronzo e in marmo,
non presenta le vite degli artisti; anzi, non cita nemmeno un artista moderno a
parte Bernini (e di sfuggita). Ma ha comunque una sua peculiare importanza
perché si occupa di monumenti pubblici e dei problemi teorici ad essi
collegati: se sia giusto erigerli, chi possa farlo, come debbano essere, quando
e se sconfinino nell’idolatria e così via. E’ un’opera apologetica. Viene
scritta due anni dopo l’erezione del colossale gruppo bronzeo costruito in
onore di Luigi XIV in Place des Victoires a Parigi. E conviene quindi
ricapitolare brevemente le vicende che hanno portato alla creazione del
monumento.
Veduta di Place des Victoires in una stampa dell'epoca (col monumento a Luigi XIV) Fonte: http://voyageursaparistome2.unblog.fr/page/5/ |
Nel 1686 Luigi XIV è all’apice
del suo potere. In politica estera si è imposto su una lega composta da
Austria, Spagna e Paesi Bassi ed ha ottenuto significative conquiste
territoriali con la pace di Nimega (1679); in politica interna ha, di fatto,
sconfitto le resistenze dell’aristocrazia francese ed ha imposto una sorta di
controllo anche sulle gerarchie ecclesiastiche locali; d’altro canto, con la
revoca dell’editto di Nantes (1685) ha proibito un qualsiasi altro culto che
non fosse il cattolicesimo, prendendo così provvedimenti drastici nei confronti
degli Ugonotti, che vengono scacciati dal paese.
E’ di quell’anno l’erezione del
monumento in Place des Victoires. Ufficialmente è un dono; un omaggio al Re commissionato da uno dei suo marescialli, il
duca di La Feuillade. Ma pare subito improponibile che la spinta all’erezione
dell’opera non provenga da Luigi stesso. La statua non viene collocata in una
piazza già esistente. E’ la piazza ad essere creata per ospitare il gruppo
bronzeo. In realtà, la realizzazione dell’intero progetto dura cinque anni. Nel
1681 La Feuillade commissiona l’opera allo scultore Martin Desjardins. Alla
conclusione il gruppo è costituito da un basamento con quattro bassorilievi e
quattro schiavi incatenati. In cima al basamento uno statua colossale in bronzo
dorato rappresenta Luigi XIV incoronato dalla dea della Vittoria mentre
calpesta un cervo, simbolo della triplice alleanza (Austria, Spagna e Paesi
Bassi) sconfitta con la pace di Nimega. Si calcola che l’intero gruppo
scultoreo fosse alto complessivamente dodici metri. La statua era inoltre
illuminata anche di notte grazie a quattro colossali lanterne.
Naturalmente, stiamo decrivendo
l’opera basandoci sulle cronache e sulle stampe dell’epoca. La statua di Luigi
XIV è stata una delle grandi vittime dell’ondata iconoclasta contro tutti i
simboli della monarchia scatenatasi con la rivoluzione. La statua viene fusa
fra l’11 e il 13 agosto del 1792. Dieci giorni dopo Luigi XVI sarà arrestato e
all’inizio di settembre la Francia diverrà ufficialmente una Repubblica. Alcune
parti del monumento, tuttavia, si sono salvate e sono giunte fino ai giorni
nostri. Si tratta dei quattro schiavi che stavano in catene alla base del
gruppo scultoreo e che sono oggi conservati al Louvre.
L'abbattimento della statua a Luigi XIV (stampa dell'epoca) Fonte: http://voyageursaparistome2.unblog.fr/page/5/ |
Le polemiche dell’epoca
Le dimensioni ciclopiche della
statua, la sua iconografia, la cerimonia sfarzosa di inaugurazione attraggono
subito le polemiche: polemiche che piovono dai paesi stranieri, relazionati dai
relativi ambasciatori, che ritengono che la rappresentazione delle potenze
sconfitte in termini di schiavi incatenati ai piedi del Re Sole sia altamente
offensiva e violi le regole (non scritte) della celebrazione di una vittoria;
polemiche dal mondo protestante, che accusa l’opera di idolatria (da non
dimenticare che sul basamento appare la dicitura che la dedica è a Luigi XIV
‘Viro immortali’ (uomo immortale); ma anche dal fronte interno, dove (pur
sussurrate, per ovvii motivi) non sono poche le perplessità sul gigantismo
dell’intera operazione, che avrebbe mostrato l’eccessiva superbia del sovrano.
Un giurista all’opera
Per tutti questi motivi
interviene Lemée con il suo trattato (non è dimostrato, ma è estremamente
probabile che sia incaricato di scriverlo dal duca di La Feuillade). Lemée non
è uno scultore, un conoscitore o un critico d’arte. E’ un giurista. E da
giurista ripercorre la storia della scultura pubblica nel mondo per dimostrare
che la statua di Luigi XIV non solo si iscrive perfettamente nella tradizione,
senza violare alcun limite, ma che anzi ne rappresenta l’apice, la perfezione,
il non plus ultra del genere.
I quattro prigioni (ovvero Le quattro nazioni sconfitte) che si trovavano alla base del monumento e che sono oggi conservati al Louvre Fonte: http://voyageursaparistome2.unblog.fr/page/5/ |
Le argomentazioni di Lemée sono
di estremo interesse, così come di estremo interesse sono le due introduzioni
dei curatori presenti nel secondo volume di questa edizione moderna. Noi
citeremo soprattutto da quella della Bodart, ovvero Le Traité des Statües de François Lemée: pour une théorie des monuments
publics (pp. 17-39). Bodart mette innanzi tutto in evidenza come l’autore
del trattato si serva come fonte del De
statuis illustrium romanorum dello svedese Edmund Figrelius (1656).
Impossibile non notare che l’impianto delle due opere è sostanzialmente simile:
“un’accumulazione tematica di esempi tratti dalla storia antica, dalle fonti
classiche, dalla Bibbia e dalla patristica, che Lemée arricchisce di esempi
moderni […], ma anche, e questa è una novità, di elementi esotici […]. Così,
per citare un esempio, nella sezione dedicata alle sculture di dimensioni
gigantesche, Lemée paragona la taglia del colosso di Rodi a quella del «colosso
di Meaco» […], ovvero del Daibutsu (il
Grande Buddha) di bronzo anticamente a Kyoto. […]. Il palazzo che Lemée
costruisce in questa maniera, rifacendosi a Figrelius, ha per finalità di
mettere in evidenza la storia virtuosa della statuaria, il cui apogeo
corrisponde al caso più recente della scultura di Luigi XIV in Place des
Victoires” (p. 23).
Replicare alle accuse di aver
peccato di orgoglio è assai facile. Sin dai tempi degli antichi romani la
pratica di rappresentare magistrati e personaggi che ricoprono cariche
pubbliche è un omaggio alla virtù dei medesimi. Il vero problema, semmai, è
quando (e qui si scade nell’adulazione e nell’orgoglio) ad essere rappresentate
sono figure che non se lo meritano, individui meschini, personaggi di secondo
piano. Ma non è ovviamente il caso di Lemée che – tutto impegnato nel suo
programma apologetico – non può che sottolineare come Luigi XIV rappresenti
l’apice della moralità, della giustizia, della saggezza.
Il legame coi trattati della Controriforma
Molto più sottile, e più
complicato, il ragionamento che viene fatto per far fronte alle accuse di
idolatria che provengono dal mondo protestante. Accuse più infide, non
dimentichiamolo, perché la Bibbia individua nell’episodio del vitello d’oro,
creato mentre Mosé si trovava sul Sinai, l’origine dell’idolatria. La scultura,
dunque, ha per testimonianza biblica un rapporto diretto con il mondo degli
idoli. Qui la risposta di Lemée è
duplice e fa riferimento ai testi con cui la Controriforma aveva risposto alle
accuse dei protestanti. E’ dunque al De Historia
sanctarum imaginum et picturarum di Johannes Molanus (1594) e soprattutto
al Discorso intorno alle immagini sacre e profane di Gabriele Paleotti (1582) che si guarda. E’ così che l’autore
spiega come il divieto biblico ad erigere statue (e quindi idoli) “era
necessario all’epoca ante gratiam,
perché il popolo ebraico, così come i gentili, non era ancora stato illuminato
dalla luce della verità, essendo quindi incline a confondere la
rappresentazione con la cosa rappresentata. Una simile proibizione non aveva
tuttavia più ragion d’essere perché i cristiani, illuminati dalla rivelazione,
non correvano più il rischio di commettere un errore così grossolano ed erano
quindi immuni dall’idolatria. […] Un secondo punto fondamentale riguardava i
gesti di adorazione delle immagini – scoprirsi il capo, inginocchiarsi, portare
doni, presentare delle preghiere, toccare le statue con riverenza -. […]
Seguendo lo stesso principio, Lemée giustifica gli omaggi resi alle statue dei
principi, in particolare al monumento di Luigi XIV il giorno dell’inaugurazione
a Place des Victoires, in quanto gesti destinati non alla scultura in quanto
tale, ma, in virtù della sua rassomiglianza, al suo modello” (pp. 24-25).
Ma a Lemée non sfugge un’altra fondamentale argomentazione di Paleotti, che il cardinale aveva utilizzato all’epoca per giustificare l’erezione in Campidoglio di statue dedicate ai Papi a dimostrazione dell’affetto popolare nutrito nei loro confronti. Esiste un diritto ad essere rappresentati? “Il criterio di distinzione è evidentemente la virtù: poiché le statue o le immagini conferiscono di per sé un certo onore ai modelli rappresentati, non sarebbe conveniente attribuirle a un personaggio senza merito o colpito dal vizio […]. In questa prospettiva, se i ritratti degli imperatori pagani sono da bandire, quelli dei principi cristiani non sollevano obiezione di sorta e sono, al contrario, assolutamente raccomandabili. Ora, nel quadro di questa interpretazione moralista del ritratto, l’analisi di Paleotti in merito alle statue dei principi cristiani è di una lucidità politica senza precedenti e assolutamente inattesa. Il cardinale, in effetti, fa un falò di tutti i discorsi giustificativi dei monumenti pubblici fondati sulle nozioni dell’onore, del merito e della riconoscenza: secondo lui, queste argomentazioni avevano un loro valore solo per i gentili, per salvaguardare l’uso originalmente virtuoso delle statue dal pericolo dell’adulazione e dell’orgoglio. […] La questione del buon o cattivo uso dei monumenti pubblici non ha ragion d’essere per i principi cristiani, perché la statua, allo stesso modo delle insegne reali, fa riferimento alla loro «personalità pubblica», alla dignità della loro funzione di diritto divino. […] Paleotti giunge a definire la statuaria pubblica come uno strumento di potere sottomesso alla giurisdizione del principe” (pp. 26-27).
I quattro prigioni (ovvero Le quattro nazioni sconfitte): la Spagna Fonte: http://voyageursaparistome2.unblog.fr/page/5/ |
Ma a Lemée non sfugge un’altra fondamentale argomentazione di Paleotti, che il cardinale aveva utilizzato all’epoca per giustificare l’erezione in Campidoglio di statue dedicate ai Papi a dimostrazione dell’affetto popolare nutrito nei loro confronti. Esiste un diritto ad essere rappresentati? “Il criterio di distinzione è evidentemente la virtù: poiché le statue o le immagini conferiscono di per sé un certo onore ai modelli rappresentati, non sarebbe conveniente attribuirle a un personaggio senza merito o colpito dal vizio […]. In questa prospettiva, se i ritratti degli imperatori pagani sono da bandire, quelli dei principi cristiani non sollevano obiezione di sorta e sono, al contrario, assolutamente raccomandabili. Ora, nel quadro di questa interpretazione moralista del ritratto, l’analisi di Paleotti in merito alle statue dei principi cristiani è di una lucidità politica senza precedenti e assolutamente inattesa. Il cardinale, in effetti, fa un falò di tutti i discorsi giustificativi dei monumenti pubblici fondati sulle nozioni dell’onore, del merito e della riconoscenza: secondo lui, queste argomentazioni avevano un loro valore solo per i gentili, per salvaguardare l’uso originalmente virtuoso delle statue dal pericolo dell’adulazione e dell’orgoglio. […] La questione del buon o cattivo uso dei monumenti pubblici non ha ragion d’essere per i principi cristiani, perché la statua, allo stesso modo delle insegne reali, fa riferimento alla loro «personalità pubblica», alla dignità della loro funzione di diritto divino. […] Paleotti giunge a definire la statuaria pubblica come uno strumento di potere sottomesso alla giurisdizione del principe” (pp. 26-27).
Il ‘diritto alla statua’ come prerogativa sovrana
E’ a questa visione controriformata
proposta da Paleotti che Lemée si adegua: non solo non vi è alcun peccato d’orgoglio
né di idolatria nel monumento a Luigi XIV, per la virtù del modello
rappresentato e perché i cristiani hanno conosciuto la verità assoluta e dunque
non corrono il rischio di essere sviati sulla strada sbagliata. Ma il sovrano
detiene inoltre un vero e proprio ‘diritto alla statua’, ovvero “una
giurisdizione assoluta su ogni monumento pubblico costruito nel proprio reame.
Il giurista francese apporta inoltre un nuovo e determinante strumento
all’edificio di questa espressione del potere: proprio per l’immagine del
principe ch’essa veicola, la statua definisce l’appartenenza di un territorio a
un determinato sovrano […]. Ecco quindi che i monumenti reali […] disegnano su
più vasta scala una geografia del potere, di cui Lemée ci lascia peraltro una
cartografia europea, tracciata grazie ai numerosi esempi di statue moderne che
alimentano le sue argomentazioni” (p. 28).
I quattro prigioni (ovvero Le quattro nazioni sconfitte): l'Olanda Fonte: http://voyageursaparistome2.unblog.fr/page/5/ |
I monumenti pubblici, dunque,
come espressione del potere assoluto. A ben pensarci, si tratta della
formalizzazione di una teoria che prima che estetica è prettamente politica, e
che ha goduto di un successo incredibile nei secoli, non solo in Francia e non
solo in Europa. E che contiene già in sé la motivazione del loro abbattimento
violento, che puntualmente si verifica in occasione dei cambi di regime. Non si
abbatte l’arte; si abbatte il potere ed ogni sua traccia visibile. Una
circostanza di cui si accorge anche l’autore del trattato, che non a caso lo
chiude proprio con un capitolo dedicato all’abbattimento dei monumenti stessi,
salvo concludere che “il monumento di Place des Victoires non corre alcun
pericolo, nell’epoca presente come in futuro, grazie al carattere esemplare e
virtuoso del suo modello, Luigi XIV, che protegge la statua dal suo nemico
principale, l’incostanza del popolo” (p. 130). 104 anni dopo – come già detto –
la statua sarebbe stata abbattuta e fusa nel corso della Rivoluzione Francese.
Berlino, L'abbattimento della statua di Lenin (1991) |
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