Rosa Maria Giusto
Alessandro Galilei. Il Trattato di architettura
(recensione di Giovanni Mazzaferro)
Roma, Argos editore, 2010
Isbn 978 88 88690 35 3
Roma, Facciata di San Giovanni in Laterano (Alessandro Galilei, 1732) |
“Questo volume non è solo una
monografia ma anche un trattato di architettura; un insieme di testi e
riflessioni che restituiscono voce e nuove identità a un architetto noto nella
storia dell’architettura occidentale del Settecento, ma ancora poco studiato.
Un tributo a uno dei protagonisti della cultura architettonica preilluminista
che congiunse Firenze a Roma, e Roma a Londra lungo la rotta di un rinnovato
classicismo, aprendo la strada a un’inedita e appassionante visione della
disciplina dell’architettura quale processo di conoscenza enciclopedico,
multiculturale, plurilinguistico.
Scienza, matematica, geometria,
teoria delle fortificazioni, idraulica, agrimensura sono, accanto
all’architettura, alcuni dei campi d’indagine e di sperimentazione privilegiati
da Alessandro Galilei (1691-1737), che indirizza la cultura del proprio tempo
alle rivoluzioni del pensiero moderno, consegnando all’architettura un margine
di azione e applicazione assai più ampio e vitale. Per la prima volta è
pubblicato integralmente il suo trattato Della
Architettura Civile e dell’uso, e modo del fabbricare e dove ebbe origine,
che è allo stesso tempo un manuale e un compendio sulle fonti classiche
dell’architettura, scritto da Galilei in lingua italiana e inglese in un
programma di definitiva accettazione e convalida della centralità dell’Italia
nel dibattito culturale e scientifico nell’Europa del Settecento. Uno strumento
di facile consultazione che restituisce all’architetto vincitore del concorso
per la facciata di San Giovanni in Laterano un altro lato della sua storia.”
Fra Firenze, Roma e l’Inghilterra
Il nome di Alessandro Galilei è
noto ai più perché è lui che, vincendo un celebre e travagliato concorso
indetto dal Pontefice, eseguì la facciata di San Giovanni in Laterano. Siamo
nel 1732 e (semplificando eccessivamente) si può dire che la facciata della
chiesa segni il ritorno del classicismo architettonico e l’abbandono del
linguaggio del barocco romano, che aveva dominato la scena per tutto il
Seicento. L’attenzione dell’autrice, però, è concentrata su anni precedenti a
quelli dell’impresa lateranense, ovvero sugli anni della formazione. Galilei
era fiorentino, e a Firenze aveva studiato architettura; in quella Firenze che
di fatto rappresentava il baluardo del classicismo italiano, legata com’era ai
modelli edificativi michelangioleschi. Nel 1713 si trasferisce per un mese a
Roma; il confronto col barocco romano, l’ispezione personale delle opere si
rifletterà comunque nei progetti degli anni successivi, e darà vita a soluzioni
‘mediate’, in cui possono essere comunque percepite influenze berniniane nell’ambito
di una formazione michelangiolesca e palladiana. Sempre nel 1713 Galilei decide
di trasferirsi in Inghilterra a cercar fortuna; sin dai tempi di Firenze gode
di buone entrature nell’ambiente dell’aristocrazia inglese, e l’obiettivo è
quello di entrare nel circuito della committenza importante britannica. Galilei
resta in Inghilterra prima ed in Irlanda poi, fino al 1719. Si può dire che, in
termini di carriera, l’esperienza inglese sia un fallimento; dei tanti progetti
che presenta, praticamente nulla viene realizzato. La circostanza lo spinge
infine a tornarsene in patria, a Firenze, dove diventerà ‘Ingegnere delle
fortezze e fabbriche del Serenissimo Granduca di Toscana’ (e poi – come visto –
a compiere un percorso professionale che lo condurrà fino alla facciata del
Laterano).
I manoscritti conservati nel Fondo Galilei
Ma gli anni inglese, sia pur non
particolarmente felici sul piano delle soddisfazioni personali, sono importanti
perché ad essi risale la stesura del trattato sull’Architettura civile che è oggetto di questo volume. Le carte di
Alessandro sono conservate presso l’Archivio di Stato di Firenze, nel Fondo
Galilei. Tra esse “sono presenti quattro manoscritti autografi che documentano
le diverse fasi della stesura del trattato. Una prima redazione, fino ad oggi
trascurata, corrisponde probabilmente alla bozza preliminare, preparatoria alla
versione definitiva. Il manoscritto evidenzia i numerosi ‘debiti’ di Galilei
nei confronti di alcune delle più autorevoli e rinomate fonti dell’architettura
classica italiane, da cui attinge ‘a piene mani’, il più delle volte
occultandone l’origine nella versione finale, o ‘contraffacendone’ le
informazioni. Ad apertura di alcuni capitoli sono annotate delle sigle le
quali, una volta sciolte, si riferiscono a forme di abbreviazione dei nomi
degli autori e dei libri consultati da Galilei [n.d.r i più saccheggiati sono
Palladio e Scamozzi]; nella versione finale le sigle scompaiono del tutto e le
parti in cui l’autore nel brano originario trattava di sé o illustrava una
propria considerazione sono ‘tradotte’ in forma impersonale, in modo da farne
perdere le tracce, eliminando quanto possa fare esplicito riferimento a luoghi
o vicende narrate da terzi. Accanto alla bozza preliminare è la ‘messa in
pulito’ dello scritto, corrispondente al trattato vero e proprio […] cui segue
la traduzione pressoché fedele in lingua inglese […] Ultimo, ma non meno
importante, è un quarto manoscritto, anch’esso autografo che […] fu
probabilmente redatto in un secondo momento [n.d.r. dopo il ritorno in Italia],
a completamento di argomenti tralasciati, o solo parzialmente affrontati nella
precedente stesura” (pp. 88-89).
Va detto peraltro che il trattato
di architettura non è l’unico scritto conservato nelle carte dell’Archivio di
Stato. Alessandro appare scrittore prolifico, e ci permette di capire come la
sua visione dell’architettura non si concluda solo nelle pagine del trattato,
ma si estenda anzi a un sapere tecnico-scientifico ben più ampio. Tra le sue
carte troviamo “Fogli attinenti agli
studij del Sig.e Alessandro Galilei Architetto, un Quaderno con varie reg.le d’Arimmetrica…; un Trattato sulle fortificazioni; il Dell’Architettura Militare; Del
presidio, Monizioni e vettovaglie
necessarie per la piazza fortificata; un trattato di geometria; una
definizione di prospettiva lineare; un Breve
Trattato delle Sezioni Coniche; Dell’Utilità
che si traggono dalla scienza Mechanica, e da suoi instrumenti; un Trattato di Cosmografia; un Compendio dell’Astronomia: […], Regole per li Getti d’Acqua – Del Moto delle
Acque…, Trattato di molte
observazioni intorno la Campagna…” (p. 92).
Roma, Facciata di San Giovanni in Laterano (Alessandro Galilei, 1732) |
L’Architettura Civile
Dato atto della vastità degli
interessi di Galilei, che si spingono fino all’astronomia da un lato e alla
gestione delle acque e all’agrimensura dell’altro, ci viene spontaneo chiedere:
che tipo di trattato è, quest’Architettura
Civile? L’autrice in merito non ha dubbi: una sorta di manuale
teorico-pratico, in cui, per quanto riguarda la teoria si attinge spesso (come
detto) a fonti appositamente mascherate, ma che ha il suo vero punto di forza
nell’approccio pragmatico alla materia. Poca teoria, dunque (per capirci: non
esiste nemmeno una tavola riepilogativa degli Ordini classici) e molta enfasi
sulla pratica di cantiere, sugli aspetti che, a partire da fine Settecento,
sarebbero stati definiti prettamente ingegneristici (e che da fine secolo sarebbero appunto
stati oggetto degli studi degli ingegneri, professionalmente emancipatisi
rispetto agli architetti). Leggiamo ancora quanto scrive Rosa Maria Giusto,
perché di particolare chiarezza: “A Galilei interessa più indicare modi e
stagioni per fabbricare, o tempi o luoghi ove fabbricare, o i diversi tipi di
materiali da impiegare e, in generale, tutto quanto appartenga, per
definizione, alla pratica del cantiere, che non attardarsi in disquisizioni di
ordine teorico, più adatte alle aule di una biblioteca” (pp. 94-95) “E’ questa la
ragione per la quale Galilei, come già il Vignola e Palladio, opta per un
linguaggio specialistico e di ‘settore’ che non viene mai, nemmeno a inizio
testo, spiegato o messo in discussione: l’autore intende rivolgersi a un
pubblico di professionisti e addetti della materia che abbiano ben chiari i
fondamenti dell’architettura” (p. 96). “Nel trattato è assente qualsiasi
riferimento a opere costruite, siano essi modelli riconosciuti dell’antichità o
esempi della contemporaneità, ivi inclusi realizzazioni proprie o progetti,
così come non si ritrova, se non incidentalmente, un riferimento alle teorie
antropomorfiche, pure così importanti in Vitruvio, Alberti e Palladio” (idem). “Nel testo sono del tutto assenti
indicazioni relative al coevo dibattito europeo nei confronti del linguaggio
barocco: non si verifica alcuna presa di posizione riguardo a una questione
pure tanto attuale e dibattuta, né, per contro, Galilei esplicita mai una
personale idea di architettura, che invece esprimerà a chiare lettere appena
rientrato a Firenze in diversi ‘pareri’ e perizie in cui, oltre che attenersi,
come da incarico, a formulare il proprio giudizio tecnico opererà, senza
fraintendimenti, per una rielaborazione rivisitata criticamente, del codice
classico” (pp. 95-96).
Roma, Facciata di San Giovanni dei Fiorentini (Alessandro Galilei, 1733) |
Un’interpretazione un po’ forzata?
Fin qui tutto quanto scritto
dall’autrice ci pare di estremo interesse ed assolutamente convincente. Dove
siamo più cauti nel concordare è quando, a partire da quanto abbiamo appena
provato a descrivere, si traggono almeno due conclusioni. In primo luogo che
quello di Galilei sarebbe un testo enciclopedico; o, per meglio dire, che l’Architettura civile, unita agli altri
manoscritti conservati nel Fondo dimostrino come l’interesse di Galilei per
l’architettura sia di natura prettamente scientifica (l’architettura è una
scienza, e per questo Scamozzi viene saccheggiato così spesso) e precorra in
qualche modo l’approccio enciclopedico della Francia dei Lumi. In seconda
battuta, e come diretta conseguenza di ciò, che l’eventuale pubblicazione del
trattato avrebbe in qualche modo ridisegnato i tempi e i modi del dibattito
architettonico non solo in Italia, ma anche in Europa: in Italia proponendo
istanze funzionaliste che si esplicitarono solo a fine secolo; in Europa
ridisegnando il ruolo svolto dalla cultura del nostro paese nel processo
evolutivo dell’architettura continentale. “La stesura del suo trattato di
architettura, se pubblicato, avrebbe anticipato di diversi anni quei testi
rivelatisi nodali per l’architettura del Neoclassicismo e l’enciclopedismo,
spostando l’asse del dibattito scientifico europeo secondo una direzione
decisamente italocentrica; Marc-Antoine Laugier avrebbe pubblicato il suo Essai sur l’architecture nel 1753,
anonimo, e successivamente nel 1755, e il primo volume dell’Encyclopedie… uscì ‘soltanto’ nel 1751”
(p. 12). “Il testo di Galilei anticipa di diversi anni la partecipazione
italiana al dibattito settecentesco sulle teorie dell’architettura, che la
storiografia ufficiale ha da tempo ascritto all’opera in Francia di Jean-Louis
de Cordemoy e Marc-Antoine Laugier, o in Gran Bretagna a Colen Campbell e James
Gibbs, trovando soltanto in seconda battuta, negli scritti di Carlo Lodoli e
Francesco Algarotti, Giovanni Battista Piranesi, Francesco Milizia e Andrea
Memmo, spazio per nuovi, più avvertiti, spunti teorici di fatto successivi alle
prime, importanti, testimonianze europee. Da Algarotti, che pubblica il Saggio sopra l’Architettura nel 1756, a
Piranesi che dà alle stampe, nel 1760, il Della
Manificenza ed Architettura de’ Romani, e nel 1765 il Parere sull’Architettura; da Milizia, teorico per ‘eccellenza’ del
Classicismo settecentesco di marca italiana, autore dei Principj di architettura civile soltanto nel 1781, a Memmo, che
rende finalmente note le teorie sul funzionalismo lodoliano in Elementi dell’Architettura lodoliana…
editi, per la prima volta, nel 1786” (p. 87).
Con grande sincerità, queste ci
sembrano forzature. Ci è venuto piuttosto spontaneo riflettere su un’esperienza
precedente, in termini cronologici, rispetto a quella di Galilei, e in cui pur
ci sembra che l’Architettura civile possa
essere incanalata. L’esperienza è quella della scuola scientifica fiorentina,
che se si vuole ha il suo simbolo nella breve vita dell’Accademia del Cimento
(che nasce nel 1657). Mi spiego meglio: è fuor di dubbio che esista una
tradizione scientifica toscana, che nel 1600 fa capo a un Galilei ben più noto,
ovvero Galileo (sia detto per inciso: i due provengono da un unico ceppo
familiare). Questa tradizione non va trascurata e ha un suo riflesso anche sul
mondo delle arti. Attorno alla metà del 1600, ad esempio, Cosimo Noferi scrive
un altro trattato di architettura (la Travagliata
Architettura), anch’esso rimasto manoscritto, che a noi sembra avere un
approccio molto simile a quello di Alessandro: architettura come scienza, poco
spazio alla teoria e molto alle pratiche di cantiere, pragmatismo e scopo
didascalico (si veda Antonino Pellicanò, Da
Galileo Galilei a Cosimo Noferi verso una Nuova Scienza. La Travagliata
Architettura: un inedito trattato galileiano nella Firenze del 1650,
Firenze University Press, 2005). Ecco, mi sembrerebbe più logico iscrivere l’Architettura Civile di Alessandro nel
solco di questa tradizione toscana da cui proviene piuttosto che farne un
precursore di ciò che verrà mezzo secolo dopo. E ciò non vuol dire certo
sminuirne l’importanza.
Sul diverso ruolo che l’Italia avrebbe potuto giocare
in Europa in seguito alla pubblicazione del trattato di Galilei è presto detto:
l’Italia, o, meglio, gli Stati pre-unitari erano all’epoca pura periferia. Le
idee si trasmettono e a loro volta influenzano altre idee se sostenute da una
società e da un’economia solida; entrambe realtà che non appartenevano più al
nostro paese da tempo immemore. Difficile pensare, in questo senso, a
un’occasione perduta. Ciò non toglie che il ‘made in Italy’ vendesse bene. Non
a caso Alessandro va in Inghilterra sull’onda di precedenti esperienze di
artisti italiani che vi hanno avuto fortuna. E non è una coincidenza che la
stessa Architettura civile venga
tradotta in inglese, per una possibile pubblicazione. Mentre si trova in
Inghilterra Alessandro ha davanti a sé due esempi formidabili: il culto di
Palladio e Giacomo Leoni, che nel 1715-1716 pubblica con successo la prima
traduzione inglese dei Quattro libri
dell’Architettura. Difficile pensare che non abbia pensato di sfruttare
l’onda lunga, proponendo una sua interpretazione della materia.
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