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venerdì 17 ottobre 2014

Maria Luigia Fobelli. Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la 'Descrizione' di Paolo Silenziario, Roma, Viella, 2005



Maria Luigia Fobelli
Un tempio per Giustiniano.
Santa Sofia di Costantinopoli 
e la Descrizione di Paolo Silenziario

Roma, Viella, 2005


Istanbul, Santa Sofia

[1] Testo della quarta di copertina:

“Nel dicembre dell’anno 562 veniva completata la seconda ricostruzione del più grande monumento architettonico bizantino: la basilica di Santa Sofia a Costantinopoli.

Paolo Silenziario – poeta e intellettuale alla corte dell’imperatore Giustiniano – compose per l’occasione una descrizione in versi della chiesa e il poemetto, ideato come un parallelo letterario del monumento, fu al centro di una solenne cerimonia destinata a commemorare l’evento per un pubblico esclusivo: Giustiniano e la consorte Teodora, il patriarca Eutichio, le alte gerarchie ecclesiastiche, esponenti dell’aristocrazia civile e militare.

La grande cupola di Santa Sofia
L’opera di Paolo Silenziario costituisce per gli storici dell’arte la fonte principale sulla chiesa in età giustinianea e il punto di partenza per qualsiasi tentativo di disegnarne il ritratto originario, alterato da numerose vicende quali terremoti, ricostruzioni e restauri, distruzione degli arredi liturgici, trasformazione in moschea (1453) ed infine in museo (1934).

Questo volume presenta la prima versione italiana moderna e integrale, con testo greco a fronte, della Descrizione della Santa Sofia, accompagnata da un’analisi del poemetto all’interno della tradizione ekphrastica [n.d.r descrittiva] tardo-antica e da un accurato commento in cui si evidenzia il ruolo tutto speciale che ancora oggi esso riveste per la comprensione dello straordinario monumento che descrive; infine, muovendo dal testo, si discutono alcuni temi specifici dell’edificio nell’età di Giustiniano, come il programma figurativo della recinzione presbiteriale, i sistemi decorativi, il ruolo della luce, naturale e artificiale, nella Grande Chiesa.

[2] Santa Sofia fu inaugurata una prima volta nel 537, ma rimase gravemente danneggiata dai terremoti del 557, tanto che caddero “l’arcata, la semicupola orientale e una parte della grande cupola..., schiacciando sotto le macerie il ciborio, l’altare e l’ambone” (p. 9). La ricostruzione richiese cinque anni e portò ad una seconda inaugurazione, quella celebrata appunto da Paolo Silenziario nel suo poemetto. Tuttavia, al momento della cerimonia, che si tenne l’ultima domenica di dicembre del 562 o la prima di gennaio del 563, l’ambone non era ancora completato. La circostanza aiuta a spiegare perché, pur essendo l’opera di Paolo sostanzialmente unitaria, tradizionalmente la si divida in due parti, ovvero la descrizione della chiesa vera e propria (si tratta dei primi 1029 versi) e quella dell’ambone (si vedano i 304 versi successivi).

[3] La Descrizione della Santa Sofia ci è giunta attraverso un unico manoscritto, il Pal. Gr. 23 della Biblioteca Universitaria di Heidelberg. “Si tratta di un codice miscellaneo copiato a Bisanzio nel X secolo, che raccoglie opere di argomento sacro e profano... Il Palatinus Graecus 23 arrivò ad Heidelberg agli inizi del XVII secolo...” (pp. 11-12) e qui vi è custodito in maniera ininterrotta, a parte una breve parentesi in Francia in seguito alle requisizioni napoleoniche (sul fenomeno delle requisizioni si veda Bénédicte Savoy, Patrimoine annexé. Les biens culturels saisis par la France en Allemagne autour de 1800).

Ricostruzione in sezione della struttura di Santa Sofia


[4] “La Descrizione della Santa Sofia fu pubblicata per la prima volta a Parigi dal Du Cange nel 1680 nella sua Historia byzantina duplici commentario illustrata, con una versione ed un commentario in latino, ad eccezione della Descrizione dell’Ambone edita per la prima volta a Berlino dal Bekker nel 1815. Entrambi i poemetti furono ristampati dal Bekker nel 1837 a Bonn nel v. XXVIII del Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae con la versione e il commentario del Du Cange; così li ripropose il Migne a Parigi nel 1860 nel v. 86 della Patrologia Graeca. La prima edizione critica moderna è quella di Friedländer (1912) che ancora oggi resta la principale e su cui mi sono basata per la mia versione italiana e il mio commento” (p. 12). Non è del tutto corretta l’affermazione che compare in quarta di copertina secondo cui la presente sarebbe la “prima versione italiana moderna e integrale”, posto che una traduzione integrale in italiano e con commento (sia pure priva del testo originale in greco) fu pubblicata da Alessandro Veniero a Catania nel 1916. La circostanza è correttamente ricordata in bibliografia (p. 211), come pure dallo Schlosser nella sua Letteratura artistica (p. 20).

[5] Nel contesto di un’opera di sicuro valore, si ritiene doveroso segnalare l’apparato iconografico, veramente eccellente.

Un'immagine dell'interno 


[6] Si riporta il testo della recensione all’opera, a firma Cinzia Dal Maso, apparsa su Il Sole 24 Ore il 16.4.2006 (l’originale dell’articolo è conservato all’interno del volume).

DOMENICA – Scaffalart
Pubblicato il poema di Paolo Silenziario del 562
Sofia, che guida!

di Cinzia Dal Maso

Mosaico raffigurante San Giovanni Crisostomo


Perfetta guida turistica, grande divulgatore, abile narratore. Che altro dire di Paolo Silenziario, autore della ricercatissima Descrizione della chiesa di Santa Sofia? Anche chi non conosce la chiesa la può “vedere” attraverso le sue parole, la sua illustrazione in forma di racconto. Oggi si ama ripetere che il pubblico vuole storie, che i beni culturali acquistano vita e curiosità per la gente se qualcuno li aiuta ad animarsi, a raccontarsi. A far percepire dietro le pietre l’uomo che le ha costruite. Paolo Silenziario faceva tutto questo già quattordici secoli fa. Con modestia e rigore. Seguendo i canoni della comunicazione. Ma soprattutto mettendoci l’anima. Il suo entusiasmo è palpabile e palpabilmente genuino anche quando tesse le lodi dell’imperatore e del patriarca. Non c’è troppa piaggeria nelle sue parole, c’è gusto del racconto. Lo si legge tutto d’un fiato, nella limpida e misurata traduzione di Maria Luigia Fobelli. Quasi non si vorrebbe cedere al commento che illumina con acume le scelte retoriche e descrittive di un testo difficile e complesso. Ma come si fa a interrompere quel concitato passo in cui Giustiniano, saputo del crollo della cupola della basilica, subito si precipita al cantiere senza attendere neppure la scorta («l’opera fu più veloce della parola») e i militi, accortisi, lo inseguono in ordine sparso, cercando goffamente di riunirsi e ricomporsi per via? E come non emozionarsi quando si legge «meraviglia in perpetuo movimento» e si vedono con l’immaginazione la grande cupola, semicupola ed esedre rincorrersi di continuo e quasi confondersi l’una nell’altra? E la cupola, “elmo immortale” di solida muratura, calotta perfetta sostenuta da quattro potenti pilastri. Ma al tempo stesso «cielo luminoso», perfetta immaterialità, quasi sospesa nel vuoto dalla corona di finestre che la circonda.

Leone VI ai piedi di Cristo (particolare)


Santa Sofia fu la grande opera di Giustiniano imperatore. Dopo aver conquistato il mondo, egli volle lasciare la chiesa come testimonianza imperitura di sé e ci riuscì. Anzi, fece di più: da allora Santa Sofia è la Megale Ekklesia per antonomasia per tutta la cristianità. Un mito anche per l’Occidente, dopo lo scisma. Mito perduto da quando, con la conquista turca del 1453, fu trasformata in moschea e interdetta ai seguaci della fede antica. E alimentò infinite fantasie, spettacolari guizzi dell’immaginazione. Che non servirono invece al nostro Paolo Silenziario per la sua ékphrasis. La chiesa che lui racconta è l’originale, l’autentica. Autentiche e vissute le vicende che hanno portato alla sua erezione. La prima immane fatica di soli cinque anni, terminata nel 537 d.C., impareggiabile opera di Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto. Il terremoto del 558 che fece crollare la cupola, ma i muri avevano «una forza tale da opporsi agli insostenibili assalti di un demone avverso». La ricostruzione e la riconsacrazione nel 562. E poi l’opera ultimata, «meraviglia davanti alla quale l’amore divino accese il bagliore di ogni sguardo». «Tempio perfetto» che si ammira «con gli occhi incantati», oltre che in virtù della parole di Paolo, recitate di fronte a imperatore e patriarca. 

La Vergine e il Bambino con Giustiniano I e Costantino I


Parole “di scuola”, certo, parole di genere. Ma anche parole dinamiche. Raccontano la chiesa nel suo farsi, le architetture che si connettono l’una all’altra, i mattoni che si moltiplicano fino al sommo della cupola. Con qualche curiosità tecnica, per tenere alta l’attenzione dell’uditorio, come le lamine di piombo inserite nella muratura per alleggerire il peso della cupola. E una sorprendente semplicità di linguaggio. Le esedre sono “spazi e semicerchi”, e ci sono archi e conche, ma nessuna cupola o abside. Paolo descrive a profani e non a iniziati. Parla a tutti. Con metafore ardite e citazioni colte, e contaminando a piene mani il linguaggio dell’epoca. Ma rifuggendo dai tecnicismi. Per stimolare la partecipazione. Far sì che l’uditorio “veda” una conca che sovrasta altre conche, e tramite «pareti a forma di triangolo» (i pennacchi) si coordina con la cupola. Poi “veda” i marmi, descritti uno a uno nelle loro molteplici striature di colore e provenienze. E immagini di toccarli. E l’argento che riveste «i muri che separano i sacerdoti dalla folla» e la “torre” (il ciborio). E infine l’oro del mosaico delle cupole, ma soprattutto dell’altare e dei ricami della tovaglia purpurea dell’altare. Qui Paolo ha oltrepassato la soglia interdetta alla gente comune, è nel sancta sanctorum, ma temerariamente prosegue. Mostra a chi non può vedere. Narra i ricami uno a uno. Fa viaggiare con la fantasia. Al giorno d’oggi, sarebbe stato un perfetto speaker radiofonico. E nel descrivere l’illuminazione notturna dà il meglio di sé. Pare uno spettacolo, con le singole fiamme che una dopo l’altra s’illuminano. Si animano, ciascuna a modo proprio. Inondano di fulgore la sala immensa fino a tramutarla in «cielo sereno di gioia». È l’apoteosi.

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