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mercoledì 24 settembre 2014

Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - Max Pechstein, 'Erinnerungen' (Memorie), List Verlag, 1963


English Version

Scritti di artisti tedeschi del XX secolo - 2

Max Pechstein
Erinnerungen (Memorie)
A cura di Leopold Reidemeister

List Verlag, 1963, pp. 132

(Recensione di Francesco Mazzaferro)

[Versione originale settembre 2014 - Nuova versione aprile 2019]

Fig 1) La copertina dell'edizione più recente delle Memorie, pubblicate da DVA nel 1993 come edizione anastatica dell'originale stampato dal Limes Publishers

Le Memorie di Max Pechstein: vicende editoriali fra 1947 e 1960 

Dopo le Memorie di Karl Hofer, ci occuperemo in questo articolo di quelle di Max Pechstein (1881-1955). Ne sono uscite tre versioni: la prima nel 1960 (un’edizione elegante, con 105 disegni dell’autore, a cura della casa editrice Limes di Wiesbaden - cfr. fig. 2); la seconda nel 1963 (un’edizione tascabile per i tipi dell’editore List di Monaco, con appena 14 disegni (fig. 3)) e la terza nel 1993 (si tratta di una riproposizione dell’edizione del 1960 coi 105 disegni – è uguale anche la copertina -; è pubblicata dall’editore DVA di Stoccarda, con una postfazione di Karin von Maur). Tutte le edizioni sono oggi esaurite e sono reperibili sono in biblioteche o sul mercato antiquario. Non ci risulta che sia mai stata operata una traduzione in altra lingua. Se si opera un paragone fra le Memorie (Erinnerung) di Pechstein ed il successo tedesco delle memorie di Nolde o quello internazionale delle memorie di Klee, è difficile dire che abbiano goduto di grande fortuna. 

Ciò non significa che la storia delle Memorie di Max Pechstein non sia piena di risvolti interessanti per la storia delle fonti dell’arte nella Germania del XX secolo. Il testo fu preparato – come vedremo – dal pittore tedesco (vittima della persecuzione nazista) subito dopo la guerra. Doveva essere pubblicato nella Germania dell’Est (all’epoca zona di occupazione sovietica). Pechstein era stato fin dal 1919 molto vicino a posizioni di estrema sinistra, anche se non aveva sostenuto la violenza spartachista (1) e si era schierato con i socialdemocratici, a difesa della Repubblica di Weimar. In seguito, votò per i socialdemocratici, ma aveva anche continuato a produrre opere di sostegno all’Unione Sovietica (fra l’altro, manifesti di solidarietà all’URSS), fino alla presa del potere da parte di Hitler. Molto probabilmente tendeva a posizioni mediane tra socialdemocrazia e comunismo. Non sorprende dunque che avesse concluso un contratto con l’editore Aufbau-Verlag di Berlino Est per la pubblicazione delle sue Memorie. Depositò la prima versione del manoscritto, pronto per la stampa, nel 1946. Presentò comunque rettifiche nel 1947. 

Nel frattempo, però, la guerra fredda impedì la pubblicazione. Non vi erano più spazi per un dialogo all’interno delle varie anime della sinistra. Il regime comunista tedesco si allineò a quello sovietico, che non vedeva certo di buon occhio l’espressionismo tedesco. Sebbene gli espressionisti fossero stati perseguitati dai nazisti, l’espressionismo era considerato dai comunisti uno stile borghese, fiacco, formalista, e non in linea con il realismo socialista. Gli espressionisti furono di fatto accusati di non aver saputo reagire alla minaccia nazista, e di non avere preso le parti del proletariato. Il povero Pechstein – che era nato in Sassonia e dunque in una zona occupata dalle truppe sovietiche – cadde dalla padella nella brace, passando dall’ostracismo nazista a quello comunista. 

Ebbe però la saggezza di stabilirsi per tempo a Berlino Ovest, dove trascorse gli ultimi anni della propria vita (morì nel 1955) tra polemiche con i critici d’arte tedesco occidentali, che a lui preferivano Nolde, il suo storico nemico fin dal 1910-1911. 

Fino alla morte le Memorie rimasero inedite. Fu la vedova (la seconda moglie, Marta) a rivolgersi a uno storico dell’arte, Leopold Reidemeister, che aveva dedicato la sua attività critica, finita la Guerra, ai pittori del ‘Gruppo del Ponte’ (Brücke), giungendo ad aprire a Berlino Ovest, nella seconda metà degli anni Sessanta, il ‘Museo del Ponte’ (Brücke-Museum). Da Berlino Reidemeister curò l’edizione delle Memorie che uscirono a Wiesbaden nel 1960, un anno prima della costruzione del Muro. Concepite dunque per essere pubblicate a Berlino Est nel 1947, le Memorie furono stampate tredici anni dopo, a cura di uno dei critici d’arte di Berlino Ovest. 

Nell’introduzione all'opera, Leopold Reidemeister spiega che il testo era stato dettato da Pechstein ad una segretaria – in una situazione di estrema precarietà e senza più aver alcun documento originale alla mano – dopo che tutto era stato distrutto dalla guerra. Non è del tutto chiaro che cosa successe. Almeno una parte delle Memorie, come vedremo, consiste del viaggio a Palau, ed è molto probabile che di esse esistesse un manoscritto precedente. Comunque, Reidemeister scrive che correttamente decise di non modificare nulla nel testo dell’artista, se non correggere alcuni errori nella cronologia degli avvenimenti e aggiungere i disegni del pittore.

Fig. 2). La monografia su Max Pechstein pubblicata da Max Osborn per l'editore Propylaen di Berlino nel 1922

Se c’è un elemento su cui riflettere è che, mentre le Memorie non furono certo un grande successo negli anni ’60, la pubblicazione nel 1922, durante la Repubblica di Weimar, da parte del critico d’arte Max Osborn della prima biografia di Pechstein (eseguita in realtà in stretta cooperazione con il pittore) fu un successo editoriale. Secondo Bernard Fulda e Aika Soya - autori di un’ottima recente monografia sull’ascesa e la caduta della fortuna di Pechstein in un secolo di storia tedesca (2) – il pittore “nei tardi anni quaranta modellò molti passaggi della sua stessa autobiografia sui capitoli corrispondenti della biografia di Osborn”. Dunque la biografia di Osborn del 1922 serví forse nel 1946-1947 al pittore, che aveva perso moltissimi documenti nel bombardamento della casa a Berlino, per tracciare la linea della narrazione della propria autobiografia. Comunque, Osborn si era prodigato in elogi, tanto da definire l’ingresso di Pechstein nel gruppo del ‘Ponte’ (Brücke) a Dresda come il momento della nascita della pittura moderna in Germania. La realtà delle cose è, dunque, questa: Pechstein conobbe anni di grande successo personale nei primi decenni del XX secolo; ma la sua opera ha conosciuto una rapida decadenza, tanto che, negli anni ’60, le sue Memorie passarono sostanzialmente inosservate. 


L’esperienza del ‘Ponte’ 

Quella di Pechstein è una storia importante per l’arte tedesca ed europea in genere. Fu tra gli “inventori” dell'espressionismo. Quattro giovani artisti, Heckel, Kirchner, Schmidt-Rottluff e Bleyel avevano creato nel 1905 a Dresda il gruppo del ‘Ponte’ (Die Brücke). A loro, nel 1906, si aggiunse Pechstein, all’epoca 24enne, fornendo un apporto determinante in termini stilistici e di tecniche utilizzate dal gruppo. Fu Pechstein ad intrattenere i rapporti del ‘Ponte’ con gli altri gruppi espressionisti, come ‘Il cavaliere azzurro’(Blaue Reiter) a Monaco (espose con loro nel 1912) e la rivista ‘La tempesta’ (Sturm) a Berlino, e ancora con le ‘Belve’ (Fauves) di Henry Matisse a Parigi; ove – stando alle Memorie – l’artista partecipò alla mostra del gruppo nel 1908 (a dire il vero, Fulda e Soika, esaminando i materiali d’archivio, dubitano fortemente di questo legame con i pittori francesi; certamente frequentò Kees van Dongen, il membro olandese dei Fauves, con cui – fra l’altro – poteva probabilmente parlare tedesco, e cercò invano di convincerlo a partecipare all’attività del “Ponte” a Dresda). 

I pittori del ‘Ponte’ erano giovanissimi, squattrinati e cercavano un linguaggio pittorico comune. Lo trovarono, e trovarono anche il sostegno dei primi fan (fra i quali bisogna annoverare importanti critici d’arte) da un lato, e dall’altro la spietata contestazione dei detrattori. Se ci si perdona l’analogia, potremmo dire che i membri del ‘Ponte’ erano quasi come una rock band. Del resto, come tutte le rock-band, quelli erano tempi in cui i gruppi espressionisti nascevano, cambiavano direzione e composizione, e morivano a velocità impensabili, in genere ogni tre-cinque anni. E non tutte le ciambelle riuscivano col buco: Pechstein e Kirchner avevano fondato nel 1911 una scuola d’arte in comune, e la cosa s’era risolta in un insuccesso, come le Memorie stesse ci rivelano. Oppure poteva capitare che i loro membri ne venissero espulsi: è quello che successe a Pechstein nel 1912, cacciato dal “Ponte” dopo che aveva deciso di esporre “da solista”. Nel 1913 il ‘Ponte’ si sciolse definitivamente, dopo otto anni di vita: un tempo relativamente lungo. 

Fra tutti i pittori del ‘Ponte’, Pechstein fu al tempo stesso l’unico con una formazione accademica, ma anche quello la cui famiglia proveniva dal mondo operaio, in particolare dalla città industriale di Zwickau, all’epoca bastione della sinistra. Ci sono ricordi della giovinezza che sono incancellabili: Il pittore racconta ad esempio nelle Memorie di aver visto lì l’esercito sparare sulla folla. 


Il rapporto con l’Italia 

Pechstein fu anche il membro che subì più fortemente il fascino dell’arte italiana. In Italia venne diverse volte a partire dal 1907. Nel 1906 aveva vinto il Premio di Stato per l’Arte della Sassonia, chiamato anche “Premio Roma”: una borsa di studio che consentiva agli artisti vincitori di rimanere tre mesi nel nostro Paese a spese dell’Accademia di belle arti di Dresda, e di avere a disposizione uno studio pittorico nella Capitale. 

Su quel primo viaggio del 1907 egli scrisse nelle Memorie che non volle usare l’atelier che gli era stato riservato per lavorare come pittore a Roma, ma volle visitare l’Italia in lungo e in largo (Verona, Padova, Venezia, Ravenna, Bologna, Firenze, Pisa, Siena, Roma, Napoli, la Sicilia, Genova, Parma e Milano). Fu fortemente influenzato dai nostri primitivi e dal tardoantico: “Mi entusiasmarono gli affreschi di Giotto, Fra Angelico, Ravenna, i mosaici di San Apollinare Nuovo e il Mausoleo di Galla Placidia; mi appassionarono i resti dell’arte etrusca e scoprii le raffigurazioni dell’antica pittura murale della Biblioteca Vaticana, che ancora non conoscevo nella loro maestosità. Catturai nei miei occhi il paesaggio e le persone attorno a me.” Le Memorie del 1960 contengono una serie di schizzi italiani: il Mausoleo di Teodorico a Ravenna, vari scorci di Venezia. Durante il viaggio inviò una serie di lettere all’amico pittore Alexander Gerbig. Da esse si ricava che ebbe pessimi rapporti con gli altri artisti tedeschi che si trovavano a Roma in quel tempo (si comportavano come degli schizzinosi nei confronti degli italiani). Durante il soggiorno in Italia produsse soprattutto paesaggi e riproduzioni di edifici ( - nessuna italiana si è mai voluta far ritrarre da me, anche vestita - scrive ironicamente a Gerbig). Non risultano contatti con artisti italiani nel 1907, almeno nelle Memorie

Nel 1910 Pechstein espose anche un’acquaforte (“Un ponte”) alla Biennale di Venezia. Evidentemente lasciò un buon ricordo. Nel 1911 fu invitato ufficialmente dalla casa Savoia a partecipare ai festeggiamenti per i cinquant’anni dell’unificazione italiana, per due settimane (tutte spesate dalla casa regnante). Un’occasione unica: ne approfittò per sposarsi con la sua Lotte e fare il viaggio di nozze in Italia a spese della nostra amministrazione. Scrive: “E anche durante questo nuovo, anche se più breve viaggio, vi sono diversi elementi che mi sono divenuti più chiari, e che sono stati importanti per la mia sensibilità“. In Italia ritornò, per un terzo viaggio di studio in Toscana e in Liguria, nel 1913, un anno dopo essere stato espulso dal ‘Ponte’. Erano mesi di grande successo per il pittore, che fu celebrato a Berlino con una mostra personale alla Galleria Gurlitt. Al tempo stesso, come dimostrato da Fulda e Soika, Pechstein era oggetto di crescente ostilità da parte di altri pittori (Nolde, Marc, Macke). Un buon motivo per cambiare aria e concedersi un nuovo viaggio italiano. 

In quegli anni stava nascendo la ‘Secessione Romana’, dove anche Pechstein espose; il gruppo della ‘Secessione Romana’ – con pittori come Casorati e Spadini - fu forse quello più proiettato verso il dialogo fuori dell’Italia (anche se soprattutto verso la Francia). L’Italia era percorsa da fremiti molto simili a quelli tedeschi: un anno dopo, nel 1914, nacquero ‘Nuove tendenze’ a Milano, la ‘Secessione di Bologna’ e si tenne la ‘mostra dei rifiutati’ dalla Biennale di Venezia. Al di fuori dell’esposizione alla mostra della ‘Secessione Romana’, non esiste però prova che Pechstein abbia avuto contatto con artisti italiani. 

I viaggi italiani non furono mai per Pechstein solo occasione di vacanza. Fu proprio nella nostra penisola che si confrontò per la prima volta con un problema che gli era posto dalla peculiarità dei paesaggi, dove spesso case e castelli erano arrampicati sulla cima di una collina: “Ciò mi costrinse a trovare delle soluzioni per suddividere le superfici nel quadro” e perciò “a confrontarmi con i problemi del cubismo, e con le leggi della luce e delle ombre.” Trovò quell’anno il suo paradiso-rifugio a Monterosso a Mare, nelle Cinque Terre (che visitò ancora nel 1924 e un’ultima volta nel 1925). (3) 

Il soggiorno del 1913 coincide con un cambio di stile, come dimostrato non solo dai paesaggi dei villaggi italiani arroccati sui monti, ma anche da uno dei suoi quadri più famosi, dipinto proprio a Monterosso: la ‘Barca dei pescatori’ (fig. 4). Allo stesso tipo di pittura Pechstein tornò anche nel 1924, coi ‘Portatori di pietra italiani’ e nel 1925 con ‘Alaggio della barca’. Monterosso a mare fu insomma il luogo in cui l’artista mostrò in più occasioni una pittura di tipo più monumentale. Diciamolo: più italiana. 

L’esperienza italiana è fatta anche di mostre e premi. A Venezia l’artista espose ancora due dipinti a olio (‘Barca a remi’ e ‘Natura morta’), e tre litografie a colori (‘Bagnanti I’, ‘Bagnanti II’ e ‘Nell’harem’) alla Biennale del 1922, un’edizione particolarmente importante per la Germania, che si ripresentava di nuovo all’opinione pubblica internazionale nel campo dell’arte, dopo la sconfitta militare e la dissoluzione dell’Impero. Nel 1930 ricevette un premio a Milano. Purtroppo non sono riuscito a scoprire di che cosa si trattasse. Va detto che nel 1930 si tenne a Milano la Triennale d’Arte; in quegli anni Marisa Sarfatti coordina a Milano il Gruppo Novecento. Negli anni in cui Pechstein comincia ad essere ostacolato dalla pressione nazista in Germania, è apprezzato dalla Marfatti, la teorica d’arte del fascismo, che lo cita nella sua “Storia della pittura moderna”, anch’essa del 1930. Pechstein ritornò poi ad esporre in Italia, alla storica biennale di Venezia del 1948, la prima allestita dopo la guerra, per una mostra sull’arte degenerata preparata da Roberto Longhi. 


Fig. 3) Francobollo commemorativo per i 100 anni dalla nascita di Max Pechstein.
Il bozzetto è tratto da 'Portatori di pietre' del 1925. 

Gli anni del successo 

Il rapporto con l’Italia fu fondamentale per il pittore, e lo aiutò a trovare un linguaggio pittorico personale che, da un lato, lo poneva tra gli innovatori espressionisti dell’arte tedesca, per il gusto del colore, e dall’altro ne conservava elementi formali classici. 

Pechstein fu il primo degli artisti del ‘Ponte’ ad affermarsi commercialmente (nelle Memorie ricorda con grande orgoglio che uno dei suoi primi acquirenti fu il futuro Cancelliere Walter Rathenau e che con i 300 marchi avuti per la vendita del quadro riuscì a fare un’intera estate di vacanze). Nel secondo decennio del 1900 arrivarono successi e riconoscimenti, e Pechstein si mise alla guida della ‘Nuova secessione’ di Berlino, quella degli espressionisti. Poi decise di partire per un lungo viaggio nell’isola di Palau (quella dei viaggi extra-europei dei pittori fu una moda contagiosa: negli stessi anni, Nolde raggiungeva la nuova Guinea, mentre Paul Klee, August Macke e Louis Moilliet andavano in Tunisia). La prima guerra mondiale lo colse di sorpresa, con l’occupazione di Palau da parte dei giapponesi (che si erano schierati a fianco dell’alleanza franco-britannica). Così come successe a Nolde, Pechstein riuscì a tornare in Germania solo dopo un lungo e rischioso viaggio, attraversando la stessa Gran Bretagna sotto falso nome. E così come accadde a Klee, al suo ritorno fu subito arruolato nell’esercito tedesco, e dovette combattere. 

Finita la guerra, Pechstein aderì alla Rivoluzione del Novembre 1918 e si impegnò addirittura per costituire un Soviet degli artisti nel 1919. Quando la neonata Repubblica di Weimar era ancora minacciata da bande armate di destra e di sinistra, non aderì tuttavia al movimento spartachista, operò contro il pericolo della guerra civile e si mise a disposizione dei Socialdemocratici al potere. 

Pechstein fu uno dei simboli viventi dell'intensa vita culturale della Germania weimariana. Fu certamente tra i cinque pittori tedeschi più conosciuti degli Anni Venti. Non dobbiamo dimenticare – scrive Christian Saehrendt (4) – che gli erano state dedicate tre monografie già prima del 1923: la prima di Walter Heymann del 1916 (5); la seconda, firmata da Georg Bierman nel 1919 (6), contiene una lunga lettera autobiografica (7), indirizzata il 6 Agosto 1919 dal pittore a Bierman stesso (e rappresenta in qualche modo il nucleo fondante delle Memorie redatte nel 1947); la terza è la biografia di Osborn del 1922 (l’abbiamo citata all’inizio) (8). 

Mantenne rapporti intensi e diretti con il governo social-democratico repubblicano, che gli affidò committenze (ad esempio, le splendide vetrate per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro a Ginevra), fattegli eseguire per rappresentare l’arte moderna tedesca ( o la giovane arte tedesca, come si diceva allora) all’estero. La collaborazione con il governo socialdemocratico, non gli impedì tuttavia di restare su posizioni di sinistra estrema (ancora nel 1925 produsse un poster di solidarietà con l’Unione Sovietica; fu membro della Lega per i diritti dell’uomo ed il socialismo e dell’Unione degli amici dell’Unione Sovietica). 


Il nazismo ed il declino post-bellico 

Per tutti questi motivi Pechstein fu tra i primi (con l’ala sinistra della pittura weimariana, come Karl Hofer e alcuni pittori della 'Nuova Oggettività', fra i quali Otto Dix e George Grosz) ad essere perseguitato dai nazisti: gli fu vietato ogni viaggio all’estero, fu inserito nella lista della cosiddetta ‘arte degenerata’, venne espulso da tutte le istituzioni accademiche e fu infine vittima del divieto assoluto di esercitare la professione artistica. Si rifugiò a Leba, un villaggio sperduto della Pomerania orientale, dove rimase per anni isolato, insieme alla seconda moglie Marta e ai figli. 

A Guerra Mondiale appena terminata, si affrettò a tornare a Berlino, dove trovò tutto distrutto (casa e atelier) e dettò in quelle condizioni le sue Memorie tra il 1945 ed il 1946 ad una segretaria. Riuscì a ottenere, grazie a Karl Hofer, un insegnamento; con lui condivise la battaglia – persa - contro l’astrattismo nell’arte. Gli anni del dopoguerra non coincisero tuttavia con il ritorno al successo. Il legame al figurativo fece di Pechstein e di Hofer (che per coincidenza morirono entrambi nel 1955) i grandi incompresi dell’epoca. A differenza di altri pittori contemporanei (ad esempio, Nolde) era ancora la forma, e non il colore, a dominare la sua composizione. Le sue deformazioni non erano considerate sufficienti. I soggetti erano considerati troppo semplificati. Insomma, fu considerato da alcuni un espressionista all’acqua di rose. Questa polemica porterà nel 1953 ad uno scontro durissimo, finito in tribunale, con Pechstein che cita in giudizio la giuria dell’Associazione tedesca degli artisti (il Deutscher Künstlerbund) per non avere ammesso nessuno dei suoi dipinti alla terza esibizione nazionale ad Amburgo, perché gli veniva preferito l’espressionismo astratto. Uno dei maggiori critici d’arte dell’epoca, Will Grohmann, lo accusò di narcisismo e lo invitò a prendere la corriera per l’Italia (9). Gli ultimi anni (ci informa Stephanie Barron (10)) furono anche caratterizzati dalla rabbia per il fatto che chi aveva organizzato la repressione – e in molti casi – la distruzione dell’arte moderna sotto il nazismo (lui perse una buona metà della sua produzione, in parte per la persecuzione nazista e in parte per i bombardamenti) non fosse stato portato in giudizio a Norimberga; tanto che Pechstein si spinse fino a reclamare la creazione di tribunali tedeschi speciali a tal fine. 

Insomma, se nel 1916 Pechstein era stato definito da Walther Heymann come “il Giotto del nostro tempo”, dopo la Seconda Guerra mondiale la critica della Germania Occidentale lo trascurò: si pensi a Werner Haftmann, il maggior esperto tedesco di pittura del Novecento, che nel 1953, nella sua prima monografia sulla Pittura nel XX secolo (11) di lui scrisse: "Pechstein apprese lo stile del ‘Ponte’ come una possibilità di produrre una pittura naturalistica - grezza, colorata in modo grossolano, e decorativa - pittura che egli cercò invano di rendere espressiva con gli strumenti esteriori dell’arte esotica". Ancora nel 1986, in un’opera di 400 pagine sull’arte degenerata (con introduzione di Helmut Kohl), Haftmann dedicò a Pechstein solamente mezza pagina e non pubblicò alcuna figura a corredo del suo breve commento (12). Dall’altra parte della cortina di ferro, nella Germania Orientale, Pechstein subì la stessa sorte a partire dal 1948, questa volta per motivi ideologici: come già ricordato, gli espressionisti furono considerati pittori borghesi, fino alla loro riscoperta negli anni ottanta. 

Fig. 4) Manifesto della prima mostra di Max Pechstein all'Opera di Berlino Est, nel marzo del 1946

Solo in questi ultimi anni è in atto una rivalutazione tardiva di Pechstein. Si veda in merito http://www.pechstein.de/index.html. Recentemente - nel corso del 2014 - è stato aperto a Zwickau un museo a lui dedicato, in cui ad ogni stanza è associata una frase tratta dalle Memorie.


La (s)fortuna delle Memorie 

Per valutare meglio le Memorie nel contesto degli anni in cui furono pubblicate, abbiamo consultato tre recenti studi: quello già citato di Bernard Fulda e Aya Soya, una monografia, anch’essa già menzionata, di Christian Saehrendt e un lavoro recentissimo di Petra Lewey, per il nuovo museo di Zwickau (12). Ci è sembrato inoltre utile leggere un imponente lavoro di Horst Jähner sul ‘Ponte’ (13), pubblicato nella Repubblica Democratica Tedesca nel 1984, perché in esso abbiamo visto il primo tentativo di rivalutare l’opera di Pechstein, dopo decenni di oblio anche nella Germania comunista. Dopotutto, era quella la parte politica cui Pechstein guardava con interesse negli anni venti, all’apice del successo, anche se rimase fedele alla Repubblica di Weimar. Ed era per la Germania Est che aveva scritto le sue Memorie, poi pubblicate solo in Occidente. 

Diciamolo subito. La prima spiegazione dello scarso successo dell'opera è la più semplice. Come testo letterario e come fonte di storia dell’arte, le Memorie non sono del tutto convincenti. Non è tanto il fatto che si tratti di sole 130 pagine circa (la concisione è sempre un merito). È che vi sono almeno tre limiti evidenti. 

Primo: l’autore non sembra riflettere a fondo sulle ragioni estetiche del modo espressionista, e la lettura delle Memorie non ci dà un quadro soddisfacente dei suoi orientamenti artistici. 

Secondo: il testo è molto sbilanciato: nell’edizione del 1963, su un totale di 128 pagine, quasi 40 sono dedicate alla permanenza di Pechstein e della prima moglie nell’isola di Palau (dove li sorprende lo scoppio della guerra); se si aggiungono le dieci pagine sul loro rocambolesco ritorno in Europa, più di un terzo dell'opera è dedicato a quanto successe nell’arco di un solo anno. 

Terzo, le Memorie sono un’occasione persa per documentare e spiegare i rapporti che Pechstein ebbe con altri pittori espressionisti in Germania, ma anche con rappresentanti dell’arte francese e italiana. 


La fragilità della discussione estetica 

Non è chiaro se Pechstein sia del tutto consapevole delle radici del proprio successo, che ebbe ancora molto giovane. Ci parla soprattutto della sua abilità manuale, della sua capacità di applicare la propria ispirazione a tecniche diverse (il mosaico, l’affresco, tutti i tipi di stampe, l’acquarello) e della buona formazione accademica ricevuta. In definitiva, però, le Memorie non danno l’immagine di un artista del tutto convinto delle proprie scelte estetiche. 

Fig. 5) La copertina della seconda edizione tascabile delle memorie di Max Pechstein', pubblicate da List nel 1963
Pechstein parla – ovviamente – del “nuovo linguaggio pittorico” e delle “nuove conoscenze che io avevo guadagnato nell’uso del colore e delle superfici. E come io affiancassi i colori direttamente sullo sfondo, con contorni molto pesanti.” Siamo all’inizio dell’esperienza del ‘Ponte’, tra 1907 e 1909. 

È del 1910 la scelta esplicita di una semplificazione del linguaggio pittorico e coloristico, caratterizzato da contrapposizioni più forti e una nuova accentuazione dei contorni. 

Traspare dalle Memorie il grande amore per la natura, il sole, il mare, il nudo, la campagna, i pescatori, i bagnanti; tutti soggetti rappresentati con vivacità di colori, ma non in modo drammatico. A differenza di altri espressionisti, l’obiettivo di Pechstein non è affatto quello di psicologizzare la natura, ma di offrirne una rappresentazione pittorica solare e pienamente vitale. Pechstein è un artista visivo e decorativo, nel senso che la realtà visuale delle cose – interpretata in termini espressionisti - ne esaurisce completamente il campo diinteresse. 

Anche nelle forme figurative più impegnate (si pensi ai manifesti politici rivoluzionari, alle stampe che documentano la guerra) Pechstein non arriva mai alla drammatizzazione tipica degli altri pittori espressionisti impegnati, come Grosz e Dix. Le miserie della pace e gli orrori della guerra non sono mai mostrati nella loro estrema realtà esplicita. Pechstein usa dunque un linguaggio evocativo lirico del tutto personale. 

Tutto sommato, le Memorie non sono sufficienti a capire l’arte del nostro autore. Manca la capacità di uscire dalla dimensione di un mero racconto. 


Gli squilibri nella stesura delle Memorie 

Il diario di Pechstein solleva una serie di domande. Sappiamo da Fulda e Soika che Pechstein scrisse migliaia di lettere ad amici come Alexander Gerbig per tutta la vita. Le lettere documentano tutte le fasi importanti della sua biografia, come ad esempio quelle spedite dal fronte nel corso della Prima Guerra Mondiale, che includono schizzi di scene di guerra e vita militare: come mai, invece, le Memorie sembrano completamente eludere la Prima Guerra Mondiale? Probabile che la risposta sia da ricercarsi nel trauma dell’esperienza bellica. Pechstein combatté per almeno tre anni, e venne congedato per motivi di salute nel 1917, a guerra ancora in corso. La sua salute mentale era pessima. A questo trauma di natura storica, l’artista ne abbinò probabilmente altri, questa volta di natura professionale e personale. Il Pechstein che esce dalla guerra è un uomo distrutto; ci racconta che deve nuovamente imparare a dipingere. Ma la pittura lo salva. Scrive: “Nonostante la mia esistenza economica sia stata rovinata dall’inflazione e distrutta dal tradimento del mio commerciante d’arte [n.d.r Gurlitt], e nonostante il mio matrimonio sia finito nel divorzio, mi è sempre rimasto il mio lavoro”. 

Fig. 6) Max Pechstein, Disegni ed appunti dai mari del sud, pubblicati postumi da Buchheim Verlag, 1956
Si è già detto del peso sproporzionato riservato alla permanenza sull’isola di Palau. Ad essa Pechstein dedica uno spazio talmente ampio e dettagliato da far pensare che queste pagine fossero, in origine, destinate ad essere un testo a sé. Sia Max che la prima moglie Lotte tennero un diario del viaggio, arricchendolo con molti schizzi. Va detto che originariamente Pechstein intendeva vivere almeno due anni sull’isola (vi si trasferì con quaranta casse di materiali); sperava probabilmente di produrre una quantità consistente di dipinti e voleva pubblicare al ritorno un libro anche per riuscire a restituire una somma importante ricevuta in prestito dal commerciante d’arte Gurlitt. 

Un terzo delle Memorie si riferisce alle vicende antecedenti la Prima Guerra Mondiale. È la parte più bella. Vi si legge la storia di un gruppo di giovani che sfida tutte le convenzioni, soffre la fame, ma trova il successo. Più che una narrazione di eventi, è una narrazione di sentimenti. Si alternano i momenti di gioia e disperazione, ma il tono del racconto è fondamentalmente epico, celebrativo, ottimista. 

La terza parte, quella della Repubblica di Weimar, è la più deludente. La narrativa diviene meno incisiva e appassionata. La guerra ha lasciato un elemento indelebile: è tornato il successo, ma manca l’entusiasmo degli anni pre-bellici. Colpisce come – per il periodo 1918-1933 – l’autore scelga frequentemente di operare affermazioni di natura generale. L’attenzione per la descrizione degli stati psicologici scompare. Pechstein afferma che, a partire dal 1918, l’espressionismo è divenuto schiavo della produzione di massa, ma non spiega il perché. Racconta della propria partecipazione ai movimenti rivoluzionari socialisti, ma non cita i testi che egli stesso scrisse. Fa riferimento ai nuovi movimenti artistici della Repubblica di Weimar (ad esempio, la ‘Nuova Oggettività’) ma non spiega cosa ne pensasse. Fa riferimento alla sua attiva frequentazione di circoli letterari, ma non dice nulla sul ruolo che si svolse e sulla loro attività. Cita le molte riviste di critica artistica e i critici più importanti della Germania di Weimar, ma non scende nel particolare. Fa critiche molto dure a Gurlitt, il commerciante d’arte che lo aveva appoggiato in precedenza e gli aveva sfamato moglie e figlio durante la guerra, ma non spiega esattamente i termini del problema. 

Dunque, gli anni tra il 1919 ed il 1933 sono, in proporzione, oggetto di scarsa attenzione. Eppure, questi sono anche anni di successi: si risposa e ha un secondo figlio; il governo gli affida ordini importanti; grazie alla Fondazione Carnagie, diviene famoso negli Stati Uniti; viene nominato membro dell’Accademia Prussiana delle belle Arti; viaggia ancora in Francia, Spagna e Italia. Quando la sciagura nazista si abbatte su di lui, ha un crollo psicologico, con forme patologiche di dipendenza dal sonno. Si salva dal crollo totale rifugiandosi in un luogo sperduto, a Leba, con la famiglia, lontano da tutto e da tutti fino alla conclusione della Guerra, quando le Memorie si interrompono. Non cita le diverse infamie che subì nel momento della sua massima debolezza, come quando Nolde lo denunciò alla Gestapo come ebreo (in realtà, non lo era). Nulla si dice degli ultimi dieci anni di vita, dal 1945 fino al 1955. 


Un’occasione mancata: i rapporti con gli altri artisti

Vi sono memorie in cui gli autori raccontano le loro difficoltà a socializzare; altre invece che hanno nelle amicizie il loro nucleo fondante. Quelle di Nolde, per esempio, sono del primo tipo: tendono a sopravvalutare il senso di isolamento. Le memorie di Pechstein appartengono al secondo, soprattutto nella prima parte. Un esempio: l’autore ci narra dell’idillio della produzione artistica che egli condivise prima con Heckel e poi con Kirchner, quando passarono due estati (1910 e 1911) a dipingere in comune modelle discinte, nella meravigliosa natura attorno a Dresda, ai laghi di Moritzburg. Scrive: “Vivevamo in assoluta armonia, lavoravamo e facevamo continuamente il bagno”. Le uniche ombre sono quelle dei rapporti con l’introverso Schmidt-Rottluff. Il racconto rimane però sempre su un piano assolutamente aneddotico (in un caso sono sorpresi da un poliziotto insieme alle giovanissime modelle quasi nude; in un altro caso nuotano nudi su un’isola, portando le pitture sulla testa, ecc.). Quando però arrivano i problemi, essi vengono ignorati; i rapporti all’interno del ‘Ponte’ si deteriorano presto, e nel giro di pochi mesi Pechstein non viene confermato alla testa della ‘Nuova Secessione’ a Berlino (memorabile in quell’occasione lo scontro con Nolde: si odiavano) e viene espulso dal ‘Ponte’ a Dresda. Pechstein su tutto ciò tace, e si limita a dire che le dimensioni e la vita frenetica di Berlino avevano diviso inesorabilmente la sua vita da quelle degli amici di un tempo. Anche i rapporti con Kirchner si deteriorano: molte disgrazie successive deriveranno a Pechstein dalle sue continue maldicenze.

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Fig. 7) Il catalogo della mostra  'Max Pechstein in viaggio: utopia e realtà", tenutasi prima alla Kusthaus di Stade tra 2012 and 2013, poi alla Kunstsammlung di Zwickau nel 2013 ed infine al Kulturspeicher Würzburg sempre nel 2013.  Il catalogo è stato pubblicato da Hirmer e curato da Joachim Rees, Christoph Otterbeck, Aya Soika e Petra Lewey. Sulla copertina, un'immagine di Monterosso a mare.
È davvero un peccato che quasi nulla si racconti delle discussioni sui temi estetici, non solamente fra il pittori del ‘Ponte’ a Dresda nel 1907-1912, ma anche con le ‘Belve’ (Fauves) di Matisse a Parigi (1908), con la ‘Vecchia’ e ‘Nuova Secessione’ di Berlino (1911-1912) e con il ‘Gruppo di Novembre’, sempre a Berlino (1919). Pechstein è stato uno dei pochi punti di contatto tra espressionismo francese, olandese e tedesco, ma su questi aspetti si leggono poche righe. Sui rapporti con Marc, Macke e Kandinski a Monaco si spendono solamente 7 parole. Troppo poco perché un lettore veramente interessato non si arrabbi. 

In realtà, i veri amici di Pechstein sono fuori da questi gruppi e delle loro rivalità interne, ma sono soprattutto coloro che con lui hanno sperimentato le difficoltà della vita, come il pittore Alexander Gerbig, con cui ebbe modo di condividere i giorni della fame in Germania e quelli dell’allegria in Italia. 

Alla loro amicizia e al loro epistolario durato quarant’anni il Museo Pechstein di Zwickau dedica una mostra in questi giorni. 



Altri fattori a spiegazione della sfortuna delle Memorie 

La modestia dei contenuti delle Memorie non è probabilmente l’unico motivo da considerarsi. Eccone almeno altri tre. 

Le vicende editoriali del manoscritto. Durante la prigionia russa e sotto l’occupazione polacca di Leba, Pechstein aveva rischiato la fucilazione. Salvatosi a stento, evitare l’oblio e la perdita della memoria del passato, nella totale incertezza sul futuro, diventa una priorità. Pechstein decide in fretta e furia di preparare un testo completo di ricordi autobiografici. Il testo viene dettato ad una segretaria negli anni convulsi dopo la guerra, nel 1945-1946. È comunque, probabilmente, un testo ancora grezzo, non pronto (anche da un punto di vista linguistico) per la pubblicazione. Sappiamo da Fulda e Soika che il testo doveva originariamente essere pubblicato dall’editore Aufbau Verlag, nella zona Sovietica di Berlino (dunque da un editore socialista vicino al partito comunista). Il contratto fu firmato nel Novembre 1945. Le autorità sovietiche stavano cercando in quei mesi di attirare nella loro orbita gli artisti comunisti e di sinistra della Repubblica di Weimar e molti (ad esempio Karl Hofer) risposero. Fulda e Soika hanno analizzato la corrispondenza con l’editore Aufbau-Verlag. Ecco quel che successe, molto probabilmente. In un primo tempo fu il pittore a non onorare il termine per la consegna del manoscritto (dicembre 1945). Un primo testo fu presentato nell’ottobre 1946. Nel settembre 1947 l’editore era pronto a stampare, ma furono gli eventi (l’introduzione del marco nella Germania occidentale nel 1948) a rendere impossibile il progetto, che fu posticipato. Nell’ottobre 1949 il progetto fu del tutto cancellato dalle autorità comuniste, perché considerato inopportuno da un punto di vista politico ed estetico. 

Fu la seconda moglie a far sì che il manoscritto preparato per la diffusione nella Germania dell’Est vedesse la luce nella Germania Ovest, con la pubblicazione postuma nel 1960 a Wiesbaden, a cura di Leopold Reidemeister. 

L’isolamento critico di Pechstein: subito dopo la Guerra, Pechstein cerca di rilanciarsi come figura centrale della discussione sull’arte moderna tedesca. Insegna dal 1945 – grazie a Karl Hofer – alla Scuola Superiore di Belle Arti di Berlino. Da quella cattedra, moltiplica le prese di posizione pubbliche su questioni estetiche ponendosi, come Karl Hofer, tra gli avversari dell’astrazione figurativa, ma non ha successo. Christian Saehrendt ha condotto accurate ricerche d’archivio, da cui risulta la pubblicazione di 67 articoli a lui dedicati dalla stampa tedesca tra il 1945-1950; il numero si riduce a 57 nel decennio tra il 1951-1960 e a solo 9 tra il 1961-1970. Il 3 gennaio 1948 il nuovo settimanale Der Spiegel dedica a Pechstein un’intera pagina (15), per offrigli la possibilità di presentarsi all'opinione pubblica tedesca (offrirà pochi mesi dopo la stessa opportunità a Emil Nolde). Nel 1952 gli viene assegnata la piú alta onoreficenza civile dalla Germania Federale, il Bundesverdienstkreuz. Dal 1951 è membro onorario del Senato di Berlino e nel 1954 riceve il premio dell’arte della città. Tuttavia, questi riconoscimenti non possono nascondere il suo crescente isolamento. Se Pechstein è incluso in quasi tutte le mostre collettive sull’espressionismo, nessuna retrospettiva personale gli viene dedicata fino al 1959 (Berlino); la seconda è del 1987 (Wolfsburg). È solo a partire da allora che il pittore viene riscoperto, con mostre personali a Brema (1988), Berlino (1996), Tubinga e Kiel (1997).

Max Pechstein: The Rise and Fall of Expressionism - Fulda, Bernhard; Soika, Aya
Fig. 8) Il saggio di Bernhard Fulda e Aya Soika
su "Max Pechstein: Il successo e la caduta dell'espressionismo", publicato da De Gruyter nel 2012

Assenza di sostegno finanziario da una fondazione: in un mondo come quello di lingua tedesco, caratterizzato dalla dispersione geografica dei centri di cultura, la memoria di un artista dipende anche dal supporto che riceve dalle istituzioni locali del paese o città di provenienza. Se si pensa per esempio al successo editoriale dei diari di Klee e di Nolde, non si può fare a meno di ricordare la Fondazione Klee, che opera a Berna dal 1947, e la Fondazione Ada e Emil Nolde, attiva a Seebüll nello Schleswig-Hollstein a partire dal 1957. Sono le fondazioni locali a tenere alta la bandiera di questi pittori, producendo direttamente oppure sostenendo indirettamente studi, mostre, cataloghi, e così via. Sono loro a promuoverne sia il successo delle mostre permanenti locali sia l’internazionalizzazione, grazie al controllo dei diritti d’autore. Sono loro a possedere gli archivi e i documenti personali. Nel caso di Pechstein, questa funzione spettava alla città natale di Zwickau ed alla città adottiva di Dresda, che erano però entrambe sotto regime comunista sovietico. In una primissima fase, qualcosa in realtà si verificò: Christian Saehrendt ci spiega che nel 1947 Pechstein ricevette la cittadinanza onoraria di Zwickau e a lui fu dedicato un premio alla pittura finanziato dalla città. Annunciò addirittura l’intenzione di prendere l’effettiva residenza (non lo fece mai). L’anno dopo, nel 1948, inaugurò il Museo Moritzburg (la località vicino ad Halle dove i ragazzi del ‘Ponte’ dipingevano le modelle nude nei boschi e nei laghi, correndo il rischio d’incappare in qualche poliziotto). Come già spiegato, tutto ciò finì assai presto, e Pechstein venne dimenticato anche nella Germania comunista. 

Come spesso succede, sono i centenari ad avere avuto un effetto miracoloso sulla memoria, sia ad Occidente che ad Oriente. A partire dal 1981, vi è un progressivo risveglio d’interesse. A ciò contribuisce anche la nuova pubblicazione delle Memorie da parte dell’editore DVA di Stoccarda nel 1993. Tre anni dopo, nel 1996 si tiene la maggiore retrospettiva personale su Pechstein, a Berlino, al Museo del Ponte (Brücke-Museum). Camilla Blechen, nota in quell’occasione, in un articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung (16), che gli storici hanno provato che molta parte della sfortuna critica di Pechstein ebbe origine dalle maldicenze dei suoi ex colleghi del ‘Ponte’, con un ruolo particolarmente negativo di Kirchner. Come nei film dell’orrore, dunque, gli spettri del passato ritornano. 

Molto tempo è passato: la Germania è oggi riunita, Pechstein ha il suo museo a Zwickau e forse è giunto il momento di una prima edizione critica dedicata alle Memorie. Sicuramente non si tratta di un capolavoro, ma si leggono in una giornata e potremmo davvero renderci conto come gruppi di giovanissimi pittori incontratisi cento anni fa siano stati i veri predecessori delle rock band dei nostri giorni. 



NOTE 

(1) Per un’informazione generale sullo spartachismo, si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Lega_Spartachista

(2) Fulda, Bernhard / Soika, Aya - Max Pechstein: The Rise and Fall of Expressionism, Walter de Gruyter editore, 2012, 432 pagine. 

(3) A Monterosso, curiosamente, faceva da pendant un’ altra località marina sul Baltico, Nidden (nella Curlandia tedesca di allora, l’attuale Lituania), cosicché la sua pittura rifletteva, a seconda dove Pechstein fosse, la diversa natura e luce del Nord e del Sud. Sul ruolo che i luoghi di villeggiatura sul Mar Baltico ebbero per l’arte tedesca moderna, si veda anche la mostra http://museoascona.ch/it/mcam/esposizioni/il-mar-baltico-delle-avanguardie al Museo di Arte moderna di Ascona. 

(4) Saehrendt, Christian - "Die Brücke" zwischen Staatskunst und Verfemung, Franz Steiner editore, 2005, 124 pagine 

(5) Heymann, Walter - Max Pechstein, München, Piper, 1916, 78 pagine e 30 illustrazioni. 

(6) Biermann Georg - Max Pechstein, Leipzig, Klinkhardt e Biermann 1919.


(8) Osborn, Max - Max Pechstein, Berlin, Propyläen-Verlag, 1922 

(9) Si veda l’articolo sullo Spiegel del 15 luglio 1953, http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-25656701.html

(10) Barron, Stephanie - Degenerate Art. The Fate of the Avant-Garde in Nazi Germany, New York, Harry N. Abrams, 1991, 434 pagine. 

(11) Haftmann, Werner - Malerei im 20. Jahrhundert, Monaco di Baviera, Prestel Verlag, 1954 

(12) Haftmann, Werner – Verfemte Kunst. Malerei der inneren und äußeren Emigration, DuMont, 1984. 

(13) Lewey, Petra: Max Pechstein. Junge Kunst. Band 12, Klinkhardt & Biermann Verlag, München 2014. 

(14) Jähner,Horst: Künstlergruppe Brücke : Geschichte einer Gemeinschaft und das Lebenswerk ihrer Repräsentanten, Berlino Est, Henschelverlag, 1984. 

(15) Si veda: http://magazin.spiegel.de/EpubDelivery/spiegel/pdf/44415383

(16) Camilla Blechen, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 02.12.1996, Nr. 281, S. 37 Herold einer neuen Weltsicht. Die Tor macht weit: Max Pechsteins malerisches Werk im Berliner "Brücke"-Museum.


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