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lunedì 15 settembre 2014

Karel van Mander, [Principi e fondamenti dell'arte nobile e libera della pittura], Les Belles Lettres, 2008


English Version

Karel van Mander
Principe et fondement de l’art noble et libre de la Peinture
[Principi e fondamenti dell'arte nobile e libera della pittura]
A cura di Jan Willem Noldus

Les Belles Lettres, 2008

Recensione di Giovanni Mazzaferro


Pieter Brueghel il Vecchio, La Grande Torre di Babele, Kunsthistorisches Museum, Vienna


Chiunque conosca Karel Van Mander lo ha sentito nominare come il Vasari del Nord. Ciò che della sua opera (lo Schilder-boeck, ovvero il Libro della Pittura) ha attirato più l’attenzione degli addetti ai lavori è infatti il libro dedicato alle biografie dei pittori dei Paesi Bassi e tedeschi. Uscito nel 1604 ad Haarlem, poi ripubblicato nel 1618 in seconda edizione con l’aggiunta di una biografia dell’autore probabilmente scritta dal figlio, lo Schilder-boeck, però, è composto da sei parti, che qui sotto riassumiamo:

· Principi e fondamenti dell’arte nobile e libera della pittura;

· Vite dei pittori antichi (tratte fondamentalmente da Plinio);

· Vite dei pittori italiani (ci si attiene strettamente a Vasari, anche se sono aggiunte ulteriori informazioni successive alla stesura della seconda edizione delle Vite (1568): Van Mander, ad esempio, fornisce indicazioni anche sulla vita di Caravaggio);

· Vite dei pittori dei Paesi Bassi e tedeschi;

· Un commento alle Metamorfosi di Ovidio;

· Una sezione finale di iconologia dedicata alla rappresentazione degli dei antichi.

La sezione delle biografie nordiche, come detto, è la più frequentata. Ne esiste una magnifica edizione critica in sei volumi in lingua inglese a cura di Hessel Miedema; ma anche una recente traduzione italiana seguita da Ricardo de Mambro Santos. Molto minore l’attenzione dedicata a tutto il resto, ed in particolare alla prima parte, ovvero ai Principi e fondamenti della pittura, che pure costituiscono un momento fondamentale dell’opera di Van Mander. Pubblicati in edizione critica olandese (sempre a cura di Hessel Miedema), i Principi non sono disponibili in italiano. Ci soccorre, per fortuna, la presente traduzione in lingua francese, eseguita e commentata da Jan Willem Noldus. Solo tenendo a mente respiro e complessità dell’opera saremo in grado di coglierne le significative differenze rispetto al progetto vasariano.

Cos’è, in fin dei conti, lo Schilder-boeck? Un’opera di contenuto chiaramente didascalico, rivolta non a un pubblico di amatori o collezionisti, ma al giovane pittore in formazione e mirata a fornirgli strumenti che gli permettano di divenire un artista completo. Tutte le sei parti del lavoro di Van Mander hanno questo scopo. Nel primo libro (il cui titolo è originale è Den Grondt der Edel vrij Schilder-const) si mira a fornire al discepolo un percorso di natura sia teorica sia tecnica che lo aiuti a crescere e a maturare; le altre sezioni contengono materiali che l’artista (in quanto uomo erudito) non può non conoscere: gli esempi, dunque, dei pittori che lo hanno preceduto, fossero essi olandesi, fiamminghi o italiani, antichi o moderni, ed alcuni modelli letterari (le Metamorfosi di Ovidio o le rassegne di iconologia sul genere del Ripa) a cui ispirarsi in sede di “invenzione” dell’opera d’arte. 

E’ chiaro sin d’ora, dunque, che (pur ricorrendo in determinati punti al modello vasariano) lo Schilder-boeck viene scritto con propositi ben differenti da quelli di Vasari nelle Vite. Non si tratta di delineare un modello storico di sviluppo dell’arte dal Medio-Evo in poi con un culmine costituito da Michelangelo; non di sostenere la supremazia di una determinata regione a fini sostanzialmente cortigianeschi. Van Mander ambisce semmai a scrivere un’opera di formazione, sia tecnica sia teorica, che sia in grado di elevare lo status dell’artista dal mero livello artigianale delle corporazioni all’esercizio dell’arte “nobile” e “libera” della pittura. Sotto questo punto di vista, lo Schilder-boeck si riallaccia molto meglio al De Pictura albertiano o al Libro dell’Arte cenniniano che a Vasari. Esiste però un pregiudizio (molto italo-centrico): che i temi affrontati da Van Mander nei Paesi Bassi (ma, ad esempio, anche dai teorici spagnoli del Secolo d’Oro) siano stanche ripetizioni retoriche di luoghi comuni della letteratura artistica italiana del Cinquecento. Niente di più sbagliato. In realtà è ampiamente dimostrato che forme di organizzazione dei mestieri di impronta medievale (sostanzialmente: le corporazioni o gilde che dir si vogliano) hanno governato i mestieri (anche in Italia) quanto meno sino al boom della creazione delle Accademie nel Settecento (si veda in merito il magistrale Le Accademie d’arte di Nikolaus Pevsner (1940)). Il mondo con cui Van Mander si muove è ancora il mondo delle gilde. 

Pieter Brueghel il Vecchio, Il banchetto nuziale, Kunsthistorisches Museum, Vienna


E’ appena evidente che, nel Paesi Bassi, Van Mander costituiva una figura di artista assai insolita: un uomo, innanzi tutto, che proveniva da una famiglia della bassa nobiltà, con una formazione culturale tutt’altro che insignificante; appassionato di arte, ma soprattutto di letteratura. Di teatro e di poesia. Con un’ammirazione particolare per Pierre de Ronsard, uno dei fondatori della Pléiade. Un uomo che, da giovane, ha viaggiato in Italia e vi è rimasto tre anni. Ha conosciuto personalmente un anziano Vasari; è arrivato nella penisola quando ancora il mito di Michelangelo (morto da nemmeno dieci anni) resisteva alla politica controriformata delle immagini e si esplicava nelle ‘Maniere’ dei suoi seguaci. Ma anche una persona che ha conosciuto di persona il dramma della guerra. Originario dei Paesi Bassi del Sud (ovvero fiammingo), si vede costretto ad emigrare ad Haarlem in seguito (ma non subito dopo) lo scoppio della guerra civile; conosce la miseria, ma si sa risollevare grazie all’esercizio della professione, e crea un’Accademia (assieme agli amici e colleghi Hendrick Goltzius e Cornelis Cornelisz), chiaramente volta a rimarcare la sua distanza dalle gilde. 

Si è discusso molto sulla religione di Van Mander. Non è un dibattito ozioso, nel senso che la circostanza ha una ricaduta anche sui suoi scritti. Sicuramente non era luterano, o calvinista; molto probabilmente non era nemmeno cattolico, ma semplicemente battista: non riconosceva cioè la gerarchia ecclesiale, ma credeva nella libera e personale interpretazione dei testi sacri. Sotto questo punto di vista, l’approccio di Van Mander si rivela particolarmente ‘aperto’ per i tempi che correvano. Noldus (p. XXI) fa presente come i Principi si rivelino come un testo ampiamente interconfessionale; non vi si trovano prese di posizione in favore di questa o quella professione di fede. Quando, nella sua opera, Van Mander, di fatto, propone la figura dell’artista come intermediario fra il regno celeste e il mondo terreno (anticipando, in nuce, un tema che sarà secoli dopo dei Nabis) non fa ricorso, ad esempio, alle figure dei Santi, per non urtare la sensibilità religiosa di nessuno (nel mondo cattolico sarebbe stato normale paragonare l’artista a San Luca, il prototipo del pittore, che, secondo tradizione, avrebbe dipinto la prima immagine della Vergine col Bambino manifestatagli direttamente da Dio); ma si serve dell’immagine dell’arcobaleno come espressione dell’ispirazione divina che investe direttamente l’artista.

In realtà, il compito dell’artista è quello di “vivre bien”: “Le fait de vivre, de vivre bien constitue la base de toute éthique, en dehors de quelque règle, de quelque principe que ce soit. L’art véritable, pour chaque artiste, est un art de vivre, ce qui veut dire à la fois que l’on ne peut être vraiment artiste que si l’on sait vivre, et que d’autre part le savoir-vivre donne une sagesse universelle qui permet d’aborder tous les domaines de l’art. C’est dans ce sens qu’il faut comprendre les anecdotes que Van Mander rapporte sur les peintres: Raphaël est gentil, Apelle poli. Il ne s’agit pas seulement de porter un regard moralisateur sur eux, mais surtout de montrer qu’ils ont une vision de la vie. Le rôle de chaque artiste est de permettre aux autres de bien vivre, à la fois en étant soi-même un bon modèle, et en mettant les autres sur le bon chemin par son art. En cela le bien vivre est le principe et fondement de l’art” (p. XXI). 

Come si può arrivare a “viver bene”? Ovvero come si può diventare un buon artista? Ovviamente seguendo un lungo tirocinio presso un maestro (pp. XXIX-XXXI); un tirocinio articolato per fasi: si inizia imparando a preparare i materiali (tele e colori) e ci si esercita nel disegno; si disegna “seguendo la vita”, ovvero riproducendo la realtà, gli oggetti, le persone, gli animali che vediamo sotto ai nostri occhi. Dopo cinque o sei anni di tirocinio si passa a dipingere “seguendo i maestri”. Si tratta di una fase avanzata dello studium, in cui si analizzano le maniere di dipingere del proprio maestro, ma anche dei grandi esempi precedenti della pittura e si riproduce il loro modo di operare. Il passo ulteriore, quello finale, è il passaggio a disegnare “secondo natura”; dove per natura, si badi bene, non intendiamo il mondo che ci circonda, ma la nostra indole, il nostro stile. Dipingere secondo natura vuol dire far emergere l’ingenium accanto allo studium: “La nature n’est pas du tout le monde extérieur: c’est la nature de l’artiste, ce qu’il est inné, son ingenium. Le peintre tire de son esprit formé de nouvelle idées, de nouvelles approches; il est maître, c’est-à-dire qu’il est capable d’invention, catégorie très importante tout au long du Principe, à laquelle en ordre tout le chapitre sur l’ordonnance est consacré” (p. XXXI). Cosa permette di passare dalla seconda alla terza fase? Un aspetto a cui Van Mander attribuisce grande importanza, ovvero l’emulazione. È l’emulazione che dapprima permette di riprodurre lo stile del maestro e poi spinge a superarlo, a far emergere il proprio ingenium, e quindi a far maturare il proprio stile permettendo di essere in grado di produrre invenzione. Qui emerge un tema molto caro al manierismo italiano: “L’invention est une visualisation: d’abord intérieure – l’imagination d’une idée, d’une histoire; c’est ce quel les Italiens appellent le disegno interno, le dessin come dessein, le projet intérieur qui est une sorte de dessin porté sur un écran imaginaire intérieur. Ensuite, le peintre extériorise, concrétise cette visualisation dans une œuvre. On ne peut arriver à inventer que si l’on connaît la tradition. L’invention est nourrie de l’erudition et de l’expérience” (idem). 

Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori, National Gallery, Londra


Le cose da dire sono tante (e l’introduzione di Noldus è particolarmente interessante). Andiamo con ordine.

Dopo aver letto le righe sopra riprodotte, si comprende meglio – mi auguro – il fine ultimo dello Schilder-boeck. Van Mander è il maestro che fornisce ai giovani artisti i materiali per farli passare dalla seconda alla terza fase: da un lato gli insegnamenti teorici, dall’altro quelli pratici; propone al lettore il modello degli artisti tramite le loro biografie (tutti gli artisti sono egualmente modelli, in quanto tutti capaci d’invenzione; non esiste una “classifica” o un processo evolutivo culminante con Michelangelo come in Vasari); e, infine, fornisce materiali letterari o iconografici che saranno d’aiuto per l’invenzione. 

Abbiamo accennato ai manieristi italiani. E’ evidente che Van Mander subisce l’influenza del manierismo. Il tema del ‘disegno interno’, e quello dell’Idea sono e saranno particolarmente cari a teorici come Zuccari, Lomazzo, Bellori. Van Mander dimostra di aver vissuto in Italia a lungo, e di essere stato in grado di cogliere le sollecitazioni più recenti di quell’ambiente artistico. 

Rispetto però alle elaborazioni teoriche di derivazione italiana sul disegno interno, Van Mander mostra una propria originalità insistendo in particolar modo sull’immediata traduzione dell’Idea nell’opera d’arte. Vi è cioè, un’attenzione al processo traslativo, all’implementazione dell’Idea nell’immagine che è particolarmente cogente e che costituisce il vero nucleo dell’attività artistica. In questo contesto un’importanza del tutto particolare riveste il colore. Non è casuale se i Principi, che cominciano con indicazioni sul disegno, si concludano con un capitolo sul significato dei colori. In realtà, nel corso dell’opera, la trattazione dei colori compare almeno in tre capitoli; e questo delinea anche la struttura del libro, che procede per approfondimenti successivi di temi proposti più volte, come per dar modo al lettore di sperimentarli e metabolizzarli, per poi analizzarli nuovamente e approfondire la conoscenza. La riflessione che Van Mander opera sui colori (e quindi sul loro uso, che deve essere appropriato) è molto interessante. Molto interessante innanzi tutto perché si serve del resoconto dell’esploratore Girolamo Benzoni e della sua Historia del Mondo Nuovo, pubblicata a Venezia nel 1565. Benzoni racconta del re Inca Atahualpa, che chiede a un missionario come sia certo che Cristo, che ha dato la vita per noi, abbia creato anche il mondo. Il religioso gli risponde che è scritto nel suo breviario e glielo porge. Atahualpa lo esamina e lo getta per terra. Per lui interpretare i segni che sono disegnati sul libro (le lettere delle parole) è inconcepibile. In compenso, però, nelle case degli Inca si trovano manufatti di colori diversi che, a seconda appunto delle loro tinte, indicano diversi momenti della storia della loro civiltà, ed esistono esperti che sanno giudicare il loro significato esaminandoli a prima vista. Il colore, cioè, è il vero linguaggio universale. Ed è un linguaggio che può aver significati diversi, a seconda di dove ci si trovi: “En somme, partout dans le Monde, / chez toutes sortes de Peuples (on ne peut pas s’y tromper) / la nature des Couleurs, leurs forces et qualités s’imposent, / ainsi que leurs effets et leurs significations. / Que ces dernières puissent être très diverses, cela se manifest dans l’Orient, / chez les Javanais. Pour eux, en effet, le blanc signifie et suscite / la tristesse, tandis que le noir est un signe / de tout ce qui peut apporter le plaisir et la joie” (p. 189). Al di là dell’attenzione a mondi lontani (che è senza dubbio un frutto dell’apertura commerciale dei Paesi Bassi al mondo), resta il messaggio che i colori vengono letti, e che il loro significato cambia a seconda di chi lo fa. Da qui l’importanza di conoscerli appropriatamente per tradurre il disegno interno in immagine.

Ho volutamente lasciato per ultimo l’aspetto linguistico e letterario. I Principi sono scritti in fiammingo, ma hanno una caratteristica che li rende unici, alla data del 1604, in cui vengono pubblicati. Sono un poema in rima; per la precisione in ottave con struttura abaabbcc. La letteratura artistica italiana presenta testi in forma poetica, ma sono tutti successivi ed hanno natura barocca (la Galeria di Marino ne è forse la massima espressione). Non vi è nulla di barocco invece nello stile di Van Mander. Abbiamo già accennato al fatto che l’artista era appassionato di poesia; aveva composto tutta una serie di composizioni ispirandosi a Ronsard e al suo classicismo. La scelta di scrivere i Principi in rima non è fatta per stupire, o per affascinare il lettore. Ha anzi una sua precisa funzione pedagogica: aiuta a memorizzare il testo; un aspetto fondamentale, se si tien conto che si trattava di un’opera destinata a giovani pittori. La struttura rimata dell’opera, peraltro, è molto probabilmente uno dei motivi che ne ha disincentivato la traduzione in altre lingue. Ci si è trovati di fronte alla scelta se cercare di riprodurre la stessa metrica, mantenendo quindi la musicalità del testo, ma perdendo in fedeltà della traduzione stessa; oppure se sacrificare le rime e cercare invece di mantenersi il più possibile allineati al significato dell’originale. Noldus ha seguito, a mio avviso giustamente, questa seconda via. 

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