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lunedì 1 settembre 2014

Il Blog di Ai Weiwei (recensione di Francesco Mazzaferro)

Ai Weiwei’s Blog
Writings, Interviews, and Digital Rants, 2006-2009

A cura di Lee Ambrozy

Cambridge Massachusetts and London, The MIT Press, 2011, pp. xxviii + 307

(Recensione di Francesco Mazzaferro)

[Versione originale settembre 2014 - Nuova versione aprile 2019]


Fig.1) Il volume qui recensito, pubblicato da MIT press e curato da Lee Ambrozy. Tutte le citazioni nella recensione (in particolare le indicazioni delle pagine) sono riferite all’edizione anglo-americana.

Il volume raccoglie 112 dei 2700 articoli del blog di Ai Weiwei, inaugurato dall’artista cinese nell’ottobre 2005 e censurato dalle autorità a fine maggio 2009. 

Questo è il testo della quarta di copertina:

“Nel 2006, nonostante sapesse a malapena battere a macchina, il più famoso degli artisti cinesi iniziò il suo blog. Per più di tre anni Ai Weiwei pubblicò una sequenza continua di sarcastici commenti sulla società, di critiche alle politiche delle politiche di governo, di pensieri su arte e architettura e scritti autobiografici. Scrisse sul terremoto nel Sichuan (e pubblicò una lista degli scolari che morirono a causa della cosiddetta ‘edilizia ai sedimenti di to-fu’), riandò al passato di Andy Warhol e al mondo artistico dell’East Village [n.d.r. a New York], descrisse l’ironia dell’inchiesta per ‘frode’ cui era sottoposto dal Ministero della Sicurezza Pubblica, fece una modesta proposta per la raccolta di tasse. Poi, il 28 maggio 2009 le autorità cinesi chiusero il suo blog. Questo libro offre una collezione di scritti in rete di Ai tradotti in inglese, la più completa documentazione pubblica del blog originale cinese disponibile in qualsiasi lingua.

Il New York Times ha definito Ai “una figura di celebrità Warholiana”. È una figura dominante sulla scena artistica internazionale, un protagonista abituale di musei e biennali, ma in Cina è una presenza polivalente e controversa: artista, architetto, curatore, critico sociale, combattente per la giustizia. È stato consulente per il progetto del famoso stadio “Nido d’uccello”, ma ha fatto appello al boicottaggio delle Olimpiadi; ha ricevuto nel 2008 il premio cinese alla carriera per l’arte contemporanea, ma è anche stato picchiato dalla polizia in relazione alla sua ‘inchiesta cittadina’ sulle vittime del terremoto nel 2009. Il Blog di Ai Weiwei documenta la sua passione, il suo genio, la sua mania di grandezza, la sua giusta rabbia, e la sua visione per la Cina.” 


Il padre, il confino a Xinjiang e l’esperienza giovanile americana

Ai Weiwei nasce nel 1957. Suo padre era Ai Qing, oggi celebrato come uno dei principali poeti della “nuova lirica” cinese. Originariamente pittore, decise di divenire poeta. Era cristiano, aveva trascorso qualche anno a Parigi a cavallo tra gli anni venti e trenta del 1900, aveva una cultura ampia, conoscendo la letteratura e la filosofia francese e tedesca, con una specializzazione sulla poesia di lingua francese (Rimbaud, Verhaeren, Apollinaire) e la filosofia tedesca (Kant ed Hegel). Si era anche interessato alla poesia russa (Majakovskij ed Esenin). Al ritorno in Cina si schierò a favore del partito comunista contro i nazionalisti (e fu arrestato da questi ultimi) ed entrò nella resistenza militare ai giapponesi, conoscendo Mao Zedong ed entrando nel partito comunista. Eppure cadde in disgrazia nel 1957 e fu perseguitato durante la cosiddetta ‘Rivoluzione culturale’. Fu mandato al confino, in una delle regioni più fredde della Cina, forzato a vivere nelle condizioni più povere e condannato a pulire i bagni pubblici comunali del suo villaggio ogni giorno per anni. Ai Weiwei ricorda nel blog di aver accompagnato spesso suo padre per quelle incombenze umilianti, e che il padre se ne andava solo dopo che i bagni pubblici erano stati puliti perfettamente. 

Ai ci dice di aver imparato gli elementi fondamentali di spazio ed architettura in quegli anni. “Per dirla in modo semplice, la mia prima esperienza d’architettura fu quando avevo otto anni, e noi fummo ‘trasferiti’ a Xinjiang; come punizione, fummo costretti a vivere in un bacino di riporto sotterraneo scavato nella terra. Io penso che, in circostanze politiche come quelle, vivere sottoterra può dare un senso di sicurezza incredibile. Era una cavità scavata direttamente nel terreno, in inverno era calda, e in estate fresca. (…) Mi ricordo alcuni dettagli: in un’occasione – dal momento che non vi era alcuna luce in quel bacino di riporto, mio padre – scendendo a casa nostra – urtò la testa contro un’asta del tetto e cadde immediatamente a terra sulle ginocchia con la fronte piena di sangue. Per quel motivo, scavammo il pavimento per l’altezza di una buona pala, in pratica alzando il tetto di una ventina di centimetri. L’architettura richiede buon senso, moltissimo buon senso. Siccome eravamo una famiglia di lettori, avevamo bisogno di uno scaffale nella nostra casa, e mio padre scavò un buco. A mio avviso era la libreria migliore di tutte” (p. 53).

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Fig. 2) La traduzione italiana, pubblicata da Johan & Levi nel 2012 a cura di Stefano Chiodi

Il padre fu riabilitato nel 1979, quando fu nominato vice-presidente dell’Associazione cinese degli scrittori. Viaggiò ancora in Europa, in Francia, Italia e Germania. Visitò il nostro paese due volte lo stesso anno, e scrisse poesie su Firenze e Venezia. Ai Weiwei ha ereditato dal padre il senso della liricità della vita e della poesia, dell’indipendenza dell’arte dalla politica e della resistenza alla pressione politica. Non escluderei che il padre gli abbia anche trasmesso un interesse per arte e cultura in Europa (come testimoniato dall’intesa cooperazione che Ai Weiwei ha con artisti e architetti di diversi paesi europei). Ciò nonostante, quando decise di lasciare la Cina nel 1981, Ai ha optato a favore degli Stati Uniti, dove è rimasto fino al 1993.

Negli USA Ai Weiwei si confronta immediatamente con l’emozionante vita artistica di New York, dove s’interessa alle rappresentazioni artistiche basate sulla manipolazione di oggetti e tecniche. Ai è particolarmente colpito da Marcel Duchamp e Andy Warhol, dal movimento dada e dall’arte commerciale. Al senso di resistenza ereditato dal padre Ai unisce quello della pura provocazione, tipico di quei movimenti. Il senso poetico di liricità diviene capacità di suscitare emozioni differenti ed eccitazione nel pubblico. Se non riesce a terminare i suoi studi alla Parsons School of Design, Ai riesce comunque a divenire parte integrante della scena artistica newyorkese (anche se dice di essere coinvolto “nella” scena artistica, ma non di essere parte “di” quella scena – si veda p. XIX dell’introduzione). Ritorna in Cina quando diviene chiaro che il padre ha seri problemi di salute. Negli Stati Uniti ha imparato a provocare e comunicare e dal padre ha ereditato la capacità di resistere a qualsiasi conseguenza. 

Riflettendo su quell’esperienza, Ai Weiwei scrive: “Non ho mai avuto un’educazione vera e propria, ed essendo stato escluso dalla parte dominante della società, sono abbastanza sospettoso dei valori sociali. Quando rifletto sui problemi, io porto il mio punto di vista, una prospettiva che è del tutto al di fuori del sistema. Nei circa dodici anni in cui mi sono trastullato negli Stati Uniti non sono mai stato capace di integrarmi completamente nel loro contesto. Tornato a Pechino, sono ancora un estraneo. Non credo che essere ‘indipendente’ sia una scelta cattiva; significa che uno si tratta bene e che non vi è nulla che possa costringerti ad abbandonare il tuo punto di vista o il tuo buon senso fondamentale” (p. 81).

La figura di Ai come dissidente è ben nota. Ai è conosciuto per le sue performance artistiche piene di provocazioni, il suo impegno come difensore dei diritti umani e la sua critica severa del sistema politico e sociale cinese. E’ stato arrestato nell’agosto 2009, nell’agosto 2010, nel novembre 2010 e nell’aprile 2011. Nell’aprile 2011 è stato in prigione per 81 giorni. Nel giugno e settembre 2012 è stato condannato a pesantissime sanzioni per presunta evasione fiscale, ampiamente ritenute come un tentativo di impedire la continuazione delle sue attività artistiche. 


Il blog

“All’inizio il blog creò in lui interesse come opportunità per esplorare il suo talento letterario, di cui aveva curiosità a motivo della carriera del padre come poeta” (p. XXI). Tuttavia, leggere il blog non è una semplice curiosità, dal momento che Ai Weiwei ci dice: “Passavo il novanta per cento della mia energia a bloggare” (p. XVII). Dopo che il blog era stato censurato, iniziò a usare il microblogging su Twitter (che ha un limite di 140 caratteri ma – come notato dal curatore - permette di coprire molti più concetti grazie agli ideogrammi: i famosi pensieri di Mao raramente si estendevano di là di 140 caratteri). L’introduzione del volume rileva inoltre come “l’impatto di Internet sulla pratica artistica di Ai Weiwei sia indelebile” (p. XXIV), come ho avuto modo io stesso di notare nella recente mostra Berlinese “Evidence”, dove tutti i nomi e i messaggi di coloro che hanno risposto al suo appello in Rete, fornendogli un finanziamento – dopo essere stato messo sotto inchiesta penale e condannato per evasione fiscale – sono mostrati come carta da parati sui muri di diverse sale della Martin Gropius House.

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Fig. 3) L'e-book italiano, pubblicato da Doppiozero nel 2012 a cura di Stefano Chiodi

Il blog, naturalmente, è un’occasione per spaziare da argomenti di carattere artistico all’impegno civile e sociale. Sul tema della libertà, i diritti umani e la giustizia (un aspetto centrale, dal momento che Ai considera l’arte come sempre politica per definizione) consiglio di leggere il post “La strada più lunga” (The longest Road) alle pagine 25 e 26, che mi ha ricordato il famoso scritto di Immanuel Kant del 1784 “Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo” http://btfp.sp.unipi.it/classici/illu.html#id2530329. Non so se Ai Weiwei abbia mai letto Kant (suo padre Ai Qing lo lesse di certo), ma – come si dice in un proverbio in lingua inglese – great minds think alike (le grandi menti si incontrano). Su Andy Warhol, consiglierei di leggere il post a lui dedicato (pagine 127-130).


Le coordinate di uno spirito libero

Leggendo il blog, è evidente che ci sono almeno cinque punti che caratterizzano il modo di vivere e concepire l’arte di Ai. Vediamoli.

In primo luogo, il modo in cui organizza la sua vita di artista. “La mia vita è caratterizzata dal fatto di non avere alcun piano, alcuna direzione, e alcun obiettivo. Molti si chiedono: come può andarti bene? Ma in verità, questo è molto importante: mi posso lanciare nelle cose che mi piacciono, e non posso mai essere preso in trappola, perché non ci sono ostacoli (p. 51).

In secondo luogo, il concetto di arte, che è vista come un gioco dove l’artista deve conservare aperte tutte le opzioni disponibili. “Gli artisti non sono estetisti. Non sono obbligati a fornire un servizio a nessuno, non devono creare uno scenario piacevole. L’arte è una sorta di gioco – o giochi o passi. Dipende da te. Il rapporto tra arte e gente è un rapporto normale in cui nessuno dei due lati serve l’altro, e l’unica differenza tra arte pubblica e arte ordinaria consiste nel fatto che l’arte pubblica si trova in uno spazio non-privato. (…) L’arte non serve il pubblico. Potrebbe essere diretta al pubblico, ma potrebbe anche completamente ignorare l’esistenza di un pubblico. Qui, l’arte ha fatto semplicemente un uso efficace di uno spazio pubblico. Non ha l’obbligo di abbellire o adornare (p. 8). Quello che può sembrare semplicemente un tributo all’“arte per l’arte” è anche – come dice il curatore - una forte reazione alla nozione di Lenin secondo cui ‘l’arte dovrebbe servire il pubblico’ (p. 256 nota 3). 

Terzo: l’uso combinato di concetti come ‘buon senso’ ed ‘esperienza’, tutti estranei al mondo accademico. “La cosa che manca più spesso nella progettazione è in realtà il ‘buon senso’, inclusi concetti generali come buono/cattivo e giusto/sbagliato, fino a piccoli dettagli come i materiali, l’artigianato o la capacità di determinare il valore del proprio progetto. Le condizioni per avere tale buon senso sono molti anni d’esperienza – ingegneria, estetica ed esperienza sociale” (p. 50).

Quarto: la necessità di semplificare. “Dal momento che io sono una persona abbastanza semplice, le attività che svolgo non richiedono che faccia uso del mio intelletto, e sono molto fortunato che – parlando in generale – nulla che richieda un uso intenso del mio intelletto sia sulla mia strada. I problemi dell’architettura e del design degli interni sono abbastanza semplici, giacché si può far affidamento all’intuizione e all’artigianato più semplice per completare il lavoro” (p. 49).

Quinto ed ultimo: la libertà di usare diversi stili, con – al centro dell’attenzione – la capacità dell’artista di superare, ridurre o utilizzare per gioco i limiti delle tecniche e dei materiali. “Solo raramente cerco di far uso di uno stile particolare, anche se in certe occasioni le circostanze possono esercitare un forte influsso su di me. Le cose che tu crei – inclusi i loro limiti – sono tutte racchiuse nel tuo stato esistenziale. Io cerco di eliminare questi limiti attraverso varie alterazioni, o di renderli più ovvi: ciò è del tutto possibile, ed è un’altra forma di espressione. Io non ho uno stile chiaro, e non mi limiterei mai a quelli di maggior successo. La vita stessa è più esuberante, più espressiva di qualsiasi stile si possa immaginare.” (p. 21) 

“I miei progetti hanno una caratteristica speciale: hanno libertà e possibilità d’azione. Io credo questa sia la libertà. Non mi piace imporre la mia volontà su altre persone; i modi attraverso i quali io consento a spazio e forma di tornare ai propri stati fondamentale permettono il massimo grado di libertà. Ciò è dovuto al fatto che la natura fondamentale non può essere cancellata e – di là di essa – non credo nient’altro debba essere aggiunto.” (p.49)


Sull’architettura in Cina

Le questioni artistiche che Ai Weiwei discute nel blog vanno molto al di là della progettazione architettonica. L’approccio è duplice. Da un lato, di natura ontologica: “I problemi della costruzione sono infatti di natura filosofica (p. 7) e “l’architettura è sempre stata – e sempre sarà - una delle attività fondamentali dell’umanità (…): l’azione con cui si partecipa ad una trasformazione” (pp. 10-11); “una buona architettura ha necessariamente implicazioni spirituali, a causa del modo in cui noi vediamo il mondo e delle conclusioni cui arriviamo, per determinare chi siamo” (p. 12). “Discutere quel che noi chiamiamo la città è in realtà discutere lo spirito dell’umanità, lo spirito di una collettività, e le sue fantasie e confusione” (p.78). D’altro lato (e su questo concentreremo la nostra attenzione), vi è una chiara comprensione degli sviluppi attuali e delle loro implicazioni di lunga durata. “In ogni sfera della sua influenza, questa nazione [n.d.r. la Cina] – la cui produzione edilizia ha recentemente superato la somma totale della propria produzione edilizia nel corso di migliaia di anni di storia della cultura – mostra tutto il fascino di una bestia affamata. La Cina sta consumando metà del cemento mondiale e un terzo dell’acciaio mondiale” (p. 3).

La tesi principale di Ai è che “la pratica architettonica cinese, a parte il fatto di riuscire appena a risolvere le necessità fondamentali per dare alloggio al suo popolo, non ha alcuna sostanza spirituale o eredità culturale” (p. 4). In altri termini, una generazione sta costruendo così come non è mai stato il caso, e tuttavia senza alcuna capacità autonoma di creazione artistica, ovvero facendo riferimento “alla cultura d’avanguardia e alle risorse tecnologiche mature ottenute dall’estero” (idem). Non può del resto essere altrimenti, dal momento che “tutte le città nella C-Nazione [n.d.r. la Cina] mantengono una memoria esatta delle cicatrici lasciate dall’autoritarismo (…) I loro creatori e i loro proprietari sono vittime della loro propria idiozia ed atteggiamento di base, e come risultato della loro coscienza inesistente e della mancanza di una decenza comune, le città ne risultano umiliate.” (p.28)

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Fig. 4) La versione tedesca, comparsa con il titolo "Non fatevi illusioni su di me. Il blog proibito" per i tipi di Galiani e curata da Worlfram Ströle, Norbert Juaraschitz, Stephan Gebauer, Oliver Grasmück e Hans Freundl.

Peggio ancora, le nuove costruzioni vengono realizzate demolendo in massa quel che sopravvive delle vecchie città, e dunque alterando la sostanza della storia della Cina. Le autorità si difendono, affermando che quel che è distrutto non è sufficientemente bello da meritare di essere preservato, e magnificano i vantaggi dell’architettura moderna anche in termini estetici, ma Ai dissente radicalmente: “Per molti anni, la priorità dello stato nella C-Nazione [n.d.r la Cina] è stata la demolizione (p. 31). Vi sono molti fraintendimenti a Pechino: per esempio (…) proteggere l’architettura antica non è semplicemente migliorare il paesaggio urbano, e non è dare alla città un vantaggio competitivo; è perché le persone hanno bisogno di ricordare. Quando ci confrontiamo con una città antica e un’architettura antica, non possiamo semplicemente discutere del valore del bene culturale, rifiutando di affrontare temi autenticamente culturali. L’abitabilità della città non è una questione di apparenza fisica: se la città è irrazionale, disumana, priva di qualsiasi empatia, e non può trattare gli altri con benevolenza, qual è il merito di una bell’aspetto? Una città è per i suoi abitanti, una popolazione differenziata e poliedrica con emozioni piccole e contrastanti, e che dovrebbe avere di diritto la possibilità di godere l’uso della città, di di comunicare e di porre domande“ (p. 32).

Preservare l’architettura antica è di valore primordiale per Ai, in un paese che al contrario persegue l’obiettivo di un massiccio rinnovamento urbano: ”Si è sollevato un gran dibattito sul tema della preservazione dell’architettura antica. Da un lato questa è la reazione a sviluppi inesorabili e dall’altro è il bisogno di creare un’identità urbana che ogni città competitiva deve poter mostrare, almeno per attrarre crescita economica.” (p.55) 

Per un lettore italiano le ovvie similarità con gli scritti di Adriano Olivetti e il suo Movimento di Comunità sono davvero sorprendenti. Vedi http://www.fondazioneadrianolivetti.it/index.php

Ai Weiwei ha parole di estrema severità sugli architetti cinesi (di cui dice che mancano sia in fantasia e fiducia), su Pechino come città inospitale, e sulla convinzione diffusa (ma per lui completamente erronea) che “la Cina sia divenuta un terreno sperimentale per architetti stranieri” (p. 54). Vi sono solamente due eccezioni. Primo, la torre della televisione CCTV, progettata dagli architetti olandesi Rem Koolhaas e Ole Scheeren; e, secondo, lo stadio olimpico “Nido d’uccello” degli svizzeri Herzog & de Meuron. Entrambi a Pechino.

Sul primo edificio, Ai scrive: “La nuova torre della televisione (CCTV) riempie la città di un senso di fantasia e insicurezza. L’insicurezza è una caratteristica delle città moderne; la campagna non conosce questo senso d’insicurezza che è unico dei centri urbani. Le città dovrebbero essere aree che generino questo senso d’instabilità. ‘Instabilità’, ‘mancanza d’armonia’ e ‘senso di pericolo’ sono tutte espressioni positive. La mia interpretazione di una ‘società armoniosa’ è quella in cui tutti gli elementi ‘disarmonici’ possono esistere simultaneamente, permettendo a tutte le contraddizioni e diversità di mostrarsi. Una società omogenea non può essere armoniosa” (p. 80). Il curatore ci avvisa che il concetto di ‘costruire un’armoniosa società socialista’ era una delle direttrici politiche principali definite dal Presidente Hu Jintao nel 2004.

Come già detto, Ai Weiwei ha operato come consulente artistico per il “Nido d’uccello”: “Quando decisi di aderire, il lavoro preparatorio era già terminato ed era arrivato il momento di prendere una decisione. Io chiesi semplicemente: di che cosa avete bisogno da me? Mi dissero che avevano bisogno della mia opinione. In seguito alla mia partecipazione, i risultati delle loro discussioni precedenti sono stati modificati in modo drastico, inclusi il concetto base, la forma, la costruzione, le questioni della struttura e la funzione dello stadio, la forma esteriore e le caratteristiche culturali. Abbiamo interagito su molti aspetti, e giacché pensammo che le probabilità di essere scelti fossero piuttosto basse, abbiamo coraggiosamente integrato metodi innovativi. Alla fine, il progetto ha avuto successo. Prima di tornare a casa, mi hanno detto che speravano all’origine di fare un passo avanti, ma alla fine erano riusciti a farne due” (p. 55).



Architettura e urbanistica

Architettura ed urbanistica sono strettamente correlati: “L’architettura non è solamente un problema di architettura; è anche un tema sociale, e l’asserzione dell’identità di un’epoca. La forma dell’architettura di una città è in relazione importante con il suo status culturale” (p. 52). Le città sono rese ricche – dice Ai Weiwei – più dalla diversità dei bisogni che soddisfano che da ogni tentativo di organizzarle in una pianificazione rigida. “Io non credo che città ideali o architetture ideali esistano” (p. 53). Il suo ideale può essere descritto come quello di una città naturale: “Gruppi differenti nella città formano una relazione naturale con i loro dintorni, creando un’ecologia competitiva, e non ci sono rapporti prescritti. È inevitabile che le città abbiano distretti ad alta densità, aree con congestione di traffico oppure scarsa popolazione, o numerosi centri. (…) La società ideale nel futuro dovrebbe assicurare i diritti e le caratteristiche individuali di tutte le persone, e permettere loro di svilupparsi. Solamente in una tal epoca possono emergere città pluralistiche e prosperose (…)” (pp. 79-80). “Quando le città prendono forma, diventano la sede di ogni tipo di gente: il povero, il ricco, chi fa fatica, la classe agiata – sono tutti là e compongono una società davvero normale” (p. 84). Ai aggiunge: eguale rispetto per tutti, ma nessun obbligo di formare una società di eguali. 

La categoria principale in base alla quale un architetto deve prendere le sue decisioni è la comprensione dello spazio. “Il fattore più importante in architettura è lo spazio. La relazione tra spazio e soggetto, la relazione tra spazio e altro spazio, l’inizio, la continuazione, trasformazione e scomparsa dello spazio … (…) La nostra comprensione e descrizione di un dato spazio origina dalla nostra comprensione delle cose che si verificheranno un giorno in quello spazio. Ciò include capire le ragioni per le quali gli eventi capitano e le reazioni che essi provocano. Comprendere lo spazio vuol dire essere persone” (p. 5). “Lo spazio è affascinante, perché mentre si può materializzare, ha simultaneamente implicazioni psicologiche. Molte persone pensano che uno spazio elevato e ampio sia ideale, ma non è sempre il meglio. Spazi piccoli hanno il loro ambiente piccolo, spazi bassi il loro ambiente basso, spazi stretti il loro ambiente stretto – ogni spazio ha le proprie caratteristiche, e ogni spazio il proprio potenziale” (pp. 50-51).

Mentre lo spazio è un elemento cruciale, stile e forma lo sono molto meno. “L’architettura si realizza in tutte le forme, ma non è mai forma per il semplice fine della forma. (…) Io pongo dei requisiti stringenti sui fondamentali dello spazio e le sue dimensioni; ho pochi requisiti stringenti sull’arte. Non aspiro a essere attorniato dalla precisione, e la mia esperienza di vita ha poco a che fare con la precisione, ma aspiro alla razionalità e alla ragione in arte” (p. 85).

“L’architettura al servizio della casa è un luogo fisico che deve essere riempito del carattere individuale di ciascuno. Differentemente da ogni significato raffazzonato di ‘casa’, è un’entità indipendente ed inclusiva, che merita di essere rispettata. Racchiude la libera volontà di tutti coloro che vi vivono e può rappresentare il moderno perseguimento del comfort e di una mente indipendente. L’interno e l’esterno di una casa sono legati tra loro da una relazione che li lega come un’entità unica. In qualsiasi struttura di questo tipo, esiste rispetto reciproco e comunicazione tra la casa e il suo ambiente, la strada, il vicinato, e ognuno che là viva. La logica della sua costruzione è intrinsecamente organica e ogni cosa deriva da un’origine comune. Acquista un vero potere attraverso questo fatto, consentendo di rifiutare l’imitazione di un singolo stile architettonico, o di una singola forma culturale” (pp. 61-62).


Fig 5). L'edizione brasiliana del blog di Ai Wei Wei, pubblicata da Martin Fontes (Sao Paulo) nel 2013 e tradotta da Cristina Cupertino

Questa definizione di architettura ideale – che in realtà apre il post ‘Architettura ordinaria’ – potrebbe essere un’eccellente descrizione del progetto Ordos 100 per il quale Ai Weiwei e la sua impresa FAKE design hanno pianificato, insieme agli svizzeri Herzog & de Meuron, la costruzione di un’intera città su un deserto di sabbia nella regione cinese della Mongolia Interna, a partire da un nucleo di 100 edifici differenti, ognuno dei quali disegnato da un differente architetto (tutti i piani sono descritti in http://www.archdaily.com/22039/ad-round-up-ordos-100-part-i/). 

Il piano è – a tutt’oggi – completamente fallito. Solo uno dei 100 progetti è stato completato, e ciò ha attirato critiche severe anche fuori dalla Cina (si veda: Austin Williams: Vuote promesse: la città fantasma costruita da Ai Weiwei, in The Architectural Review, Settembre 2013 http://www.architectural-review.com/comment-and-opinion/hollow-promises-the-ghost-town-ai-weiwei-built/8652315.article). Non vi è menzione esplicita di Ordos 100 in nessuno dei testi pubblicati da MIT Press, mentre il progetto è brevemente descritto nell’introduzione dal curatore Lee Ambrozy (p. XXI).


Architettura e installazioni

I confini tra architettura ed arti visuali sono davvero permeabili. Ai Weiwei usa elementi architettonici per creare istallazioni, come parti “di un unico dialogo sulle condizioni attuali di Pechino” (p. 41). È il caso di “Frammenti di un tempio” del 2005. “Il legno che ho impiegato per la mia istallazione consiste in frammenti di pilastri e travi da templi originariamente collocati nel sud della Cina, e antichi di centinaia di anni” (idem). “Questi templi in origine erano costruiti secondo rigidi standard morali ed estetici. Ora però gli stessi materiali sono ridisposti in una maniera casuale e temporanea, in una struttura irrazionale e illogica. Sembra che siano contraddistinti da una grossa ferita aperta; come se tu non potessi sapere se sono vivi oppure no” (p. 43) “Ognuno sa che ogni elemento architettonico in un tempio ha un ordine preciso. I frammenti non hanno una relazione funzionale tra loro; la struttura intera non serve ad alcuno scopo” (p. 44). 

In modo simile, Ai ha presentato a Documenta 12 nel 2007 a Kassel una scultura intitolata ‘Template’, fatta di porte e finestre centenarie di case demolite in Cina. 

Nello stesso anno, ha prodotto “Il deposito monumentale del rigattiere” (Monumental Junkyard), un’istallazione in marmo che rappresenta “un deposito di materiale da costruzione che si vede dappertutto nelle periferie delle megalopoli cinesi” (vedi http://www.e-flux.com/announcements/presents-ai-weiwei-monumental-junkyard/). L’istallazione non è menzionata nel volume, ma è stata esposta nel 2014 a Berlino alla mostra “Evidence”.


Architetto fino al 2016, poeta per sempre?

Nell’articolo intitolato “Qui ed ora”, Ai Weiwei annuncia l’intenzione di interrompere l’attività di architetto il 10 maggio 2016. “Quando avrò finito di lavorare sui progetti di architettura ai quali mi sono già impegnato, non accetterò progetti aggiuntivi. Non mi piace il processo di costruzione nella sua interezza, e potrei fare qualcosa d’altro (…). Questo tipo di successo m’imbarazza; in fin dei conti, è solamente l’‘inferiorità’ generale che colpisce l’intera professione a coronarmi di successo – che cosa sto facendo in questo campo?” (p. 52) “Costruire un po’ di altri edifici scadenti non serve a molto. In origine, avevo sperato di essere ispirato, ma in pratica è sempre molto faticoso. L’architettura non è uno show per una sola persona, coinvolge l’intera società, tocca vari interessi differenti, e porta a frustrazioni infinite” (p. 54). 

Non sappiamo se manterrà la parola o, se ancora una volta, siamo di fronte ad una delle sue provocazioni. Di una cosa siamo certi. Se suo padre era un pittore che è divenuto poeta, le cinque, Ai Weiwei appare essere un creatore artistico con grandi doti di poesia. Una poesia basata non sui versi, ma sulla combinazione tra vissuto artistico e testi in rete. Una poesia in grado di parlare a ogni persona in ogni parte di questo pianeta. Per sempre.

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