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venerdì 12 settembre 2014

Giovanni Mazzaferro, Vasari e la 'Questione omerica': opposte interpretazioni delle Vite alla luce della biografia di Leonardo da Vinci


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Giovanni Mazzaferro

Vasari e la ‘Questione omerica’: 
opposte interpretazioni delle Vite 
alla luce della biografia di Leonardo da Vinci


Fig. 1) Frontespizio delle Vite nell'edizione Giuntina (1568)
Chiunque abbia svolto studi classici ben si ricorda della cosiddetta ‘Questione omerica’, ovvero del secolare dibattito sulla reale esistenza di Omero e sul fatto che fosse veramente l’autore di Iliade e Odissea, oppure che almeno uno dei due poemi fosse un’opera collettiva andata sedimentandosi negli anni per merito di vari artisti.

Va pur detto che nel caso di Vasari e delle sue Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri le cose vanno senza dubbio meglio: tutti sappiamo che Giorgio Vasari (1511-1574) è realmente esistito. Su tutto il resto, gli studiosi non sono affatto d’accordo. 

Scherzi a parte, noi siamo abituati a considerare le Vite come opera del Vasari [1]. Naturalmente si sa che, in questa impresa monumentale, Vasari si fece aiutare, sia per il reperimento delle notizie sia per il controllo e la limatura del testo. E si sa anche chi furono i suoi collaboratori. I nomi sono quelli di Pierfrancesco Giambullari, Cosimo Bartoli, Carlo Lenzoni, Vincenzio Borghini, Paolo Giovio. Tuttavia, l’intervento dei collaboratori non è mai giudicato così invasivo da mettere in discussione la sostanziale paternità di Giorgio Vasari in relazione a tutta l’opera.

Se questo è il giudizio prevalente, esiste però (specie in ambito anglosassone) una corrente di pensiero radicalmente diversa: secondo chi la sostiene, Vasari non è l’autore che di un 40% circa dell’opera (a star larghi); tutto il resto sarebbe stato scritto da amici e collaboratori esterni. Le Vite, insomma, sarebbero un’opera collettanea (o ‘multipla’) in cui, per scelta, emerge come autore il solo scrittore aretino.

Non è il caso di sottovalutare questa corrente di pensiero, per quanto “eretica” possa essa apparire. Ne è il principale fautore Charles Hope. Il nome, magari, può dir poco ai profani, ma si tratta di uno storico dell’arte famosissimo, direttore del Warburg Institute dal 2001 al 2010 ed autore di numerosissime monografie di successo. Hope è, insomma, un nome di peso nel mondo dell'arte.

Per pura coincidenza, mi è capitato di leggere in questi giorni due saggi dedicati alla biografia vasariana di Leonardo da Vinci. Collocati l’uno da una parte, e il secondo dall’altra, testimoniano innanzi tutto come, a partire da uno stesso testo, quello della vita torrentiniana di Leonardo, si possa giungere a conclusioni diametralmente opposte. O, più in generale, che non esistono testi “neutri”, men che meno nella storia dell’arte. L’interpretazione di ogni singola parola è il risultato dell’approccio con cui ci si avvicina. Questo articolo mira a mettere a confronto i due testi; il primo, appunto, di Charles Hope e il secondo di Roberta Battaglia.


Charles Hope, The Biography of Leonardo in Vasari’s Vite [2]

La tesi di Hope è molto semplice. Non è materialmente possibile che Vasari sia l’unico autore delle Vite. Partiamo dai dati di fatto. Nella propria autobiografia (presente solo nell’edizione giuntina del 1568) Vasari scrive che l’idea di scrivere le Vite maturò nel corso di una serata conviviale tenutasi a Roma, in Palazzo Farnese. A spronarlo all’impresa furono le parole di vari letterati presenti quella sera, ed in particolare fu Paolo Giovio, che, nella sostanza, gli propose di replicare il modello da lui già applicato negli Elogia con i letterati: scrivere cioè dei medaglioni biografici dedicati agli artisti più famosi (e purché già deceduti al momento della pubblicazione) [3]. Siamo (più o meno) nell’autunno del 1546. Poco più di un anno dopo le Vite sono praticamente finite e Vasari può partire per impegni artistici per Rimini. In un anno o poco più Vasari avrebbe dovuto scrivere un’opera di 300.000 parole, attendendo contemporaneamente ad almeno sei commissioni di quadri, anche di dimensioni molto grandi. Impossibile. Se i tempi sono questi è appena evidente che Vasari deve aver chiesto ad amici o comunque persone fidate di collaborare all’opera, “appaltando” di fatto a terzi buona parte delle biografie. La prova di tutto ciò sta nell’opera stessa: “Se si legge il libro tutto di fila da cima a fondo, cosa che poche persone hanno occasione di fare, diventa chiaro che non può essere stato scritto da un solo uomo. Non solo le singole vite sono scritte in stili differenti, con costruzioni sintattiche, modi di scrivere i nomi e vocabolari diversi, ma in molti casi sembrano scritte da autori che nutrano diverse priorità e culture differenti. In alcune vite, ad esempio, sono indicate date riferite ad avvenimenti storici e, occasionalmente, anche a specifiche opere d’arte, ma nella maggior parte di esse non c’è nulla di tutto ciò. In alcune biografie, come quella di Domenico Ghirlandaio, le opere d’arte sono descritte per esteso, con l’indicazione dettagliata di ogni soggetto. Al contrario, chiunque abbia scritto la vita di Giotto non si è preoccupato di visitare Santa Croce, per andare a vedere cosa effettivamente vi avesse dipinto” (pp. 13-14) [4]. E ancora: “L’idea che l’opera abbia un solo autore rende difficile spiegare (…) perché, ad esempio, la Galatea di Raffaello sia menzionata nelle vite di Baldassarre Peruzzi e di Sebastiano del Piombo e non in quella dello stesso Raffaello, o di render conto del fatto che la famosa competizione fra Raffaello e Sebastiano del Piombo, relativa alla Trasfigurazione ed alla Resurrezione di Lazzaro, sia menzionata solo nella vita di Sebastiano. E’ pure sorprendente che il nome di Michelangelo sia scritto nell’opera in sette maniere diverse, il cognome Buonarroti in sei, ma che all’interno di ogni biografia (…) in cui è menzionato lo spelling sia quasi sempre lo stesso” (p. 14). 

Fig. 2) Leonardo da Vinci, Adorazione dei Magi, Galleria degli Uffizi, Firenze


Naturalmente ci sono parti delle Vite che sono direttamente riconducibili all’autografia di Vasari. Si tratta della lunga descrizione degli affreschi riminesi attributi erroneamente a Giotto o della biografia del nonno di Giorgio, Lazzaro Vasari. Disgraziatamente, proprio questi brani lasciano trasparire la mancanza di grandi capacità letterarie da parte dell’autore e il loro stile, sostanzialmente sciatto, trova riscontro in quello con cui sono redatte le biografie più corte dell’opera. Vasari, insomma, non sembra avere qualità letterarie di vaglia [5].

Le cose, insomma, secondo Hope, sarebbero andate così: a giudicare dallo stile, Vasari avrebbe demandato a terzi la redazione dei quindici medaglioni biografici più estesi e di una trentina di altre vite; le restanti 86 (più brevi) le avrebbe scritte lui. Complessivamente, dunque, si deve ritenere che solo il 40% delle Vite sia stato scritto da Vasari; il restante dai Borghini, Giambullari, Bartoli e così via che si sono citati all’inizio,


Le fonti vasariane secondo le tesi di Hope

Da non tralasciare il problema delle fonti. Secondo Hope Vasari aveva già scritto delle note sul patrimonio artistico delle città che aveva visitato. Queste note, tuttavia, avevano fondamentalmente uno scopo privato; servivano come promemoria. All’epoca, peraltro, le uniche guide disponibili sul mercato erano i memoriali di Francesco Albertini su Roma e Firenze [6]. Normale che un viaggiatore interessato all’arte scrivesse una lista di opere a mero scopo memorativo, spesso non soffermandosi sul soggetto o sulle collocazioni precise. Da questi appunti disordinati Vasari avrebbe attinto per la redazione delle Vite; si sarebbe poi avvalso di alcuni manoscritti esistenti all’epoca, che sostanzialmente replicavano lo stesso modello di liste di opere; il Libro di Antonio Billi, ad esempio [7]. Hope non ritiene invece che Vasari abbia preso dal cosiddetto Anonimo Magliabechiano, manoscritto che deriva ed amplia Il Libro di Antonio Billi [8]. L’Anonimo contiene materiale non citato da Billi; parte di questo materiale è presente nelle Vite e parte no. Qual è la soluzione del problema? Si rispolvera una tesi dei primi del Novecento, ovvero che in realtà sia esistito un terzo manoscritto, oggi andato perduto (il Manoscritto K) che rispecchiasse uno stato intermedio e che fosse la vera fonte vasariana. Questo testo, diciamolo subito, assume un po’ le caratteristiche del Bosone di Higgs; tutto ciò che non si riesce a spiegare bene è dato per contenuto nel Manoscritto K, ovviamente in maniera del tutto presuntiva. Queste sarebbero le fonti a disposizioni di Vasari e degli altri autori delle Vite; poi ci sarebbe tutta la parte relativa all’anedottica, che permea di sé l’opera e che ha goduto sino ad oggi di indiscussa fortuna. Qui Hope è ancora più deciso: si tratta semplicemente di pura invenzione.


La biografia torrentiniana di Leonardo secondo Charles Hope

“La vita di Leonardo è una delle scritte meglio e dai caratteri più letterari in tutta l’opera: un ritratto memorabile di un uomo importante che si regge saldamente sull’uso brillante di aneddoti, che occupano circa metà del testo. L’altra metà consiste fondamentalmente di materiali relativi ad opere e alla biografia quasi interamente tratti, anche se non sempre con grande cura, dalle fonti scritte di Vasari” (p. 16). La considerazione sul valore letterario del medaglione biografico implica direttamente che non è opera di Vasari, ma di un letterato. A conferma ci sarebbe il fatto che, parlando di un disegno con Nettuno e i mostri marini, venga citato immediatamente un epigramma latino. Un letterato, dunque; sicuramente non troppo esperto della vita di Leonardo e nemmeno troppo attento alle fonti (il Libro di Antonio Billi e il Manoscritto K) se è vero, ad esempio, che l’artista viene citato come nipote e non figlio di Piero da Vinci [9]. Probabilmente nemmeno fiorentino, se è vero che non viene citato il cartone dell’Adorazione dei Magi, oggi agli Uffizi e nulla si dice della sua attività di disegnatore. 

Complessivamente, una biografia non troppo informata, con alcuni errori pacchiani. Hope si interroga sulle lacune della biografia vinciana se poste a confronto con l’accuratezza del medaglione biografico dedicato a Raffaello: “Se la stessa persona avesse scritto le vite di Raffaello e Leonardo, sarebbe difficile capire come conoscesse così tanto del periodo fiorentino del primo, e così poco di quello del secondo. (…) L’autore della biografia di Leonardo nella Torrentiniana si è manifestamente sforzato ben poco, o forse per nulla, per scoprire qualcosa di nuovo in merito alla vita o all’attività di Leonardo, ed è stato chiaramente poco rispettoso nell’utilizzo del materiale scritto a sua disposizione. Era, chiaramente, una figura di letterato al di fuori della cerchia artistica fiorentina, e gli aneddoti, che occupano così gran parte del testo, specie in merito all’attenzione di Leonardo per gli animali e al modo in cui dissipava il suo talento dilettandosi in attività improduttive, nel migliore dei casi possono riflettere la reputazione che si aveva di Leonardo nella Firenze colta di metà ‘500” (pp. 23-24).

Ma al di là delle singole opere segnalate e degli errori nei dati biografici, il vero nocciolo dell’analisi è questo: “Un aspetto sorprendente della vita di Leonardo è che non dice quasi nulla in merito al suo contributo all’arte dell’epoca. C’è, naturalmente, la citazione della sottigliezza con cui rese ogni particolare della Monna Lisa e, a dir il vero, di altri dipinti, e si fa riferimento allo studio dell’anatomia, ma al contrario, i risultati che ottenne sono definiti in termini molto scarni e consistono solo nell’affermazione che aggiunse alla pittura ad olio ‘una certa oscurità donde hanno dato i moderni gran forza e rilievo alle loro figure’ [10], Nel proemio alla terza parte delle Vite il contributo di Leonardo è definito in maniera assai differente. Dopo l’affermazione, all’inizio della sezione, che il contributo distintivo dell’epoca moderna riguardava ‘regola, ordine, misura, disegno e maniera’, ci vien detto che Leonardo, ‘dando principio a quella terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna, oltra la gagliardezza e bravezza del disegno, et oltra il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così apunto come elle sono, con buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina, abbondantissimo di copie e profondissimo di arte, dette veramente alle sue figure il moto e il fiato’. E’ Giorgione poi, piuttosto che Leonardo, ad essere additato per l’uso dello sfumato, e tale giudizio è ripetuto nella biografia di quest’ultimo, che probabilmente è stata scritta da Vasari stesso, dal momento che sembra essere basata strettamente sulle sue note di viaggio” (p. 24).

La biografia di Leonardo, dunque, è considerata separatamente e non in continuità con il proemio che la precede immediatamente. Se il proemio offre un giudizio stilistico e la biografia no, è semplicemente perché sono il parto di due autori diversi. E Hope continua:

“La mancanza di riferimenti specifici nella biografia alla personalità artistica dello stesso Leonardo non è forse sorprendente, se si tiene a mente che l’autore potrebbe non aver mai visto, in verità, nessuna delle sue opere. Tuttavia, la biografia di Leonardo è la prima nella parte terza delle Vite, e questo fatto ha certamente contribuito al formarsi dell’idea che fosse storicamente molto importante. Come capita, è molto probabile che la collocazione sia dovuta più ad un fatto casuale che a una deliberata decisione da parte di Vasari e dei suoi collaboratori. La Torrentiniana è divisa in due volumi; il primo contiene l’introduzione e la parte 1 e 2; il secondo presenta la parte terza. I fascicoli del primo volume, che si conclude con la vita di Perugino, sono numerati esattamente con tre serie alfabetiche, in maniera tale che il volume si conclude con la pagina finale del fascicolo con segnatura Zz. Sembra davvero straordinariamente improbabile che la parte 2 si concluda in un punto così preciso per puro caso. Sembra, invece, che lo stampatore abbia deciso che la fine della terza serie alfabetica fosse un punto conveniente per terminare il volume. Se la parte 1 o 2 fossero state più lunghe, la prima biografia nella parte 3 sarebbe stata quella di Perugino. Se fossero state più brevi, Leonardo avrebbe trovato collocazione all’interno della parte 2. Presumibilmente la prefazione alla parte 3 è stata scritta per adattare la sistemazione reale delle vite determinata dagli stampatori, più che il contrario. Ma il risultato è stato che Leonardo è divenuto il fondatore dello stile moderno, anche se nulla, nella sua biografia o nella prefazione della parte 3 spiega veramente perché effettivamente fu così” (pp. 24-25). 

Fig. 3) Leonardo da Vinci, Cartone per la S.Anna, National Gallery, Londra


Roberta Battaglia, La vita torrentiniana di Leonardo [11]

Con Roberta Battaglia ci spostiamo, invece, sul ‘fronte’ tradizionale, quello che ha visto spiccare l’opera di Paola Barocchi e, in tempi più recenti, di Barbara Agosti e Silvia Ginzburg. L’analisi è completamente ribaltata. Ecco come comincia il saggio dell’autrice: “La Vita di Leonardo nell’edizione torrentiniana delle Vite vasariane si trova in una posizione chiave, dato che è la prima posta in apertura alla terza età, dopo il Proemio, ed è significativamente stretta tra la Vita di Perugino, che la precede e che chiude la seconda età, e quella di Giorgione che la segue. Perugino appartiene ad una stagione artistica che, secondo la concezione evoluzionistica vasariana, è stata confinata nel passato perché superata da Raffaello, suo allievo che «di gran lunga vinse il maestro», e così pure da Michelangelo. Ma senza dubbio è Leonardo, come chiaramente espresso nel Proemio alla terza parte, l’artista cui Vasari riconosce il merito di aver dimenticato quale fosse «lo errore» dei maestri legati ancora a quella seconda maniera, troppo impegnati «per lo soverchio studio» nella creazione di opere «ben disegnate e senza errori», ma di «maniera secca e cruda e tagliente» che risultavano «aspre e difficili agli occhi di chi le riguardava»; a questo vecchio eloquio viene ricondotto anche il fare artistico di Perugino, seppure gli venga riconosciuta una posizione più progredita rispetto agli altri per aver aggiunto «spirito di prontezza e dolcezza nei colori uniti». Spetta dunque a Leonardo, secondo Vasari, il merito di aver dato «principio a quella terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna», grazie alla sua capacità di dare «veramente alle sue figure il moto e il fiato» (…) Vasari dimostra di vedere bene quanto sia forte lo scarto che esiste tra Perugino e Leonardo; uno scarto che si gioca tutto a livello di stile”. 

Il giorno e la notte. Il saggio di Hope e quello di Battaglia non potrebbero essere più agli antipodi. Per uno la collocazione della biografia di Leonardo è, di fatto, una scelta del tipografo; per l’altra è uno snodo fondamentale delle Vite; per Hope l’autore del medaglione è un letterato poco attento alle fonti precedenti, per Battaglia è ovviamente Vasari; per il primo l’autore dà prova di non avere consapevolezza critica del fare artistico di Leonardo; per la seconda Vasari ha chiarissima la differenza stilistica fra Perugino e Leonardo; per l’inglese il Proemio è scritto dopo la decisione di inserire la vita leonardesca ad inizio della terza parte a mo’ di raccordo fra questa e la seconda ed è comunque nettamente separato dalla biografia di Leonardo; per l’italiana, Proemio e biografia sono logicamente uniti ed inscindibili fra loro. 

Sia chiaro: Battaglia non ha alcuna esitazione nel mettere in evidenza le incongruenze e gli errori di Vasari, ma il suo approccio alle opere citate appare, in tutta onestà, frutto di un’analisi filologica di cui Hope sembra più carente, impegnato com’è a far quadrare ogni cosa in una tesi preconfezionata. Parlando ad esempio del cartone (andato perso) raffigurante il Peccato originale, all’autrice non sfugge che Vasari scrive che si trova “oggi in Fiorenza nella felice casa del Magnifico Ottaviano de’ Medici donatogli, non ha molto, dallo zio di Leonardo”. Ora, Ottaviano de Medici muore nella primavera del 1546. Ne consegue che questo brano deve esser stato scritto prima di quella data. Pur non facendolo presente nel saggio (del resto, non è lo scopo del medesimo) un’osservazione sorge spontanea: come è possibile che Vasari abbia scritto nella sua autobiografia (si veda l’inizio del commento all’articolo di Hope) di aver ideato le Vite nell’autunno del 1846, quando una parte ne risultava già scritta a primavera? Ovvero: come è possibile che Hope, che mette in discussione tutto l’impianto dell’opera, creda proprio e solo all’affidabilità dell’affermazione di Vasari nell’autobiografia? In realtà – e gli studi filologici lo hanno ormai fissato con sicurezza – la redazione delle Vite comincia molto prima del 1546; forse già nel 1542 [12]. Ma allora, se la stesura delle Vite è molto più precoce, viene meno una delle grandi argomentazioni di Hope: quella della impossibilità a completare l’opera in poco più di un anno. Semmai c’è da chiedersi perché Vasari ‘menta’ in merito alla genesi dell’opera. Anche qui però non occorre fare voli pindarici per darsi una spiegazione: si tratta semplicemente di una strategia autorappresentativa. Vasari è a Roma dal 1545 e lavora ad un incarico di assoluto prestigio, ovvero alla decorazione della Sala dei Cento Giorni nel Palazzo della Cancelleria; una commissione farnesiana. Nell’ambito di questa commissione Vasari si colloca in una serata a Palazzo Farnese, attorniato dai letterati più prestigiosi presenti a Roma in quei giorni. E’ in un’occasione ‘alta’, insomma, che devono nascere le Vite; e devono nascere lì perché Vasari ha bisogno di rappresentarsi calato pienamente nel circuito culturale dell’epoca per ‘vendersi’ bene a Cosimo de’ Medici. Vasari ha lasciato Firenze anni prima perché non apprezzato da Cosimo, da quel Cosimo che sarà il principale finanziatore della pubblicazione dell’opera (ma che fino a metà 1547 non era ancora il destinatario della dedica). Giorgio vuole tornare a Firenze. Per tornare a Firenze ha bisogno di prestigio. Tutto qui.

La verità, fa presente Battaglia, è semplicemente che le Vite (non solo quella di Leonardo, ma tutte quante) procedono per sedimentazione, come è normale che sia in un’opera di queste dimensioni. Il problema, quindi, è semmai quello di provare ad individuare i momenti della stesura originale e quelli degli inserimenti successivi. Inserimenti che possono derivare o dall’acquisizione di nuovi dati in seguito ai viaggi di Vasari o dall’intervento del gruppo dell’Accademia Fiorentina che collaborarono alla revisione del testo. L’autrice, in questo senso, avanza l’ipotesi che la descrizione del cartone della Sant’Anna (quasi sicuramente l’esemplare conservato oggi alla National Gallery) sia stata inserita in un momento tardo della redazione delle Vite; in effetti la sua collocazione, all’interno della narrazione delle vicende della (mai realizzata) Pala della Santissima Annunziata appare poco coerente col resto del testo. La data che Battaglia suggerisce è successiva ad un supposto viaggio di Vasari a Milano nel 1548, circostanza in cui l’aretino avrebbe potuto vedere l’opera. 



In conclusione

Proverò a concludere battendo ogni record di immodestia. Se prendete uno ad uno tutti i testi che ho pubblicato a mia firma su questo blog da novembre 2013 ad oggi, se li mettete più o meno in fila per ordine cronologico di argomento e provate a leggerli tutti di un fiato, vi accorgerete immediatamente di incongruenze, discontinuità stilistiche ed imprecisioni. E’ inevitabile che sia così. Eppure li ho scritti tutti io. Il problema semmai è cercare di capire quali ho scritto per primi e se sono intervenuto con aggiunte successive a colmare lacune di cui ho percepito la presenza. 

Adesso prendiamo Vasari. Scrive, negli anni, un testo di 300.000 parole. Procede per sedimentazioni successive, aggiungendo man mano dati ed informazioni. Da un certo momento in poi, peraltro, intervengono aggiunte e correzioni di terzi. E poco dopo ci si trova di fronte ai limiti tecnici della stampa dell’epoca. Non è possibile scomporre e ricomporre pagine all’infinito; l’intervento su una pagina già stampata è l’eccezione, non la norma. I tempi tipografici sono infiniti. Eventuali correzioni vengono operate all’interno delle biografie successive. Questo, molto probabilmente, è quello che è successo. Il problema (un rompicapo senza soluzione) è semmai cercare di capire cosa sia stato scritto prima e cosa sia stato aggiunto dopo (e da chi). La tesi di Hope, per quanto affascinante, è priva di un qualsiasi riscontro reale: non esiste traccia di un Manoscritto K, ma soprattutto non esiste traccia di un qualsiasi testo inviato a Vasari come redazione di una biografia già preconfezionata non operata da lui. Tale traccia non esiste né nelle carte vasariane né negli archivi dei potenziali autori indicati da Hope. Gli archivi, lo sappiamo bene, sono incompleti; ma bisognerebbe immaginare una specie di ‘patto del silenzio’ che si sarebbe spinto fino alla distruzione sistematica di tutte le prove cartacee esistenti. Francamente, ci pare un’ipotesi troppo fantasiosa. 



NOTE

[1] E’ appena il caso di ricordare che le Vite uscirono (Vasari vivente) in due edizioni, che sono sempre state convenzionalmente fra loro distinte col nome dello stampatore: la cosiddetta Torrentiniana, pubblicata da Lorenzo Torrentino (1550) e la Giuntina, edita appunto dai Giunti nel 1568. Esula completamente da questo lavoro tracciare le differenze fra le due versioni (la letteratura in merito è sterminata). Basti dire che, nel concreto, la Giuntina è di gran lunga la più diffusa e la più citata. Per una versione contemporanea delle Vite (in entrambe le versioni) si rimanda alla fondamentale edizione curata da Paola Barocchi e Rosanna Bettarini (Sansoni prima e S.P.E.S poi, 1966-1997).

[2] Pubblicato all’interno di The Lives of Leonardo, a cura di Thomas Frangenberg e Rodney Palmer, coedizione The Warburg Institute e Nino Aragno Editore, 2013, pp. 11-28. Il volume raccoglie i contributi presentati al convegno ‘Le vite di Leonardo’, tenutosi al Warburg Institute di Londra nel settembre 2006 (e ne aggiunge di nuovi, secondo l’indicazione dei curatori).

[3] E’ noto che Giovio non fu solo letterato, ma anche critico d’arte. In particolare scrisse biografie dedicate proprio a Leonardo da Vinci, a Raffaello e a Michelangelo. La pubblicazione dei testi di Giovio fu tuttavia solo settecentesca. Per un’analisi estremamente convincente dell’importanza di Paolo Giovio come critico d’arte in generale, e come fonte (se non altro orale) per le Vite vasariane si veda Barbara Agosti, Paolo Giovio. Uno storico lombardo nella cultura artistica del Cinquecento, Firenze, 2008.

[4] Tutte le traduzioni dal testo inglese di Hope sono mie.

[5] Hope fa presente che le qualità letterarie dello stile vasariano si ritengono normalmente dimostrate dalle lettere dell’aretino scritte fino al 1550, ma che ci si dimentica troppo spesso che non si tratta degli originali, bensì di copie probabilmente ‘risistemate’ da Giorgio Vasari il Giovane. Le lettere autografe, invece, mostrano con evidenza lo stile raffazzonato dell’autore. 

[6] Francesco Albertini, Memoriale di molte statue et pycture sono nella inclyta cipta di Florentia (1510) e Opusculum de mirabilibus novae et veteris Urbis Romae (1510).

[7] Il Libro di Antonio Billi, a cura di Annamaria Ficarra, Napoli, 1975 circa.

[8] L’Anonimo Magliabechiano, a cura di Annamaria Ficarra, Napoli, 1968. Si è ipotizzato di recente, in maniera a mio avviso convincente, che l’Anonimo Magliabechiano sia opera di Bernardo Vecchietti. Si veda Bouk Wierda (The True Identity of the Anonimo Magliabechiano in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 53 (2009), pp. 157-168. Disponibile su Internet all’indirizzo http://www.rug.nl/staff/b.s.wierda/oudereversieartikel.pdf

[9] L’errore sarà corretto nella Giuntina.

[10] Tutte le citazioni delle Vite compaiono in italiano nel testo di Hope.

[11] Pubblicata all’interno di Giorgio Vasari e il cantiere delle Vite del 1550. Atti del Convegno tenutosi a Firenze, Kunsthistorisches Institut, 26-28 aprile 2012, a cura di Barbara Agosti, Silvia Ginzburg ed Alessandro Nova, Venezia, 2013, pp. 247-270. 

[12] Si veda, uno per tutti, Barbara Agosti, Giorgio Vasari. I luoghi e tempi delle Vite, Milano, 2013, p. 57.

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