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lunedì 29 settembre 2014

Bologna's Applied Arts and Crafts (Le arti applicate a Bologna), Consiglio Provinciale dell'Economia, 1928 (ma 1929)


Bologna’s Applied Arts and Crafts
Introduzione di Francesco Malaguzzi Valeri; testi di Frank de Morsier

Bologna, Consiglio Provinciale dell’Economia, 1928 (ma 1929)

(Recensione di Giovanni Mazzaferro)

Fig. 1) Copertina dell'opera (integra)

Ogni tanto una curiosità bisogna concedersela. E’ il caso di questo volume, edito in 500 copie, in edizione fuori commercio per conto del Consiglio Provinciale dell’Economia di Bologna. L’esemplare che possediamo (comprato di seconda mano e con un’etichetta di appartenenza a nome della Biblioteca G. Bortolotti) è, purtroppo, mutilo.

In particolare sono state tagliate le pagine 7 e 9, ovvero il frontespizio e un estratto della risoluzione del Presidente del Consiglio Provinciale in cui si spiegavano i motivi della pubblicazione. Le tavole che l’opera presenta sono così belle che si potrebbe supporre che le pagine ritagliate siano state vendute separatamente. Tuttavia è più probabile che si tratti di una stupida (e incivile) volontà di cancellare ogni rimando al fascismo contenuto in essa. In copertina è stata infatti cancellata con penna blu la dicitura ‘6th year of the fascistic era’ (che è invece visibile nella riproduzione che abbiamo trovato su e-bay e che alleghiamo in fig. 1).

Stando a quanto riportato appunto in copertina, l’anno di edizione dell’opera sarebbe il 1928, ma appare chiaro che è invece il 1929, sia perché il testo di De Morsier si conclude con l’indicazione ‘July 1929’, sia perché la medesima indicazione appare in corrispondenza della data di stampa: “Printed by «Officine Grafiche Cacciari» July 1929. 7th year of the F.E.”. I motivi della incongruenza potrebbero essere tragici. L’introduzione dell’opera è firmata infatti da Francesco Malaguzzi Valeri, direttore della Pinacoteca di Bologna dal 1914 in poi e vero ‘inventore’ del museo Davia-Bargellini, di cui parleremo più avanti. Malaguzzi Valeri si suicidò il 23 settembre 1928 in seguito ad uno scandalo legato alla sparizione di alcuni quadri dalla Pinacoteca stessa [1]. Probabile che la vicenda abbia comportato imbarazzi e ritardi.

Quello che è certo è che il libro risulta realizzato con qualche ambizione. Lo dimostra innanzi tutto il fatto che sia scritto in inglese (la traduzione è del Prof. Tolomeo Folladore, professore di Lingue all’Accademia Militare di Modena) per una diffusione evidentemente internazionale, che la copertina e i disegni siano firmati da Alfredo Baruffi, illustratore e disegnatore liberty che creò cicli importanti a corredo delle opere di Pascoli e Carducci [2]; e che gli autori siano appunto Malaguzzi Valeri da un lato e l’avvocato Frank De Morsier, possidente bolognese ampiamente presente nelle principali istituzioni politiche bolognesi, dapprima coi liberali e poi nelle fila del fascismo. 


'Arts and Crafts': da William Morris al fascismo

Ma soprattutto c’è quel titolo (Bologna’s Applied Arts and Crafts) che richiama in maniera inequivocabile l’esperienza di fine Ottocento lanciata da William Morris in Inghilterra, sotto la suggestione di Ruskin e dell’arte preraffaellita. 

Fig. 2) Particolare di un abbonamento stagionale per la 'Arts and Crafts Exhibition Society'.
Disegno di Walter Crane. 1890 © Victoria and Albert Museum, Londra


E non è certo un caso se una delle tavole, la LXV, riporta la copertina (liberty) di un libro di Cesare Ratta dedicato a William Morris ed edito a Bologna nel 1921 (fig. 3).


Fig. 3) Dall'interno dell'opera: tavola LXV: copertina per una monografia dedicata a William Morris e pubblicata dalla Scuola di Tipografia bolognese - Progetto grafico del Signor Tirelli, pittore

Naturalmente, fra la nascita dell’'Arts and Crafts' inglese e il libro ora in esame sono passati quasi cinquant’anni. Non si può far finta di nulla. Senza pretendere di riassumere cinquant’anni in dieci righe proviamo però a dire: l’'Arts and Crafts' di Morris nasce come reazione ai modi di produzione industriali introdotti in Inghilterra nel corso dell’800; comporta la rivalutazione dell’artigianato come arte; il recupero del Medioevo, l’identificazione del bello con l’utile; ma è soprattutto un’idea di impronta socialista; è una forma di contestazione del modello di società che si è andato affermando storicamente sull’isola, testimoniato anche dalle biografie dei singoli fondatori.

Il germe di Morris ci mette poco a dare i suoi frutti in tutta Europa. Sono i frutti dell’Art Nouveau e del Liberty, che letteralmente invadono il continente in ogni suo angolo: e, sia chiaro, anche l’Italia. Il Liberty, dopo il Barocco, diventa vero stile universale [3]. Dappertutto si aprono scuole di arte industriale, dove l’artigianato torna ad assurgere al ruolo di arte nella produzione di oggetti dedicati fondamentalmente alla vita quotidiana della borghesia europea. Il mito del gotico cambia l’aspetto delle nostre città. E’ il caso di citare, con riferimento a Bologna, i famosissimi (e sin troppo criticati) restauri ‘medievali’ delle chiese e dei palazzi felsinei ad opera di Alfonso Rubbiani. Da un’idea socialista, insomma, si è passati a un mito borghese.

Poi scoppia la guerra; una tragedia immane. Milioni di morti. In Italia, l’entusiasmo della vittoria e la frustrazione dei risultati ottenuti, che non corrispondono a quanto concordato al momento dell’ingresso nel conflitto; il nuovo divampare del nazionalismo. D’altro lato, la rivoluzione russa; il socialismo che avanza; gli scioperi nelle campagne (in quelle bolognesi di particolare impatto); il sollevamento del bracciantato; i disordini, i morti, la percezione che la sacralità della proprietà privata (il principio cardine di una civiltà borghese) è messa in discussione dai moti rivoluzionari. L’arrivo del fascismo, che con la violenza si offre come facile scorciatoia ai problemi cui lo Stato liberale non è stato in grado di trovare risposte. Il ritorno all’ordine, un ordine basato contemporaneamente su consenso e repressione violenta delle opposizioni democratiche. In tutto questo contesto, le arti applicate rappresentano, appunto, il ritorno all’ordine, ad una società (fintamente) pacificata. Dalla contestazione della società operata da William Morris in origine le 'Applied Arts and Crafts' sono ora il ritorno nostalgico a un tempo (mitologicamente) felice e pacificato, sotto il regime fascista; non è un caso, quindi, che a sostenerle siano le organizzazioni economiche in cui maggior peso hanno gli elementi reazionari e conservatori della società.

Fig. 4) Dall'interno dell'opera: tavola LXVI Copertina di un volume di scritti carducciani,
disegnata da Adolfo De Carolis, pittore, e pubblicata dalla casa editrice Nicola Zanichelli 

Nel 1926 le vecchie Camere di Commercio vengono sostituite dai nuovi Consigli provinciali dell’Economia. I Consigli diventeranno poi, nel 1931, i Consigli provinciali dell’economia corporativa. Ma siamo già, a partire dal 1926, dentro ad un embrione di economia corporativa di stampo fascista. Scrive Frank de Morsier [4]: “La trasformazione delle Camere di Commercio in Consigli Provinciali dell’Economia, se ha aumentato l’importanza delle rappresentanze economiche cittadine e della Provincia, ci ha lasciato in eredità obblighi più precisi e un obiettivo più ambizioso. D’altro lato, il nuovo spirito costruttivo [n.d.r. fascista] che anima tutte le energie italiane funge, a sua volta, da stimolo per queste nuove Istituzioni […]. Più di una volta è stato assodato dal Consiglio Provinciale dell’Economia che la realtà economica di questa città non è conosciuta, sia in Italia sia all’estero, mentre invece dovrebbe e meriterebbe di esserlo. Inoltre, che alcuni dei settori produttivi a lei peculiari, e assai meritevoli di particolare attenzione, sono totalmente ignoti. Da qui, la risoluzione sopra menzionata [n.d.r. ovvero di pubblicare il libro], il cui scopo è di diffondere una conoscenza via via più esatta e particolare sull’attività delle nostre manifatture e dei nostri artigiani, in maniera tale che al mercato bolognese possa essere attribuito il suo esatto posto nella nostra economia nazionale” (p. 20). 


Le arti applicate bolognesi 

Lo scritto di De Morsier passa in rassegna, senza particolari meriti, le varie aree dell’artigianato bolognese, fornendo a volte brevi cenni sulla nascita delle manifatture (le origini sono sempre individuate nei secoli medievali); sono segnalati i nomi delle imprese più rappresentative operanti al momento della pubblicazione: si va dalla lavorazione del legno e dalla creazione di mobili alla metallurgia, dalle ceramiche e terracotte agli stucchi e alla produzione di vetrate; dal tessile alle arti grafiche. Si coglie qualche lacuna, che dimostra come l’opera si ponga più quale strumento promozionale delle attività artigianali esistenti che come esame di una determinata produzione artigianale in prospettiva storica. Manca, ad esempio, qualsiasi riferimento alla Ceramica Aldrovandi, che, senza dubbio, per qualità dei risultati, ha rappresentato storicamente uno dei punti più alti raggiunti dalla ceramica bolognese, ma che, aperta a fine Settecento, aveva chiuso i battenti a fine Ottocento [5].

E’ fuori di dubbio che, nell’ambito del liberty italiano, l’iniziativa economica più significativa a livello nazionale sia stata l’esperienza di 'Aemilia Ars' (pp. 49-50). 'Aemilia Ars' nasce nel 1898 su iniziativa di vari imprenditori (tutti appartenenti di fatto all’aristocrazia bolognese) e fortemente ispirata da Alfonso Rubbiani, che ne diventa direttore artistico. Nasce come società aperta a tutti i settori dell’artigianato bolognese, ma nonostante i buoni risultati ed i riconoscimenti, chiude quasi subito per via dei costi insostenibili. La contessa Lina Bianconcini, moglie di Francesco Cavazza (che era stato uno dei promotori dell’iniziativa originaria) decide però di tenere in vita l’attività limitandola al tessile. La ‘Aemilia Ars Merletti e Ricami’ diventa famosa letteralmente in tutto il mondo: i merletti bolognesi sono ricercatissimi; si tratta di modelli che prendono normalmente esempio da motivi medievali o rinascimentali, e che invadono le case di tutta l’alta borghesia europea. Non è sfuggito a molti che 'Aemilia Ars', oltre ad esaltare le qualità della produzione bolognese, svolge anche un benemerito ruolo sociale, esaltando il lavoro delle donne, di tutti i ceti sociali. L’azienda, insomma, trasforma in reddito un lavoro che può essere svolto a casa e che in precedenza, restando in ambito familiare, non era nemmeno retribuito. L’esperienza del merletto bolognese, almeno nella sua forma più classica, si chiude solo nel 1935 [6].

Fig. 5) Dall'interno dell'opera. Tavola LI: merletto della 'Aemilia Ars'


Quelli dedicati al mondo dell’editoria e della stampa a Bologna sono più che altro cenni. Ma non posso tacerne, se non altro per interessi personali, e perché inoltre il libro presenta splendide tavole tratte dalle pubblicazione della Scuola di tipografia a Bologna, e in particolare dai volumi della collana ‘Gli adornatori del libro in Italia’, edita dall’Officina della Scuola di Arte Tipografica del comune di Bologna (1923-1927) a cura di Cesare Ratta [7]. Ne abbiamo scansionato alcune che sono riproposte ora in questo post (figg. 3,  4, 6 e 7). Naturalmente nell’ambito dell’editoria vengono citate la Casa editrice Zanichelli (come editrice delle opere di Pascoli e Carducci) e la Libreria Licinio Cappelli; ma è lunga la serie delle tipografie; e non si possono dimenticare disegnatori come Baruffi, che lavora anche ai motivi ornamentali del presente volume.

Fig. 6) Dall'interno dell'opera: Tavola LXVII


Il Museo Davia-Bargellini e la Regia Scuola per le Arti Decorative

L’introduzione di Francesco Malaguzzi Valeri ha un respiro senz’altro più elevato. Malaguzzi Valeri – come già accennato – è colui che si occupa di un aspetto tutt’altro che secondario per quegli anni, ovvero la musealizzazione dell’esperienza dell’artigianato artistico bolognese. Tale musealizzazione si risolve nell’allestimento (ad oggi sostanzialmente immutato) del Museo Davia Bargellini (uno dei tanti tesori sconosciuti del patrimonio artistico bolognese), sito al piano terra dell’omonimo palazzo senatorio appartenuto prima ai Bargellini e poi appunto ai Davia. Il museo rappresenta il tentativo (riuscito) di coniugare due aspetti del patrimonio artistico della città: da un lato la quadreria Davia Bargellini; dall’altro le raccolte d’arte applicata, di provenienza disparata, oggetto di donazioni o di acquisti operati proprio in quegli anni. 

Malaguzzi si sofferma sull’allestimento delle sale (con riferimento all’arte industriale), descrivendo le scelte operate e riconoscendo nell’età barocca l’apice dell’artigianato bolognese per quanto riguarda la produzione di mobili, cornici, candelabri ed altri oggetti. Quello che è interessante è notare come l’autore conti molto sulla valenza educativa dell’esposizione: aver creato un museo non permette soltanto al forestiero di farsi un’idea della storia dell’artigianato locale, ma consente soprattutto agli artigiani contemporanei di ispirarsi agli oggetti esposti nelle loro produzioni, contribuendo così in maniera significativa ad innalzare il livello qualitativo delle medesime.

Fig. 7) Dall'interno dell'opera: Tavola LXXII

Questo legame con l’aspetto pedagogico ed educativo è sempre avvertito in maniera molto forte; il Museo di per sé non è sufficiente per mantenere in vita le arti applicate; serve una scuola. E questo istituto è la Regia Scuola per le Arti Decorative, fondata nel 1885 sotto forma privata e poi divenuta pubblica nel 1890 (l’attuale Istituto d’Arte [9]). Ecco il testo dell’autore: “La Scuola, nello stato attuale, non riesce a rispondere alle necessità della nostra città, che è la più fiorente nel Nord Italia per quanto attiene l’arte industriale. Le aule sono insufficienti, come pure le entrate e il numero delle lezioni. E’ nelle intenzioni del suo Consiglio Direttivo che sia dedicata particolare intenzione ai lavoratori adulti, per i quali un corso speciale abbreviato sarà della massima utilità per «renderli esecutori consapevoli sia per lo stile sia per la corretta interpretazione dei disegni e dei modelli». A tal fine, il sopra ricordato Museo darà sicuramente il suo contributo, grazie ai modelli numerosi, ben catalogati e più stimolanti di ogni altro. Rafforzerà lo studio diretto dei modelli, porrà un freno alle mania della sovraelaborazione […], risveglierà nel lavoratore il senso del limite, del buon gusto e della linearità delle forme”. (pp. 15-16) [10]. E’ una visione molto simile a quella che, nei secoli precedenti, aveva portato alla nascita delle Accademie, con l’unica differenza che, mentre in quel caso ci si riferiva alle Belle Arti (in particolar modo alla pittura), qui stiamo parlando di arti applicate.

Naturalmente Bologna’s Applied Arts and Crafts può apparirci oggi come una pura curiosità, o come un volume in cui il ceto possidente ed erudito della città si autorappresenta (con qualche velleità internazionale); difficile negarlo. Resta il fatto che ci permette anche di avere una fotografia, edulcorata sì, ma tutto sommato abbastanza fedele delle maniere in cui la grande passione per le arti industriali si andò declinando a Bologna nei primi decenni del Novecento; e che una visita al Museo Davia Bargellini aiuterebbe a meglio comprendere. 



NOTE



[3] Si veda Antonio Paolucci, Liberty. Uno stile universale in Liberty Uno stile per l’Italia moderna. Catalogo a cura di Fernando Mazzocca, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2014.

[4] Il testo è in inglese. La traduzione in italiano è mia.

[5] Nicoletta Barberini, La manifattura Aldrovandi, Bologna, 1996.





[10] Il testo è in inglese. La traduzione in italiano è mia


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