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mercoledì 17 settembre 2014

Andrea Alciato, Il libro degli Emblemi secondo le edizioni del 1531 e del 1534, Milano, Adelphi, 2009


English Version

Andrea Alciato
Il libro degli Emblemi
secondo le edizioni del 1531 e del 1534

A cura di Mino Gabriele


Milano, Adelphi, 2009
Isbn 978-88-459-2441-5



Avvertenza: le immagini che compaiono in questo post sono facsimili dell'edizione parigina del 1534 degli Emblemata. La Biblioteca dell'Università di Glasgow ha digitalizzato e messo in linea in libera consultazione i facsimili di 22 diverse edizioni dell'opera. Per vedere tutte le immagini è sufficiente cliccare qui http://www.emblems.arts.gla.ac.uk/alciato/books.php?id=A34b&o= e sull'opzione Go straight to the first facsimile of this book.




[1] Testo della bandella:

“Il connubio tra immagini e parole, oggi così pervasivo, ha in realtà una storia ben più antica e nobile di quel che si tende a credere, e autorevoli progenitori tanto celebrati in passato quanto ormai trascurati. Fra questi è certamente da annoverare Andrea Alciato, grande erudito, umanista, «austero e insofferente» giurista tra i più insigni del XVI secolo. Il suo Emblematum liber (1531), galleria di situazioni umane trasfigurate in metafore e in mirabili simboli ‘geroglifici’, ambiva a trasmettere – similmente agli Adagia di Erasmo – un patrimonio di saggezza e moralità, attraverso una efficace visualizzazione verbale e iconografica di alti concetti o di semplici pensieri. Divenne invece l’archetipo di un genere di letteratura che non solo conobbe in Europa fin dalla sua nascita uno straordinario successo, ma esercitò un decisivo influsso, tanto da diventare un riferimento inevitabile, se si vuole capire molta parte dell’arte e della letteratura successive.

Il libro degli Emblemi viene qui proposto per la prima volta in una edizione che se darà piena soddisfazione agli studiosi, i quali da tempo denunciavano un inspiegabile vuoto editoriale, costituirà per tutti gli altri lettori un’entusiasmante scoperta: il volume accoglie infatti, oltre al testo latino – criticamente stabilito sulla base del raffronto fra le due prime edizioni (1531 e 1534) -, la traduzione, le illustrazioni di altre due fondamentali stampe (1560, 1621) e un vasto commento, che di ciascun emblema individua le fonti speculative e iconologiche. Sarà così possibile ritrovare le radici da cui scaturì un’idea semplice e geniale: creare parole dalle quali possano fiorire immagini e viceversa, in uno sposalizio etico e filosofico dove si ascolta l’immagine e si vede la parola.”



[2] Andrea Alciato (1492-1550) era soprattutto un famoso giurista, e se come tale è ancor oggi ricordato negli studi di storia del diritto, è vero che il suo nome rimase e rimane indissolubilmente legato a questo strano libretto, pubblicato per la prima volta ad Augusta nel 1531 e poi ristampato ed arricchito di materiali in infinite occasioni, considerato una pietra miliare nella storia della letteratura rinascimentale dell’emblematica e delle imprese. Gabriele ne fornisce oggi un’edizione moderna davvero notevole, con l’obiettivo precipuo di studiare le fonti a cui Alciato attinse sia nel concepimento dell’opera sia nell’iconologia dei singoli emblemi. 



[3] Un primo problema si pone immediatamente: Alciato voleva davvero pubblicare un volumetto come quello stampato ad Augsburg nel 1531 da Heinrich Steyner? Pare proprio di no, se è vero che Alciato si lamentò in varie occasioni di quest’edizione “scorrettissima” e la disconobbe, fino ad approntare una vera e propria edizione corretta, pubblicata a Parigi da Chrétien Wechel nel 1534. In realtà già nel 1522 Alciato comunica per lettera ad un amico di aver composto, sostanzialmente nel tempo libero, un “libretto di epigrammi intitolato Emblemata, in ciascuno dei quali descrivo qualcosa, tale che significhi con eleganza un qualche cosa tratto dalla storia e dal mondo naturale, donde pittori, orefici, fonditori possano realizzare quel genere di oggetti che chiamiamo scudi [stemmi o distintivi] e attacchiamo ai cappelli o portiamo quali insegne” (pp. XV-XVI). Il libretto, molto probabilmente, era manoscritto, posto che ad oggi non se ne è avuto alcun riscontro bibliografico, e sicuramente era privo di immagini. Semmai, come appunto testimonia l’autore, gli epigrammi dovevano stimolare il mondo di artisti ed artigiani a forgiare manufatti che ad essi fossero ispirati. Sempre molto probabilmente (si ragiona spesso, come si vede, sulla base di congetture, ma quelle di Gabriele sembrano del tutto ragionevoli) Alciato attese a tali epigrammi sin dalla giovane età, come risulta dall’esame più approfondito di alcuni emblemi (cfr. pp. XXII-XXIII), e proseguì nell’opera anche dopo la pubblicazione della “prima edizione autorizzata” (1534), tanto che l’ultima edizione (1550) approvata da Alciato prima della morte e stampata a Lione da Guillaume Rouillé e Macé Bonhomme presentava un numero nettamente più consistente di emblemi. Fatto sta che nel 1531, appunto, il tipografo Heinrich Steyner faceva uscire dai suoi torchi l’Emblematum liber, un libretto in 16° di sole 44 carte che però conteneva una fondamentale novità rispetto a quanto testimoniato da Alciato nel 1522: l’inserimento di una serie di vignette xilografiche (di qualità scarsa) che illustravano i singoli epigrammi (in totale questi ultimi erano 104, di cui sei senza vignetta). Il successo fu immediato, tanto che in pochi anni se ne fecero quattro ristampe. Intendiamoci, si trattava di un’edizione pirata e non è certo qui il caso di scandalizzarsi o di pensare che fosse una situazione particolarmente strana all’epoca: citare un esempio sostanzialmente coevo è anzi assai facile: basti pensare alle fortunatissime edizioni pirata delle opere di Sebastiano Serlio da parte di Coecke van Aelst (Krista de Jonge, Les éditions du traité de Serlio par Pieter Coecke van Aelst in Sebastiano Serlio à Lyon. Architecture et imprimerie. Volume 1. Le Traité d’Architecture de Sebastiano Serlio. Une grande entreprise éditoriale au XVIe siècle). Non è noto come Steyner fosse entrato in possesso di un manoscritto degli Emblemata (alcune ipotesi a p. XXI). Fatto sta che Alciato non la prese certo bene; le scorrettezze, a suo dire, erano tali e tante da rischiare di rovinargli la reputazione e proprio per questo, probabilmente, intraprese la pubblicazione della prima edizione “ufficiale” nel 1534 (gli emblemi erano divenuti 113): un altro clamoroso successo, con già diciassette ristampe eseguite entro il 1545. Fatto sta che l’idea di accompagnare gli epigrammi con illustrazioni potrebbe non essere stata di Alciato, quanto piuttosto di Steyner, che avrebbe così posto in essere l’auspicio del giurista lombardo (che mirava a fornire epigrammi destinati ad essere tradotti in immagine). E proprio per questo Alciato potrebbe aver giudicato umiliante l’edizione del 1531: perché al di là della scarsa qualità delle vignette, alcune di queste avrebbero travisato il senso degli epigrammi. Da qui la necessità di un’edizione ufficiale che appunto non mancò di fornire illustrazioni innanzi tutto di qualità superiore, ma spesso ben diverse da quelle di Steyner (pp XXVII-XXXIV). Alciato, consapevole del successo ottenuto dall’opera proprio perché illustrata, sarebbe stato ad ogni modo indotto a seguire l’impostazione dell’editore del 1531, stabilendo così una struttura che da quel momento in poi sarebbe stata tipica di ogni emblema rinascimentale: titolo (inscriptio o motto che dir si voglia), pictura o res picta, e subscriptio (descrizione in versi del soggetto). 



[4] “Questo studio prende in considerazione le due prime stampe dell’Emblematum liber, rispettivamente apparse nel 1531 ad Augsburg presso Heinrich Steyner e nel 1534 a Parigi presso Chrétien Wechel, di cui propone l’edizione critica del testo e il confronto iconologico delle immagini. Si tengono tuttavia presenti anche le successive edizioni, dove, in sede di commento, siano utili a meglio comprendere il significato dei singoli Emblemi [...] Le xilografie che accompagnano ogni Emblema (poste tra il titolo e l’epigramma come vuole l’assetto emblematico) sono due, in quanto diamo sia le vignette del 1531 che quelle del 1534: le une e le altre sono state attribuite a diversi artisti ma senza alcuna certezza; per quelle del 1534 si fa di solito il nome di Jean Mercure Jollat […]. Le illustrazioni che compaiono nelle numerose edizioni degli Emblemata, a cominciare da quella del 1531, si confermano ai versi seguendone la sicura traccia ecfrastica. Tuttavia le diverse interpretazioni grafiche che, talvolta, nelle varie stampe, si riscontrano tra vignette che dovrebbero rappresentare lo stesso epigramma, non devono sorprendere, in quanto fanno parte di quella libertà stilistica che naturalmente caratterizza l’esecuzione di ogni artista, in questo caso dei disegnatori e incisori al servizio dei differenti editori e tipografi […]. Il lavoro iconologico svolto a riguardo consente di affermare che le uniche, sostanziali divergenze figurative si manifestano, in alcuni casi, tra le illustrazioni dell’edizione di Steyner del 1531 e la successiva di Wechel del 1534 […] Inseriamo, per l’esame iconologico di questa duplice serie xilografica (solitamente in fine al commento di ciascun Emblema), anche le immagini di edizioni successive, traendole in particolare da quella lionese dovuta a Guillaume Rouillé e Macé Bonhomme del 1550, considerata la più autorevole, in quanto revisionata dallo stesso Alciato prima di morire, e da quella di Johannes Thuilius del 1621, la più ampia e completa realizzata” (pp. LXXIII-LXXV).



[5] L’influsso dei geroglifici sul mondo degli emblemi e delle imprese è evidente. In un’altra sua opera sostanzialmente coeva (il De verborum significatione) lo stesso Alciato scriveva: “Le parole significano, le cose sono significate. Tuttavia anche le cose talvolta significano, come i geroglifici di Horo e di Cheremone, argomento sul quale anche noi abbiamo composto un libretto in versi, il cui titolo è Emblemata” (pp. XLIII-XLIV). Ora, la prima delle due fonti citate da Alciato è ben nota: si tratta di Orapollo. Il manoscritto contenente I geroglifici di Orapollo fu portato in Italia nel 1422; era scritto in greco. Giorgio Valla lo tradusse in latino (sempre in forma manoscritta a metà del Quattrocento). La prima edizione a stampa (in greco) è del 1505 (ad opera di Aldo Manuzio); la prima in latino è del 1515 e fu pubblicata ad Augusta. Due anni dopo comparve a Bologna una seconda edizione latina, curata questa volta da Filippo Fasanini; e proprio Fasanini era docente a Bologna mentre vi studiava l’Alciato. Molto meno spiegabile risulta il riferimento a Cheremone, di cui oggi sappiamo che mai nulla ci è giunto. Lo sappiamo oggi, ma all’epoca si ascrivevano a Cheremone i geroglifici contenuti nell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (l’occasione è preziosa per ricordare che Mino Gabriele ha curato assieme a Marco Ariani un’edizione dell’Hypnerotomachia pubblicata da Adelphi in questa stessa collana e poi ristampata ne “Gli Adelphi” nel 2004). 

[6] All’interno del volume sono conservate tre recensioni apparse sui quotidiani in corrispondenza dell’uscita dell’opera: si tratta rispettivamente di articoli pubblicati a firma Valerio Magrelli  su Repubblica il 4 dicembre http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/12/04/dagli-emblemi-ai-tatuaggi-metamorfosi-dei-simboli.html, Gabriele Pedullà su Il Sole 24 Ore il 6 dicembre ed Armando Torno sul Corriere della Sera il 10 dicembre 2009 

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