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Luciano Mazzaferro
Gli 'Original Treatises' di Mary Philadelphia Merrifield.
Parte II: Il manoscritto Volpato e l'edizione 'pirata' di Bassano del Grappa
Gian Battista Volpato. Sacra Famiglia (fine XVII secolo) http://www.studiomondi.it/ |
AVVERTENZA:
Questo post è stato pubblicato nel 2014. Dopo tale data sono state scoperte a Brighton le lettere che Mary Philadelphia Merrifield inviò a suo marito dall’Italia nel corso del viaggio che la ricercatrice condusse fra 1845 e 1846 alla ricerca di manoscritti che testimoniassero le tecniche artistiche degli antichi maestri italiani. Molte delle informazioni contenute nel presente post risultano essere pertanto superate, incomplete e, a volte, non corrette. Ho pubblicato le lettere nel 2018 in La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield: Lettere dall’Italia (1845-1846), Milano, Officina Libraria, 2018, isbn 88-99765-70-5. Invito pertanto gli interessati a far riferimento alla consultazione di tale volume. Ho comunque deciso di mantenere visibili i vecchi post per dare un’idea di quelle che erano le informazioni disponibili prima della scoperta delle lettere e di come le ricerche su Mary P. Merrifield siano evolute negli ultimi anni.
* * *
[Nota di Giovanni e Francesco Mazzaferro: questo testo è la trascrizione e la traduzione fedele di una parte della “nota di lettura” scritta da nostro padre, Luciano Mazzaferro, con riferimento agli Original Treatises on the Arts of Painting di Mrs. Mary Philadelphia Merrifield. Si era attorno al 1998. Le pagine trascritte si riferiscono ad uno dei trattati pubblicato dalla Merrifield, per la precisione il Modo da tener nel dipinger di Gian Battista Volpato. Le note al testo sono invece redazionali e compilate nel 2014).
Questo saggio fa parte della serie dedicata alla vita e alle opere di Mary Philadelphia Merrifield. Per il primo rimandiamo a Giovanni Mazzaferro, Mary Philadelphia Merrifield, la Signora di Brighton che amava i colori.
Va da p. 719 a p. 755. Trascrizione integrale di un manoscritto conservato
presso la Biblioteca civica di Bassano del Grappa. La Merrifield non precisa la
collocazione dell’opera, ma non si può escludere che il manoscritto fosse già
allora segnato con quel numero, ovvero il 1763, che ritroviamo nel volume LV
degli Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, edito a
Firenze una sessantina d’anni fa [1].
Questi ed altri manoscritti del Volpato erano noti
assai prima che la Merrifield se ne occupasse. Erano stati letti e ampiamente
utilizzati dal Verci per la redazione delle Notizie intorno alle vite e alle
opere di Pittori, Scultori e Intagliatori della città di Bassano,
pubblicate a Bassano nel 1775 [2]. Il Lanzi, autore assai seguito nei primi
decenni del secolo scorso, aveva fornito un giudizio abbastanza riduttivo sul
Volpato pittore, ma allo stesso tempo aveva mostrato un certo favore per la sua
attività di scrittore: “la sua opera è sparsa di buone osservazioni” [3]. E,
subito dopo: bisogna “almen crederlo buon teorico”. Algarotti – sono sempre
parole del Lanzi - prese copia “del suo scritto maggiore, come vedesi
nell’indice de’ suoi libri di belle arti già pubblicato” [4]. La stima
dell’Algarotti, ricercatore non sempre felice, forniva un buon argomento di
riflessione e di ripetute punture di spillo. All’inizio del nuovo secolo, nel
1807, uscì un breve scritto di Bartolomeo Gamba sui Bassanesi illustri, ove si
fa scempio del Volpato pittore, assai lontano dall’ormai imperante stile
neoclassico e si segnalano al pubblico disprezzo “quelle enormi schiene e
quegli sconci sederi, e que’ coloracci nerastri e tenebrosi che… si presentano
ne’ suoi quadri” (pag. 51) [5]. Ma anche qui si coglie un decisivo cambiamento
di valutazione appena si passa a dar notizie dei manoscritti: “rimangono” –
segnala il Gamba a pag. 50 – “molti suoi scritti attorno al magistero delle
arti del disegno, di alcuni de’ quali si servì il Verci, e se ne giovò eziandio
l’Algarotti, che qualche volta si rivestiva volentieri delle penne altrui.” Di
tono sommesso, quasi sbrigativo, ci appare la valutazione di L. Cicognara nel
celeberrimo Catalogo ragionato impresso a Pisa nel 1821 [6]: non mancano
notizie minute, come al solito precise e stimolanti, ma – quando si va al
dunque – ci si accorge che i manoscritti del Volpato meritano attenzione
soprattutto per il debito contratto dal Verci e per l’interesse che seppero
riscuotere nell’Algarotti. Una ventina d’anni dopo, quando tradusse e commentò
il trattato di Goethe Zur Farbenlehre dandogli il titolo Goethe’s Theory of Colours [7], Charles L. Eastlake trovò modo di citare dignitosamente l’opera
principale, allora e anche ora inedita, del Volpato (ossia La Verità
pittoresca svelata ai dilettanti [8]) e venne di nuovo a sottolineare
l’influsso palese sulla compilazione del Verci, al quale aveva fornito lo
schema o, se più piace, l’intelaiatura (groundwork) di alcune parti
essenziali. Nulla di nuovo, per la verità, e di quest’ultimo richiamo al
Volpato non vi sarebbe forse stata alcuna necessità di parlare, se la stessa
Merrifield non avesse avvertito il bisogno di farvi cenno (pp. 721 sg.). E
questa circostanza, unita all’altra largamente risaputa del notevole ascendente
che la vastissima cultura e le non comuni capacità organizzative dell’Eastlake
ebbero sull’animo e sulle scelte della Merrifield, inducono a supporre che la
studiosa di Brighton abbia deciso di interessarsi del Volpato e si sia recata a
Bassano su consiglio o suggerimento, se non addirittura per invito esplicito di
colui che, di lì a poco, sarebbe divenuto per diretto interessamento di Peel il primo Direttore della National Gallery di Londra. Pur sapendo di muovermi su un
piano che non può andare oltre i limiti di una ragionevole formulazione di
ipotesi, mi sembra nondimeno logico supporre che la Merrifield sia giunta a
Bassano con l’intento di esaminare il manoscritto della “Verità pittoresca”
(l’opera apprezzata da Eastlake) per poi ritagliarne, così com’era accaduto in
altre recensioni, i capitoli e le sezioni meglio conformi di altre parti alle
caratteristiche della sua ricerca. Ed è altresì ragionevole pensare che, solo
dopo l’arrivo a Bassano, il primo orientamento sia stato superato. Esaminati i
manoscritti della Biblioteca civica, la studiosa si orientò a favore del
trattatello che poi pubblicò, trovandolo più efficace della “Verità pittoresca”
e contenuto per giunta in proporzioni tali da poterne garantire la riproduzione
integrale.
Gian Battista Volpato. La Verità pittoresca svelata ai dilettanti http://www.europeana.eu/portal/record/2023813/Generale_ricerca_AnteprimaManoscritto_html_codiceMan_38894.html |
Sia nell’opera maggiore sia nel trattatello
preferito dalla Merrifield il Volpato era ricorso allo schema del dialogo. La Verità pittoresca si presenta come un colloquio tra Ottavio – un personaggio
che, secondo Pallucchini [9] andrebbe identificato con lo stesso autore – ed un
altro pittore chiamato Florindo. Nell’operetta utilizzata dalla Merrifield il
dialogo non coinvolge più dei pittori, ma dei loro assistenti o aiuti di
bottega. Il più anziano dei due assistenti fornisce indicazioni e svela
“segreti” sul modo migliore per svolgere il loro lavoro ad un ragazzo alle
prime armi che si chiama Silvio e che fa presente d’essere al servizio di Florindo.
Se si ritorna indietro di appena qualche rigo, ci si accorge che “padrone” di
Silvio è, per l’esattezza, uno dei due protagonisti della Verità pittoresca.
Per la verità, nel testo della Merrifield anziché indicare il signor Florindo,
Silvio nomina un certo signor Floriani, ma una versione compiuta a poco tempo di
distanza e della quale dovremo presto occuparci [n.d.r. si veda oltre, l’edizione Baseggio] ci fa sapere che la persona alla quale Silvio si riferisce
è inequivocabilmente Florindo e che il nome Floriani è dovuto a un errore di
lettura spiegabile con due circostanze: in primo luogo con la cattiva grafia
del testo (vedi p. 722) e con la conseguente difficoltà, per non dire
problematicità di ricostruire il dettato; quindi con la tendenza della studiosa
inglese, ormai impegnata in molti compiti, a trasmettere alcune incombenze ad
uno od entrambi i figli che l’avevano accompagnata nel viaggio in Italia e che,
meno preparati di lei, non erano sempre capaci di rimuovere con la stessa
efficacia i diversi dubbi interpretativi e di evitare qualche uscita
palesemente ingenua. [10]
Gian Battista Volpato, Madonna della Cintura, Montegaldella (Vicenza) |
Il ripristino del nome effettivo “del padrone” di
Silvio (Florindo al posto di Floriani) non è, come potrebbe apparire a prima
vista, un semplice puntiglio, ma consente di ricavare un utile elemento per la
datazione del breve manoscritto che è privo, per quel che ne so, di qualsiasi
indicazione sull’anno in cui venne steso. La Merrifield fa giustamente notare
che la stesura dev’essere necessariamente posteriore al 1670, dal momento che
nel testo si fa menzione di un saggio di Francesco Lana impresso a Brescia in
quell’anno [11]. Dopo aver individuato questo punto fermo, la Merrifield
aggiunge che a suo avviso la data dovrebbe però essere di vari anni posteriore
al 1670; e anche qui va detto che ha saputo veder chiaro, anche se le è mancata
– per quell’errore di trascrizione – la possibilità di sostenere il suo punto
di vista. Se uno degli interlocutori è allievo di quel Florindo che è uno dei
due dialoganti della Verità pittoresca, appare logico dedurre che il lavoro
incluso nella pubblicazione della Merrifield sia successivo alla Verità
pittoresca e ne venga a costituire, in un certo senso, la logica prosecuzione.
Accantonati i grandi problemi su cui hanno discusso i pittori, i loro aiutanti
o garzoni si occupano ora delle ordinarie faccende di lavoro, prendendosi solo
di rado la libertà di qualche debordamento. Orbene, siccome vi è larga
concordanza nel sostenere che la Verità pittoresca sia stata approntata per
la stampa (peraltro mai avvenuta) non prima del 1685, se ne ricava che il
trattatello su cui ci stiamo soffermando deve essere molto successivo a quel
1670 in cui vide la luce l’opera del Lana e collocarsi verosimilmente attorno
al 1690. Con questo aggiornamento la tesi di fondo sostenuta
dalla Merrifield diventa ancora più credibile: “I am of opinion that the
notices to this MS. respecting painting in oil, are to be considered as applying
to paintings of the Venetian school at the conclusion of the seventeenth
century”. [12]
Nella nota preliminare da lei redatta la Merrifield
ricorda diverse istruzioni e segreti di bottega che il collega più esperto
fornisce al giovane e sprovveduto Silvio. Qui basta ricordare che il dialogo
verte sul modo migliore per svolgere vari compiti che, non comportando
particolari doti di fantasia e d’invenzione, venivano solitamente affidati a
personale di bottega. Si parla, così, della preparazione delle tele e, con
particolare insistenza, dei procedimenti più raccomandabili per la preparazione
dei colori. L’artista al quale si guarda con grande ammirazione è, come
naturale, il più rinomato pittore del luogo, cioè Jacopo da Ponte detto il Bassano. E, di tanto in tanto, si fa riferimento a qualche scrittore o
trattatista che si è interessato anche degli aspetti più umili del mestiere. Ci
capita così di trovare quel Lana citato poca fa per via della data in cui
compose il suo saggio e, in altra parte del manoscritto, due autori assai più
noti del secolo precedente: l’Armenini [13] e il Borghini [14]. Ai dialoganti
succede talvolta di uscir fuor di tema per parlare amabilmente di buon vino,
per scommettere su chi pagherà il prossimo conto e per dedicare le libagioni
ora ai rispettivi “padroni” ora al santo patrono. Un dialogo, tutto
considerato, abbastanza piacevole, meno denso di notizie e di valutazioni
rispetto ad altri manoscritti d’età moderna scelti dalla Merrifield, ma di
facile e di rapida lettura. Verso la fine, prima ovviamente delle prevedibili
libagioni di congedo, il dialogo aumenta improvvisamente di tono: mosso da uno
sdegno che sembra sincero e che appare comunque ben motivato, il più anziano
dei due personaggi lancia dei fulmini contro quegli “ignoranti” che andavano
incautamente compiendo opere di ripulitura e di restauro, guastando o rimovendo
gli “ultimi ritochi che sono la perfezione de l’opera”. E prosegue: “ho veduto
anco lavar quadri in tavola e così in tela, che dopo lavati si sono scorzati,
perché il gesso di sotto risente quell’umido e si rileva; e perciò è grande
pazzia lavar quadri buoni” (p. 751). Egualmente riprovevoli sono certi
interventi ad olio, com’è provato dal deterioramento della figura d’un santo in
una grande tela del Tiziano conservata in una chiesa di Venezia: unta “tante
volte da’ sacrilegi e sgraziati” pennellatori e copisti, quella figura si è
deteriorata e annerita a tal punto che “non si vede più che facia egli abia”. [15]
La controprova dei danni inferti all’immagine del santo è fornita da quegli
angeli, dipinti nella stessa tela, che, “essendo alti [e] lontani da simili
influsi [n.d.r. sic] [si] sono conservati bellissimi” (pp. 751 e 753). Si
colgono qui i primi consapevoli atteggiamenti critici che porteranno a fissare
varie direttive per la preservazione delle opere d’arte, almeno di quelle in
proprietà di amministrazioni pubbliche e di enti religiosi.
L'edizione 'pirata' di Bassano del Grappa
A costo di attribuire al trattatello del Volpato un
rilievo maggiore rispetto a quello che merita, non mi sembra che si possa
bruscamente interrompere queste annotazioni e ritengo che occorra invece
soffermarsi su un paio di altre questioni, in particolare sulla pubblicazione –
sicuramente non concordata con la studiosa – dello stesso scritto presso un editore
di Bassano.
E’ difficile ricostruire l’intero decorso dei
fatti, ma almeno su alcuni punti non rimangono molte incertezze. Quando si recò
a Bassano, la Merrifield vi trovò una buona accoglienza. La collaborazione fu
senza dubbio più che soddisfacente. Già nel primo volume dell’opera, quando
avvertì il dovere di ringraziare coloro che l’avevano aiutata, la Merrifield
volle includere nel lungo elenco (I, pag. XI n.) il “Signor Giambattista
Baseggio, President of the Athenaeum of Bassano”. Il nome del Baseggio ritorna
nella sezione dedicata al Volpato: la Merrifield ci avverte che il manoscritto
le era stato gentilmente prestato (ci fu, insomma, un prestito e non una mera
autorizzazione di lettura) dal Baseggio che le accordò inoltre il permesso di
ricopiarlo. Poiché il successivo comportamento del Baseggio appare a dir poco
sorprendente, vale la pena di rifarsi direttamente al testo inglese di cui
prendo la libertà di sottolineare qualche parola: “the original… was kindly
lent to me by Sig. Baseggio, the librarian and president of the Athenaeum
of Bassano, with a permission to copy it…” (pag. 722). Benevolenza,
quindi, gentilezza e comprensione delle non poche difficoltà da superare.
Eppure, poco tempo dopo la restituzione del manoscritto da parte della Merrifield,
il Baseggio cambiò atteggiamento e prese anche lui la decisione di studiare il
manoscritto, di trascriverlo, di prepararlo a dovere e di stamparlo a tambur
battente, prima ancora che la “scrittrice di Brighton” (così la Merrifield
veniva chiamata in qualche ambiente culturale italiano) potesse dare il via
alla pubblicazione di questo e di altri manoscritti, delle rispettive
traduzioni in inglese e delle note di commento. Da sostenitore della Merrifield
il Baseggio si trasformò, pur senza clamori, in un suo concorrente e
antagonista. Un aspetto dev’esser tenuto fermo: il Baseggio compì una
trascrizione autonoma rispetto a quella della Merrifield e non poté di certo
utilizzare il commento che la curatrice scrisse solo in vista della
pubblicazione della sua vasta raccolta di manoscritti. Il Baseggio non plagiò
nulla: non ne aveva l’animo, né tanto meno l’abitudine. Uno scrittore del
luogo, noto e ascoltato nella sua zona, ci parla di lui con viva considerazione
ricordando l’impegno posto sul riordinamento della biblioteca e nel rifacimento
del catalogo: di famiglia agiata, aveva creduto opportuno devolvere l’intero
suo stipendio per l’acquisto di nuovi libri da parte della biblioteca da lui
diretta [16]. Sfogliando il “Pagliaini” [17] e quel repertorio che passa sotto
il nome di CLIO [18] (vol. I, p. 355) si scopre che il Baseggio aveva dato e
continuò a dare alle stampe scritti di piccole dimensioni che, fatta eccezione
per una memoria sul Guercino, risultano sempre dedicati a temi di interesse
strettamente locali. Ci troviamo insomma di fronte ad un personaggio – starei
per dire ad un animatore culturale – che verrebbe fatto di ricordare con
accenti assai positivi per la sua generosità e apertura d’animo, se a guastare
il quadro complessivo non rimanesse almeno una macchia, quella cioè d’aver
carpito un’idea alla signora giunta coi figli dalla lontana casa di Brighton e
di averle sottratto, con scarsa galanteria e con una scelta dei tempi di un
consumato navigatore, il piacere di pubblicare per prima e in tutta
tranquillità un manoscritto che, tutto considerato, si inseriva coerentemente e
senza forzature in una raccolta di valore inconsueto. Redatta senza inutili
ritardi, la versione del Baseggio era già pronta nel 1847. Venne pubblicata
entro l’anno con l’aiuto dei fabbricieri della chiesa parrocchiale di Bassano e
dedicata, come una stima sincera e le regole del buon vivere raccomandano, a
mons. Zaccaria Bricato, arcivescovo di Udine [19]. L’iniziativa non passò del
tutto inosservata e anche oggi (si veda, ad esempio la voce “Volpato Giovan
Battista” nel vol. 32 di The Dictionary of Art dell’editore Grove [20]) si
tende a dimenticare l’edizione curata dalla Merrifield per dare risalto al
testo presentato dal Baseggio.
Immagine di Giambatista Volpato tratta dall'edizione Baseggio |
Non occorre un particolare impegno critico per
rendersi conto dei divari che si frappongono tra la versione del Baseggio e
quella della Merrifield. La Merrifield vede nel Volpato un autore in grado di
fornire materiale utile e di prima mano per il suo studio storico sulle
tecniche praticate da artisti e da artigiani di alto livello: si è già
avvertito che, ad avviso della studiosa inglese, i procedimenti descritti nel
trattatello sarebbero in grado di segnalare alcuni accorgimenti messi a punto
nelle botteghe dei pittori veneziani sul finire del Seicento. Il Baseggio si
muove invece su un piano che è tipico delle ricerche d’interesse locale e
s’interessa del Volpato non per le sue tele, di cui non riesce a cogliere alcun
pregio, e neppure per i meriti intrinseci di questo manoscritto che definisce
“leggero e capace di far intendere, nel migliore dei casi,” la ragione
dell’essere i suoi quadri anneriti a tal punto da rendere impossibile la
decifrazione degli oggetti che vi sono rappresentati. Insomma, il Volpato è un
pittore di terza o di quarta fila e l’unica cosa rimarchevole che poteva fare
era quella di indicare i modi che rendono inaccettabile la sua produzione. [21]
Eppure, nonostante le sue mende, il Volpato resta egualmente un personaggio
noto e discusso di Bassano; e questa caratteristica è per il Baseggio ragione
sufficiente per parlare di lui e per proporre la stampa del lavoretto inedito.
Inserita nell’intero processo storico intravvisto dalla Merrifield, la figura
del Volpato prende risalto e riceve piena giustificazione, mentre qui – nella
ricostruzione che ne dà il Baseggio – si scolora e si disfa: c’imbattiamo in un
personaggio di maniera senza mordente né problemi.
Diverso è anche il linguaggio dei protagonisti, che
resta libero e scapigliato nelle pagine della Merrifield e che diventa elegante,
di maniera e rispettoso delle buone regole grammaticali nell’altra
pubblicazione. Anche se la Merrifield (o il figlio cui probabilmente lasciò
l’incarico della trascrizione) commise, per i motivi che si sono detti e che
non è certo qui il caso di ripetere, alcuni errori di decifrazione, i due
protagonisti del dialogo continuano a muoversi spigliatamente nella loro
lingua, usando i termini tipici del loro mestiere e non poche espressioni
colorite. Per la Merrifield, esperta di filologia, questa è una scelta precisa
e irrinunciabile: se il lettore, disturbato da forme gergali, non può
utilizzare le sue conoscenze d’italiano, può avvalersi della traduzione inglese
posta a fronte, nelle pagine pari. Per Baseggio, invece, le forme dialettali sono
una bestemmia, una bruttezza da evitare, come dice a chiare note nella
prefazione (pag. 11): persino la Verità pittoresca, il testo migliore del
Volpato, per “comparire senza vergogna anche ai nostri giorni” andrebbe voltato
in italiano, perché italiano non è, tanto è pieno di venezianismi e, per
giunta, bisognerebbe pensare a raddrizzarne “generalmente la forma”. Ed eccolo
quindi all’opera con abito professionale. Salvo poche eccezioni, le consonanti semplici,
abituali tra i veneti, diventano doppie: cola, pitore, biaca,
asciuto, seco, modelo, penelo, azuro, gialo,
bola, trato, peza e un’infinità di altre voci care al
Volpato e rispettate dalla Merrifield si italianizzano nel Baseggio e diventano
colla, pittore, biacca, asciutto, secco, modello,
pennello, azzurro, giallo, bolla, tratto e pezza.
Scompaiono non pochi accenti, mentre altri spuntano su parole che ne erano
prive nel testo originale. I periodi vengono spezzati; compare in più casi il
congiuntivo in omaggio alle regole comode, ma fastidiose in questo contesto
della consecutio temporum; cambiano le preposizioni e si compiono
interpolazioni, rovesciamenti di periodi e ampi rifacimenti che la Merrifield
avrebbe ritenuto del tutto arbitrari. Anche i nomi propri, che nel dialogo
scritto da Volpato si erano piegati al modo di esprimersi dei veneti, ritornano
ripuliti nella loro vecchia accezione nazionale, come appunto quel ‘Rafael
Borgini’ che la Merrifield mantiene invariato, anche se seguito da
un’appropriata annotazione di conferma, e che il direttore della Biblioteca
civica di Bassano restaura prontamente e traduce in Raffaello Borghini. Anche
il titolo dell’opera cambia: viene respinta la frase pensata dal Volpato (ossia
quel Modo da tener nel dipinger che non è affatto un’espressione di fantasia
coniata dalla Merrifield e che, non a caso, ritrovo nel vol. LV degli “Inventari
dei manoscritti etc…” [22]) e al suo posto viene collocata un’espressione più
ampia e quasi aulica, vale a dire Del preparare tele, colori, ed altro
spettante alla pittura. Ed è bene mettere in chiaro che le prime parole sono
state ricavate da un’espressione che compare nella prima domanda rivolta da
Silvio al suo interlocutore, mentre le successive ricalcano un’espressione
ricorrente in vari titoli sfoderati dai trattatisti del Seicento. Ma forse in
questo caso – mi riferisco allo stravolgimento del titolo – non si tratta di
una variazione dovuta esclusivamente ad esigenze di una malintesa dignità
letteraria: non si può infatti escludere del tutto che si siano fatti avvertire
anche motivi di diversa natura ed origine, come un certo pudore a rivelare,
persino nelle parole della copertina la relazione con il manoscritto che la
Merrifield avrebbe pubblicato di lì a poco. Si sperava, cioè, che nella lontana
Inghilterra non ci si rendesse conto che si trattava dello stesso testo. Si
tratta ovviamente di semplici ipotesi, ma, pur sapendo che ci si muove su un
terreno da percorrere con prudenza, non mi sento d’escludere che queste o altre
consimili motivazioni abbiamo potuto assumere un ruolo di qualche peso. [23]
Che il comportamento del Baseggio sia stato poco
limpido e lineare e abbia finito col porsi in netta contrapposizione con
l’iniziale, larga disponibilità nei confronti della Merrifield mi sembra faccenda
difficilmente contestabile, ma questa e altre riserve nei confronti del
direttore della biblioteca bassanese non autorizzano affatto a sostenere che
egli fosse un ricercatore del tutto sprovveduto e all’oscuro di quanto era
accaduto negli ambienti artistici nei quali si era inserito il Volpato. Almeno
su un punto il confronto tra la pubblicazione avvenuta a Bassano e il capitolo
che la Merrifield dedicò al Volpato si risolve a vantaggio del Baseggio. E ciò
avviene per una migliore conoscenza della lingua italiana e, in particolare,
delle espressioni dialettali venete presenti in gran numero nel manoscritto,
per una più paziente attenzione per i passi oscuri del testo e, inoltre, per un
più accurato accostamento del Volpato ad altre figure del suo periodo storico e
–anche questo non va trascurato – per i riflessi di quell’attività erudita che
costituiva il campo di studi preferito dal responsabile della biblioteca di
Bassano. I confronti tornano utili. Alcuni errori di lettura commessi dalla
Merrifield (o da uno dei suoi figli) ed evitati dal Baseggio hanno talvolta una
portata di poco o nessun conto, e ciò accade quando vengono ad interessare
discorsi di scarso spessore tecnico o si localizzano addirittura su mere frasi
di contorno, come i frequenti reciproci inviti ad alzare il gomito: Il “vino
non è punto inferiore al capone” (si legge a p. 727 della pubblicazione
londinese, in cui forse s’immagina che il colloquio sia avvenuto durante un
lauto banchetto): il “vino non è punto inferiore all’amore” vien detto, con
un’usata similitudine che bene s’inserisce nel successivo svolgimento del
discorso, a pag. 18 dell’opuscolo stampato a Bassano. Nel primo testo, a
proposito di una scommessa (v. p. 749) si mormora che “goderemo insieme il
mercato” (si pensa cioè che il debito derivante dalla perdita delle scommessa
verrà onorato con acquisti al mercato), mentre nella trascrizione dello stesso
manoscritto, curata dal Baseggio, il mercato scompare e viene appropriatamente
sostituito con una varietà pregiata di vino: “goderemo insieme il Moscato”. La
composizione del dialogo non viene compromessa neppure in altre situazioni con
minori implicazioni bacchiche, come quando si parla di un quadro che,
staccatosi all’improvviso dalla parete, si sarebbe guastato cadendo su uno
“scrigno” (ancora a p. 749) che, per la verità, mal si adatta ad una bottega
di pittore: migliore appare l’interpretazione del Baseggio (v. p. 36 del suo
opuscolo), che legge “scagno”, una parola ormai desueta che sta per “scanno” o,
più semplicemente, per “sedia”. Qualche volta però le inesattezze di lettura
non producono variazioni del tutto innocenti, senza alcun peso sostanziale. Si
è già detto di quel Florindo che, divenuto Floriani, impedisce di cogliere
immediatamente i nessi tra un personaggio di questo scritto e un altro che
compare nella Verità pittoresca. E, se si vuole avere sotto mano un altro
esempio, si può richiamare l’errata citazione di un pittore, che provoca non
poco disorientamento a chi si affida all’edizione londinese. Secondo
l’interpretazione fornita nella raccolta della Merrifield, il dialogo
conterebbe (sempre nella sfortunata p. 749, che evidentemente risente delle
critiche condizioni di un largo brano del manoscritto) un richiamo al Canziani,
pittore di scarsissima notorietà [24] e, ciò che più guasta, troppo giovane sul
finire del ‘600 per non far sorgere qualche dubbio o ripensamento sulla
datazione, per altra via ragionevole, dell’opera. Bisognerebbe, a rigore, non
solo avvicinarsi – come qui si è proposto – alla fine del Seicento, ma si
avvertirebbe addirittura la necessità di debordare nel secolo successivo, con
il rischio di porsi oltre il 1706, l’anno in cui Volpato morì. Ma poi ogni cosa
può presto acquietarsi, dato che il Baseggio legge, al posto dell’improponibile
Canziani, il nome del Carpioni [25], ossia di un artista che si colloca vari
decenni addietro e che qui compare a pieno titolo per aver modellato uno stile
al quale si è poi attenuto lo stesso Volpato.
Non nascondo che, giunto a questo punto, non mi dispiacerebbe
affatto sapere se la Merrifield sia mai venuta a conoscenza della pubblicazione
del Baseggio e, in caso affermativo, quando ciò sarebbe avvenuto. Per quanto ne
so, nessuno dei curatori (né la Merrifield né il Baseggio) ha mai
esplicitamente toccato l’argomento ma, dopo averci un poco riflettuto, mi
sembra che due conclusioni o, se si vuole, due ragionevoli congetture non siano
affatto fuor di luogo. E’ innanzi tutto assai improbabile che la Merrifield sia
entrata in possesso del fascicolo del Baseggio molto tempo prima che il suo
lavoro fosse consegnato all’editore londinese John Murray. Se ciò fosse
successo, la Merrifield avrebbe avuto il tempo per modificare il suo testo e
per rettificare gli errori più rilevanti deducibili da un confronto con la
stesura effettuata dal Baseggio. A questo primo rilievo se ne può aggiungere un
altro. Se è improbabile che la Merrifield abbia conosciuto tempestivamente
l’iniziativa del Baseggio, rimane tuttavia qualche indizio per supporre che,
proprio a ridosso della stampa, una copia del fascicolo impresso a Bassano sia
pervenuto nelle sue mani. Altrimenti non si riuscirebbe a capire qualche
circostanza, come la stampa di un estratto del secondo volume della Merrifield
dedicato esclusivamente alle pagine in cui compare il trattatello del Volpato e
la diffusione di tale estratto non già in Inghilterra, ma tra gli amici e
conoscenti italiani [26]. Si consideri che l’estratto non è segnalato nel
catalogo della British Library ove tutto o pressoché tutto il materiale edito
in Inghilterra viene raccolto e conservato, mentre compare con insolita
abbondanza nelle zone d’Italia percorse dalla Merrifield. A Bologna ne ho
scoperte senza molta fatica due copie: una presso l’Accademia di Belle Arti e
l’altra nella Biblioteca dell’Archiginnasio. E tutt’e due recano la dedica
autografa della studiosa. Sembra logico ritenere che questi estratti – ordinati
per l’operetta del Volpato e non già per altre e più significative parti della
raccolta – siano stati inoltrati ad amici e conoscenti italiani, che si poteva
presumere a conoscenza dell’edizione bassanese, per ribadire nei loro confronti
(e non già davanti a colleghi inglesi sicuramente ignari dell’intera vicenda)
quel diritto di priorità al quale poteva legittimamente aspirare. Il tutto,
comunque, in forma garbata, quasi in punta di piedi, con innegabile eleganza.
E siamo ormai giunti all’ultima questione. Tra i
repertori comunemente consultati da coloro che s’interessano di fonti di storia
dell’arte, soltanto il lavoro dello Schlosser segnala l’edizione del Volpato
curata dalla Merrifield (v. p. 621 sg.) [27], ma occorre immediatamente
avvertire che il richiamo effettuato dallo studioso austriaco contiene
un’indicazione che si traduce in un nuovo motivo di disorientamento. A suo
avviso, infatti, il Modo di tener nel dipinger non spetterebbe al pittore di
cui stiamo parlando, ma ad un incisore suo omonimo (o quasi omonimo), cioè a
quel Giovanni Volpato noto per vari lavori e, in particolare, per la
riproduzione degli affreschi che Raffaello eseguì nelle Stanze vaticane. Dalla
fine del ‘600 passeremmo quindi alla fine del ‘700 e lo scritto verrebbe a
ringiovanirsi di un secolo. [28]
Lo Schlosser è studioso troppo autorevole perché le
sue indicazioni possano essere dimenticate. Dopo aver compiuto il dovere di
citarne l’opinione, mi sembra tuttavia che vari elementi inducano ad attenersi
alla vecchia attribuzione. E questo per vari motivi che espongo velocemente.
Primo, perché lo Schlosser non fa seguire alla sua affermazione alcun argomento
che valga a convalidarla. Secondo, perché non mi risulta che la sua opinione
sia stata mai ripresa, neppure da coloro (e non sono pochissimi) che si sono
rifatti all’edizione di Bassano desunta dallo stesso manoscritto e quindi
coinvolta nel medesimo problema attributivo. Terzo, perché non vedo la ragione
per la quale l’incisore Volpato si sarebbe dovuto occupare di tele, di colori e
di altro materiale e di procedimenti che sono tipici del lavoro di un pittore e
non già di coloro che svolgono una professione che comporta la conoscenza di
altre caratteristiche tecniche. Quarto, perché non saprei spiegarmi come mai
uno dei due dialoganti, spostati dallo Schlosser al termine del Settecento,
dovrebbe avvertire il bisogno di far riferimento a quel Florindo che compare un
secolo prima nella Verità pittoresca che tutti – anche lo studioso austriaco
– attribuiscono al Volpato vissuto nel Seicento. Quinto, perché il citato
Inventario dei manoscritti posseduti dalle Biblioteche italiane [29] ritiene
che il trattatello sia scritto con grafia seicentesca e lo attribuisce, senza
alcun tentennamento, al primo dei due Volpato. Sesto, perché lo stesso
inventario giudica lo scritto di cui stiamo parlando autografo (e non copiato
da altra mano dal testo originale, ossia apografo, com’è il caso della Verità
pittoresca) e perché mi parrebbe strano – per non dire inverosimile – che il
compilatore del repertorio, convinto sostenitore dell’autografia, non abbia
compiuto un confronto con scritture di mano del primo dei due Volpato,
anch’esse conservate in uno degli scaffali vicini, nella stessa biblioteca di
Bassano. Penso, ad esempio, alla lettera che il pittore Giovan Battista Volpato
(e non il pressoché omonimo incisore) scrisse il 20 aprile 1689 a Giovanni
Lanzarin e che è possibile reperire, appunto a Bassano, sotto la segnatura
9.119.XXX.11.
NOTE
[1] Albano Sorbelli (a cura di), Inventari dei
manoscritti delle biblioteche d’Italia. Vol LV: Bassano del Grappa.
Firenze, L.S. Olschki, 1934. Si coglie l’occasione per segnalare che tutti i
riferimenti temporali presenti in questo manoscritto sono stati mantenuti
inalterati. Così, ad esempio, quando si legge che la pubblicazione degli
inventari su Bassano è di una sessantina d’anni prima si deve tener conto che
Luciano Mazzaferro scriveva a fine anni ’90. Le citazioni al secolo precedente,
allo stesso modo, sono riferite al 1800.
[2] Giambatista Verci, Notizie intorno alla vita
e alle opere de’ Pittori, Scultori e Intagliatori della Città di Bassano, Venezia,
Giovanni Gatti, 1775.
[3] Luigi Lanzi, Storia pittorica della Italia,
Vol. II. A cura di Martino Capucci, Firenze, Sansoni, 1970, pag. 147
[4] Catalogo dei quadri, dei disegni e dei libri
che trattano dell’arte del disegno della Galleria del fu sig. conte Algarotti
in Venezia. Non compare anno e luogo di pubblicazione. Tuttavia il Getty
Research Institute data l’opera al 1776 e ne attribuisce la curatela a Giovanni
Antonio Selva e Pietro Edwards. Il riferimento a Volpato è contenuto a p.
LXXIX. https://archive.org/details/catalogodeiquadr00selv
[5] Bartolommeo (sic) Gamba, De’ Bassanesi
illustri, Bassano, Stamperia Remondiniana, 1807.
[6] Leopoldo Cicognara, Catalogo ragionato dei
libri d’arte e d’antichità posseduti dal Conte Cicognara, Arnaldo Forni
editore, 1998 (reprint edizione 1821).
[7]
Johann Wolfgang Goethe, Theory of Colours, tradotta ed annotata da
Charles Lock Eastlake, Londra, J. Murray, 1840.
[8] Gian Battista Volpato, La Verità pittoresca
svelata ai dilettanti, Biblioteca comunale di Treviso Ms. n. 398.
[9] Rodolfo Pallucchini, La pittura veneziana
del Seicento, vol. I, Venezia, Alfieri editore, p. 336.
[10]
Charles Merrifield (1827-1884) e Frederick Merrifield (1831-1924). Stupisce davvero la giovane età
dei figli. Eppure va detto che già in The Art of Fresco Painting in the
Middle Ages and the Renaissance (1846) la Merrifield si era servita dei
figli per tradurre opera in altre lingue, fermo restando che si trattava di
compilare le prime bozze, mentre la revisione era della madre. Charles aveva
tradotto dall’italiano, Frederick dallo spagnolo. Si veda The Art of Fresco
Painting, Introduzione, p. IX.
[11] Francesco Lana, Prodromo overo Saggio di
alcune inventioni nuove premesso all’Arte maestra, Brescia, Rizzardi, 1670.
In edizione moderna si veda Francesco Lana, Prodromo all’arte maestra, a
cura di Andrea Battistini, Milano, Longanesi, 1977.
[12] Original
Treatises.., p. 722.
[13] Giovan Battista Armenini, De’ veri precetti
della pittura (Ravenna, 1586). Edizione moderna a cura di Marina Gorreri,
Torino, Einaudi, 1988.
[14] Raffaello Borghini, Il Riposo (Firenze,
1584). Edizione moderna a cura di Marco Rosci. Milano, Edizioni Labor, 1967.
[15] Il dipinto di cui si parla è il “San Pietro
Martire” di Venezia, probabilmente da identificare con la pala dipinta da
Tiziano nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia. L’opera è andata
distrutta per un incendio nel 1867. Ne è esposta una copia seicentesca di Johann
Carl Loth.
[16] G. J. Ferrazzi, Di Bassano e dei Bassanesi
illustri, Bassano, Tipografia Baseggio, 1847, p. 109.
[17] Attilio Pagliani, Catalogo generale della
libreria italiana dal 1847 a tutto il 1899. Milano, Associazione
tipografico-libraria italiana, 1901
[18] CLIO Catalogo dei Libri Italiani
dell’Ottocento (1801-1900), 19 voll. Editrice Bibliografica.
[19] Giambatista Baseggio (a cura di) Del
preparare tele, colori, od altro, spettante alla pittura. Dialogo inedito
scritto da Giambatista Volpato pittore bassanese, Bassano, Tipografia
Baseggio, 1847. Consultabile online
http://books.google.it/books?id=AslLAAAAcAAJ&pg=PA2&hl=it&source=gbs_toc_r&cad=4#v=onepage&q&f=false
[20] The
Grove Dictionary of Art, by Jane Turner. 34 voll., 1996.
[21] Si cita dall’edizione Baseggio: “Se io
intendessi, favellando di Giambatista Volpato, di ricordare uomo che tenesse
onorato posto nella storia della Pittura in Italia, caderei in grandissimo
errore: imperciocchè non solo non ha merito per esservi rammemorato siccome
pittore che abbia fatto camminare l’arte, ma né manco siccome colui che pure
avendola tenuta stazionaria, abbia condotto tali opere da stare non vergognose
a una linea con quelle dei contemporanei” (p. 7). In realtà il Volpato viene
ricordato soprattutto – e Baseggio non si astiene dal farlo – per un episodio
assolutamente antipatico, ovvero per la sottrazione di due pale d’altare del
Bassano da due chiese del contado. Gli originali furono sostituiti con copie.
Scoperto e processato nel 1685, Volpato fu bandito da Feltre per dieci anni.
[22] Albano Sorbelli (a cura di), Inventari dei
manoscritti… cit.
[23] Se le intenzioni di Baseggio erano quelle di
confondere le acque per non far capire che il suo Del preparare tele,
colori, od altro, spettante alla pittura era la stesso manoscritto del Modo
da tener nel dipinger della Merrifield va detto che ci riuscì bene. A noi
risulta che l’abbinamento delle due opere sia, di fatto, passato inosservato
sino ad oggi, con un’unica eccezione, ovvero Les traditions techniques de la
peinture médiévale di Guy Loumyer, stampato nel 1914 (p. 202) che
correttamente segnala che si tratta di un unico trattato.
[24] Giovan Battista Canziani, pittore veronese.
Secondo l’Abecedario Pittorico di padre Pellegrino Orlandi ‘vivea circa gli
anni 1712’.
[25] Giulio Carpioni (Venezia, 1613 – Vicenza,
1678).
[26] Sono stato sia presso la Biblioteca dell’Archiginnasio sia presso l’Accademia
di Belle Arti a Bologna per rintracciare le due copie di cui parlava mio padre.
In Archiginnasio, l’opuscolo è classificato sotto “Volpato” come autore ed ha
collocazione “18 Belle Arti. Insegnamento teorico-pratico Cap. I.H.16”.
Tecnicamente non si tratta di un estratto, anche se (ho controllato) il
contenuto è assolutamente identico rispetto a quanto comparso negli Original
Treatises. Ma la numerazione delle pagine va da 1 a 37, invece che da 719 a
755, e l’editore è diverso. Si tratta di William Clowes
and Sons, Stamford [sic] Street, Londra. In cima al frontespizio compare la dedica: “Sig.
Gaetano Giordini with Mrs. Merrifield’s comp.”. Ritengo che si tratti di dedica
autografa posto che la Merrifield cade nello stesso errore in cui è incorsa nei
ringraziamenti posti all’inizio degli Original Treatises (p. XIn.) e
storpia in Giordini il cognome di Gaetano Giordani, all’epoca direttore della
Pinacoteca. Come il fascicolo sia arrivato in Archiginnasio è presto detto:
alla morte del Giordani la Biblioteca acquistò tutto il suo patrimonio
librario, compresi gli opuscoli. Non compare data. Non è certo, quindi, se si
tratti di un’anticipazione, dettata dalla fretta di replicare alla
pubblicazione di Baseggio senza aspettare che tutti gli Original Treatises
fossero pronti o se invece di ristampa successiva all’uscita del 1849.
La
visita in Accademia è stata meno fruttuosa. Per problemi di carattere logistico
il fondo antico non è fruibile (i libri sono stati spostati in collocazioni
diverse rispetto a quelle del catalogo). E’ certo comunque che una copia c’è,
perché ho trovato la scheda di catalogazione, questa volta sotto il nome
Merrifield. E’ presumibile che si tratti di copia inviata a Masini, all’epoca
segretario dell’Accademia [G.M.]
[27] Julius Schlosser Magnino, La letteratura
artistica. Consultata nella 3° edizione. La Nuova Italia, 1967. La princeps,
in tedesco, è del 1924; la prima edizione italiana del 1935.
[28] Giovanni Volpato (Bassano del Grappa, 1735 –
Roma, 1803).
[22] Albano Sorbelli (a cura di), Inventari dei
manoscritti… cit.
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