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martedì 3 giugno 2014

Luciano Mazzaferro. Gli 'Original Treatises' di Mary Philadelphia Merrifield: i manoscritti Le Bègue


English Version

Luciano Mazzaferro
Gli Original Treatises di Mary Philadelphia Merrifield
Parte Prima: I manoscritti Le Bègue




AVVERTENZA:

Questo post è stato pubblicato nel 2014. Dopo tale data sono state scoperte a Brighton le lettere che Mary Philadelphia Merrifield inviò a suo marito dall’Italia nel corso del viaggio che la ricercatrice condusse fra 1845 e 1846 alla ricerca di manoscritti che testimoniassero le tecniche artistiche degli antichi maestri italiani. Molte delle informazioni contenute nel presente post risultano essere pertanto superate, incomplete e, a volte, non corrette. Ho pubblicato le lettere nel 2018 in La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield: Lettere dall’Italia (1845-1846), Milano, Officina Libraria, 2018, isbn 88-99765-70-5. Invito pertanto gli interessati a far riferimento alla consultazione di tale volume. Ho comunque deciso di mantenere visibili i vecchi post per dare un’idea di quelle che erano le informazioni disponibili prima della scoperta delle lettere e di come le ricerche su Mary P. Merrifield siano evolute negli ultimi anni.

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Nota di Giovanni e Francesco Mazzaferro:

Attorno al 1998, nostro padre, Luciano Mazzaferro, ha dedicato diversi mesi allo studio degli 'Original Treatises' pubblicati da Mary Philadelphia Merrifield nel 1849. Il risultato dei suoi studi è testimoniato da un manoscritto di una cinquantina di pagine che riproponiamo integralmente, suddiviso in quattro parti: innanzi tutto i manoscritti reperiti dalla Merrifield a Parigi (manoscritti Le Bègue), poi il manoscritto Volpato, quelli di Pietro e Giovanni Edwards e infine tutti i rimanenti. Le note al testo sono redazionali e compilate nel 2014, e tengono ovviamente conto di aggiornamenti sopraggiunti dal momento della compilazione ad oggi.

Questo saggio fa parte della serie dedicata alla vita e alle opere di Mary Philadelphia Merrifield. Per il primo rimandiamo a Giovanni Mazzaferro, Mary Philadelphia Merrifield, la Signora di Brighton che amava i colori.

Fig. 1) Lista dei testi contenuti all'interno del Manoscritto Le Bègue. Parte prima

Il lavoro della Merrifield, che è per sua natura un’antologia, si apre con un vasto scritto (il più esteso tra quelli che vengono presentati) che è anch’esso un’antologia: il MS. 6741 della Biblioteca Nazionale di Parigi [1]. La Merrifield e altri, prima e dopo di lei, l’hanno chiamato “Manuscripts of Jehan Le Bègue”, ed usarono, come si vede, il plurale (Manuscripts e non Manuscript) proprio per porre in risalto la confluenza di testi di epoche e provenienze diverse. Insomma, l’antologia della Merrifield inizia con un’altra e, naturalmente, più ridotta raccolta di testi. Si ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte ad una specie di scatola cinese e questa sensazione si accentua appena si scopre che due, dei tre scritti di Alcherio inclusi nel manoscritto parigino – vedi infra  –, sono chiaramente suddivisi in parti, ciascuna delle quali provenienti da una propria fonte. L’insieme dei lavori che fan parte del manoscritto conservato nella Biblioteca di Parigi è stato definito dalla Merrifield – come del resto, da qualche altro ricercatore prima e dopo di lei – “Manuscripts of Le Bègue”, perché furono ricopiati “with his own hand into one volume” appunto dal Le Bègue che, al momento del congedo, ha lasciato scritto (p. 321): “Compositus est liberi iste a magistro Johanne le Begue, Licentiato in Legibus, Greffario Generalium Magistrorum Monetae Regis Parisiis, anno Domini 1431, aetatis vero suae 63”. Veniamo così a sapere che Le Bègue, sessantatreenne nel 1431 e quindi nato nel 1368, era uomo di legge e cancelliere della zecca reale.


Fig. 2) Lista degli scritti contenuti nel Manoscritto Le Bègue. Parte seconda


Oggi, di Le Bègue “umanista e bibliofilo” si tende a parlare in tono sommesso; talvolta si finisce con il negargli i meriti, circoscritti se si vuole, ma non certo immaginari, che indubbiamente gli vanno attribuiti. E’, questo, un argomento non marginale di cui bisognerà parlare al momento opportuno. Per ora vale la pena di sottolineare che, qualunque sia il ruolo da riconoscere al Le Bègue, il manoscritto parigino costituisce un’opera d’interesse eccezionale. La raccolta fu considerata “notevolissima” dallo Schlosser che la riteneva “un vero tesoro di tecnica medievale” [2]. C. Garzya Romano ha voluto ricordare [3] che l’opera, pur concepita come “un manuale di lavoro”, si muove con un respiro assai più ampio delle consuete e non di rado striminzite raccolte di ricettari. Da parte sua la Merrifield evitò di formulare giudizi perentori sull’intero manoscritto ma lo considerò come uno strumento confacente e, persino, insostituibile per ricostruire il dettato di non poche opere nell’arco di più secoli, dall’alto Medioevo sino alle porte del Rinascimento. La Merrifield lo utilizzò come una ricca miniera e ne volle esaminare i non pochi filoni. Se osserviamo con attenzione i prospetti riportati nelle due tabelle riassuntive [n.d.r. cfr. figg. 1 e 2] ci accorgiamo che ella tradusse in inglese e commentò tutto il materiale del manoscritto, ad eccezione di un solo lavoro (il De Diversis Artibus di Teofilo).

Forse il modo migliore per segnalare gli scritti che la ricercatrice incluse nella sua pubblicazione è quello di riportarli in tre gruppi. Al primo è bene ricondurre le seguenti opere:


ERACLIUS, De Coloribus et artibus Romanorum

Da p. 166 a p. 293 [4]. Il testo, tradizionalmente attribuito ad Eraclio, è composto di tre libri: i primi due, sono in versi; il terzo (vedi infra Pseudo-Eraclio) in prosa. Merrifield intuì che soltanto i primi due costituivano l’opera originale di Eraclio e lo sostenne apertamente in contrasto con le valutazioni a lei precedenti: “the work consisted originally of the metrical parts only; and this supposition gains ground from a consideration of the difference of style observable between the first and second book and the third part and from the fact that the metrical parts contain frequent allusions to the arts of the Romans [n.d.r non va mai dimenticato che l’opera è dedicata ai colori e alle arti praticate dagli antichi Romani], which is not the case in the third book, with the exception, perhaps, of the extracts from Vitruvius and Isidore” (pag. 170). L’autore dei primi due libri, ossia Eraclio, sarebbe stato un italiano, “a native perhaps of some part of the Lombard dukedom of Benevento” che, a detta del Sismondi [5], avrebbe conservato “under independent princes” e, sotto l’influenza di Greci a Arabi, “a degree of civilization which in the earlier part of the middle ages was unexampled throughout the rest of Italy” (p. 171). L’opera si porrebbe tra l’VIII e il X secolo d.C.

Sulla datazione dell’opera (vedi note nel prospetto A) si è spesso discusso, ma sulla conclusione di considerare spurio il terzo libro non si è più seriamente dibattuto. Nel 1915 A. Pellizzari scrisse che alla Merrifield “non sfuggirono le sostanziali differenze, e di forma e di contenuto, le quali giustificavano il sospetto che la parte poetica costituisse da sola l’operetta originale di Eraclio, e che la parte prosastica, variamente ordinata ed estesa secondo i vari manoscritti, non fosse se non un’aggiunta… Il fatto che codesta parte manchi del tutto” in un codice, quello di Valenciennes, di cui la studiosa poco o nulla doveva sapere “conferisce ai sagaci ragionamenti della Merrifield il valore d’una geniale intuizione sostanzialmente esatta” [6]. Ed ecco il giudizio espresso da C. Garzya Romano nel suo recente lavoro pubblicato da Il Mulino [7], difforme in qualche particolare dalle parole del Pellizzari, ma pur sempre positivo. “Una svolta negli studi segnò… nel 1849 Mary P. Merrifield. A parte il merito di aver procurato un testo fondato su più ampia, anche se non esaustiva, base manoscritta e documentaria, alla studiosa spetta soprattutto quello di aver nettamente distinto la parte poetica dalla prosastica del trattato: originale la prima, parafrasata, rielaborata la seconda… Dalla Merrifield in poi il terzo libro è stato… considerato spurio, e giustamente, dalla unanimità degli studiosi; né avrebbe più senso tenere insieme le due opere” [8].

Il primo dei due libri attribuiti ad Eraclio è composto da 161 versi suddivisi tra un Prohemium e 13 paragrafi; il secondo da 53 versi ripartiti tra paragrafi. La sensibile sproporzione fra i due libri indusse il Pellizzari [9] a supporre che il secondo dei due libri fosse incompleto. Il sospetto non sembra affatto arbitrario.



PSEUDO-ERACLIO, Tercius Liber et prosaicus Eraclii, antedicti, de Coloribus et Artibus predictis


Da p. 204 a p. 250. La Merrifield, pur sostenendo senza riserve e nel modo più netto possibile che il terzo libro del De coloribus et Artibus non era, né poteva essere, opera di Eraclio, continuò tuttavia a presentarlo insieme ai due precedenti. In questa sede è parso che convenisse compiere, anche per sottolineare l’aspetto più originale della lettura del manoscritto compiuta dalla Merrifield, un passo ulteriore separando senza alcuna possibilità di equivoci la terza parte e attribuendola – come del resto in qualche studio si era avvertita la necessità di fare – a un personaggio di cui ignoriamo il nome, ma che appropriatamente potrebbe essere definito Pseudo-Eraclio. Attribuzione vaga e generica, come si vede, ma bastevole in ogni caso a ribadire l’essenziale, ossia che le ricette a lui riferite appartengono ad un’altra mano rispetto al compositore in versi (Eraclio) di cui si discuteva e si continua a parlare come uno dei più sensibili compilatori di ricette dell’età medievale. Altro stile, altra epoca, altra zona di compilazione.

A definire il campo d’azione di questo Pseudo-Eraclio ci aiuta validamente la stessa Merrifield, che in un testo già appartenente alla Biblioteca del Trinity College di Cambridge, poi passato (con la segnatura 840 A) al British Museum di Londra, rinvenne buona parte dei capitoletti del terzo libro messi però in ordine sufficientemente sistematico e non già, come capitava nel manoscritto parigino “at random without any regard to the subject” (p. 173) e, per giunta, arricchita di varie altre prescrizioni. Sia l’uno che l’altro manoscritto – quello cioè di Londra e l’altro di Parigi – erano posti al termine dei due libri in versi di Eraclio e questa coincidenza stava chiaramente ad indicare che discendevano da un comune prototipo in cui si era consumata l’arbitraria confusione tra scritti di Eraclio e ricette raccolte da un altro soggetto. Vi erano, a questo punto, elementi sufficienti per tentare un montaggio di varie parti del lavoro di questo Pseudo-Eraclio e la Merrifield lo condusse a termine dandosi delle regole e seguendo delle ipotesi che qui non è possibile esporre in forma sia pure sommaria, ma che v’è modo di reperire e di valutare nelle “Preliminary Observations” riportate a pp. 166 sgg.

Dalla ricostruzione che pazientemente aveva compiuto, la Merrifield ricavò la conclusione che il Libro Terzo fosse stato composto – meglio si direbbe, costruito – assai più tardi della vera compilazione di Eraclio, dal momento che vi comparivano “words and expressions and allusions to arts, which appear to belong to the twelfth or thirteenth centuries” (p. 174). Diversamente da Eraclio, lo Pseudo-Eraclio non poteva essere considerato un italiano; alla Merrifield parve estremamente probabile che il Libro Terzo fosse stato scritto “by a Frenchman, under which term I include also the Normans, who were at that period English subjects” (ivi).

Le ricette che vi compaiono sono di diverse provenienze ed è davvero interessante notare che alcune di esse altro non sono che trascrizioni, più o meno rimaneggiate, del testo spettante al vero Eraclio. E’, questa, una circostanza che induce a ribadire come i testi in rima, di cui si è parlato in precedenza, e il Libro Terzo non potessero appartenere allo stesso raccoglitore di ricette o al medesimo estensore che, con tutta evidenza, sarebbe stato indotto ad eliminare nel proprio lavoro casi evidenti di duplicazione o di lieve variazione.


PIETRO DI SANT’AUDEMARO, Liber de Coloribus Faciendis

Il testo è riprodotto nelle pagine da 116 a 165: come nella maggior parte degli scritti precedenti e dei lavori successivi, le pagine dispari sono riservate al testo originale, mentre le pari accolgono la versione inglese. Una nota preliminare di commento occupa le pagine 112-115.

L’autore, per lo più designato con il nome di Pietro di Sant’Audemaro, è talvolta indicato come Pierre de Saint’Omere. Si dà in ogni caso per scontato che l’opera appartenga ad un francese. Stanno a provarlo taluni termini tecnici e, in modo esplicito, alcune parole incluse nella ricetta 165 a pag. 131: “… in hac nostra patria galliae ut in toto Francia…”. La data di compilazione non dovrebbe essere, secondo Eastlake [10], successiva alla fine del XIII o, al massimo, all’inizio del XIV secolo. La Merrifield mostra qualche cautela e non esclude la possibilità di una data anteriore; ma la sua si presenta come una semplice supposizione e non mi sembra che vi insista in modo particolare. Franco Brunello [11] riporta la datazione di Eastlake, senza avanzare soluzioni alternative. C. Garzya Romano aderisce, anche lei, alla proposta di Eastlake [12].

Nell’opera di Sant’Audemaro compaiono “recipes for colours, for ink, and for gilding”. I temi trattati sono ricordati dalla Merrifield nella seconda parte di pag. 113 e nelle due successive.

Le rubriche o ricette (uso i due termini di norma utilizzati dagli esperti del settore) sono compresi tra il n. 150 e il n. 209. Ci dovremmo quindi trovare di fronte a 60 sezioni. La loro entità si riduce invece a 59, perché la ricetta 187 “is missing in the original” (p. 150n.)

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Fig. 3) La Biblioteca Nazionale di Francia - La sala ovale, dedicata a Richelieu


Con quest’opera si chiude quello che possiamo considerare il primo gruppo degli scritti presentato nel Ms. 6741, ossia il gruppo delle ricette o prescrizioni più antiche, prodotte nell’alto medioevo o comunque anteriori a quel sostanziale mutamento di pensiero e di gusto estetico che precede immediatamente e talvolta s’identifica con ciò che si usa chiamare protorinascimento. Pensando a questi primi lavori e al loro accoglimento in una collezione che porta la data del 1431, non si può fare a meno di ritornare a ciò che da altri è stato anticipato certamente in modo appropriato. Il passaggio da un periodo storico ad un altro non è stato così netto e deciso come in più casi verrebbe fatto di credere. Oltre alle fonti d’epoca più recente, di cui parleremo tra poco, la collezione include ricette e indicazioni anteriori di generazioni o addirittura di secoli alla data di compilazione. La collezione creata con il manoscritto parigino – scrive J.Schlosser – è importante “non solo per la sua maestria” [13], ma soprattutto per il significato storico generale. Non è senza importanza che “in un’epoca che già tendeva verso nuovi sentieri” si sia ancora pensato di copiare fonti antiche, come lo scritto di Eraclio che risale presumibilmente a sei secoli prima.

Altri due aspetti vanno ricordati almeno fugacemente. Per indicare il primo dei due aspetti basta una domanda. Eccola: come mai la Merrifield ha trascritto tutti i vecchi manuali contenuti nel MS. 6741 facendo eccezione soltanto per quel trattato di Teofilo che, a giudizio generale, è l’autore di interesse maggiore e con una più accentuata preoccupazione di ricorrere ad una esposizione sistematica della materia? In un primo momento vien fatto di pensare al fatto che nel MS. 6741 il lavoro di Teofilo non è riprodotto per intero e che ci si ferma al capitoletto 27 del Libro Primo, dopo aver trattato i temi connessi con la pittura. Ma, presa da sola, questa interpretazione non è del tutto convincente. Nel suo lavoro la Merrifield ha trascritto anche qualche testo incompleto e, dove l’è parso opportuno, operò di sua volontà altri tagli ricorrendo alla formula degli extracts e, almeno in una circostanza, omettendo di informare il lettore. Per giungere ad una conclusione davvero persuasiva occorre tener conto di una spiacevole coincidenza: anche se non del tutto ostile ad effettuare in casi ragionevoli delle trascrizioni parziali, la Merrifield deve essersi trovata in qualche imbarazzo nella situazione che qui si sta considerando, dal momento che nel 1847, due anni prima dell’edizione dell’opera, R. Hendrie aveva preparato e pubblicato, desumendo ovviamente da altro manoscritto, l’intero trattato di Teofilo [14]. Il confronto fra la versione integrale di Hendrie e quella marcatamente parziale alla quale la Merrifield avrebbe dovuto ricorrere sarebbe diventato spontaneo e, com’era facile prevedere, si sarebbe risolto a danno della scrittrice. Esaminando i fatti, si ha la l’impressione che, su questo punto, la Merrifield sia stata battuta sul filo di lana. Di fronte al fatto nuovo e presumibilmente imprevisto, la Merrifield si ritrae in buon ordine e ricorre a poche parole che non spiegano tutto, ma che sono egualmente sufficienti a render conto del suo comportamento: “The whole of the treatise of Theophilus has recently been published, with an excellent English translation and notes, by Mr. Hendrie” (p. 15). Non dice altro la Merrifield. Ma il senso è chiaro: perché, a questo punto, andar dietro ad una parte del Primo Libro di Teofilo, a quei ventisette capitoletti ripresi nel Ms parigino e lì collocati, con ogni verosimiglianza, subito prima delle pagine di Sant’Audemaro? Su questi 27 punti o sezioni o capitoletti torneranno a riflettere [15] dapprima Albert Ilg [16] e quindi altri ricercatori – tra cui C.R. Dodwell [17] -, tutti interessati ad un lavoro filologico, da compiere per sua natura su tutti i testi disponibili (anche quelli incompleti) ed alla ricostruzione, la più corretta possibile del testo originale.

Resta infine da chiedersi come questi testi di vecchia data (da Eraclio a Sant’Audemaro) siano pervenuti a Le Bègue che – come s’è detto più volte – provvide ad includerli nel manoscritto parigino. Le soluzioni più lineari e meno lambiccate sono due: quei testi furono rintracciati direttamente da Le Bègue oppure furono reperiti da un certo Alcherio, di cui presto ci occuperemo, e giunsero solo in un secondo momento – insieme alla compilazioni redatte dallo stesso Alcherio – al Le Bègue che prese quindi la decisione di includere nel manoscritto 6741 sia le compilazioni più antiche, sia gli scritti o annotazioni di Alcherio, sia i propri contributi personali. Sul percorso seguito dagli scritti di data più antica la Merrifield esprime un parere chiaro ed esplicito soltanto quando si riferisce ad Eraclio o a quel Libro Terzo che più appropriatamente va attribuito ad altra mano, ossia allo Pseudo-Eraclio. La via seguita sarebbe la seconda: il materiale, rintracciato da Alcherio, sarebbe successivamente giunto in mano di Le Bègue. Si può tuttavia ragionevolmente supporre che anche gli altri lavori (lo scritto di sant’Audemaro pubblicato dalla Merrifield e i capitoletti di Teofilo non inseriti nell’antologia) abbiano percorso lo stesso itinerario.

Viene ora il momento di far parola di un secondo gruppo di studi, anch’essi inseriti nel manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi e riprodotti nella pubblicazione di cui ci stiamo occupando. Sono gli scritti o, per meglio dire, le compilazioni eseguite dal personaggio ricordato poco fa, cioè Alcherio. Se ci riportiamo al prospetto B) e ne esaminiamo le prime voci, quelle poste sulla sinistra, ci sarà facile rilevare che gli vanno attribuiti i seguenti lavori riprodotti qui sotto:


ALCHERIO, De Coloribus Diversis Modis Tractatur

Lo scritto va da p. 258 a p. 279. Risale al luglio 1398 ed è stato redatto “per verba et signamenta” di Jacobus Cona “flamingus pictor commorans tunc Parisiis”. Dopo aver letto quanto su Alcherio vien detto nell’Allgemeines Lexicon der Bildenden Künstler  [18], vien fatto di pensare che il Cona proprio ora menzionato altro non fosse se non Jacopo Cova, pittore di Bruges, che di lì a poco (nel 1399), Alcherio raccomandò al Capitolo del Duomo di Milano; né si può escludere un’altra interpretazione, che cioè fosse da identificarsi con Jacques Coëne che l’Enciclopedia Universale dell’Arte [19] ci segnala ugualmente “attivo per qualche tempo al Duomo” milanese e ci descrive come “attento ricercatore di profondità spaziali”. Ma forse ci si può spingere anche oltre sostenendo che tutt’e tre le denominazioni si riferiscano allo stesso artista: la lieve differenza tra Cona e Cova potrebbe essere un semplice errore materiale di trascrizione dei manoscritti, fra l’altro redatti da mani diverse, e la variante Coëne si intenderebbe, senza neppur eccessiva difficoltà, con la forma fiamminga del medesimo cognome. Comunque si giudichi, alcuni punti rimangono certi: il nome di battesimo è sempre identico; le notizie si riferiscono puntualmente allo scadere del secolo XIV; sia il Cova che il Coëne giunsero a Milano per dare la loro collaborazione nei lavori che s’andavano svolgendo al Duomo.


ALCHERIO, De Diversis Coloribus

Lo scritto si estende da p. 281 a p. 291, dove iniziano le addizioni di Le Bègue. Tutto il materiale, tranne quello che figura nell’ultimo capitoletto, è stato annotato a Parigi nell’agosto del 1398, un mese dopo lo scritto precedente “in domo Anthonii de Compendio illuminatoris librorum [n.d.r. miniaturista], antiqui hominis, a verbis quae ipse Anthonius sibi dixit” (p. 281). Sembra, insomma, che Alcherio abbia operato sotto dettatura. A queste annotazioni Alcherio aggiunse l’ultimo capitoletto, quello che reca il n. 303 e che contiene una ricetta ricevuta a Milano diversi anni prima da Alberto Porzellus (o Porcelli) “perfectissimus in omnibus modis scribendi et formis literarum, qui tunc dum vixit tenuit scolas in Mediolano et docebat pueros et juvenes ad scribendum” (p. 289). Posso aggiungere, ricavando la notizia dalla voce “Alcherio” dell’Enciclopedia dell’Arte Medievale della Treccani [20], che il Porcelli era noto come “scriba e fornitore di manoscritti per i Visconti, lavorando in collaborazione con la bottega di Benedetto da Como”.


ALCHERIO, Experimenta de Coloribus

E’ il ricettario più ampio ed articolato di Alcherio. Va da p. 47 a p. 85 ed è ricavato da varie fonti, I primi capitoletti (dal n. 1 al n. 88) sono stati trascritti da Alcherio nel marzo 1409, ricopiandoli da un libro che gli era stato consegnato da Fra Dioniso “of the order of the Servants of St. Mary, which order, in Milan, is called Del Sacho” (pp. 82 e 84).

In base al loro contenuto, questi prestiti da Fra Dionigi vanno divisi in due sottorami: “the recipes, from Nos. 1 to 47 inclusive, are for colours of various kinds for painting and writing, and other things belonging to the art of miniature painting. Nos. 47 to 88 contain various recipes for working in metals; for hardening iron; for a kind of nigellum; for making a sort of pyrophorus – namely, a light which should burn under water, and which could be estinguished with oil only; and also a candle which should burn with water and without fire” (pp. 4sg). Tutte le ricette furono trascritte non a Milano come si sarebbe portati a supporre, ma a Genova.

Fin qui le ricette ottenute da Fra Dionigi. Con i capitoletti da 89 a 99 incluso, corrispondenti alle pagine da 85 a 89, viene quindi presentato il materiale ricevuto nel febbraio 1410 a Bologna da un tal Theodorico, un tappezziere delle Fiandre che era stato impiegato a Pavia da Gian Galeazzo Visconti. Theodorico (o Teodoro) “gave him certain recipes and directions for preparing and using coloured waters” che si era procurato in Inghilterra (vedi p. VI sg. delle Osservazioni preliminari della Merrifield). Nei capitoletti immediatamente successivi – dal n. 100 al 116, riportati nel testo da pag. 90 sino all’inizio di p. 103 – si possono leggere le ricette che, sempre a Bologna e sempre durante il mese di febbraio del 1410, Alcherio trascrisse – o, meglio, fece trascrivere – da un prontuario di Giovanni da Modena: “a quodam libello magistri Johannis de Modena, pictoris habitantis in Bononia”. Le ricette di Giovanni da Modena erano compilate in italiano e ricopiate in questa lingua: nel manoscritto 6741 e, di conseguenza, nell’opera della Merrifield, le troviamo però scritte in latino perché Le Bègue, ignaro di italiano, le aveva fatte tradurre in modo da poterle ricopiare senza difficoltà: “cum non intelligerem, feci [n.d.r. è Le Bègue a scrivere] per quemdam amicum meum, utriusque lingue peritum, in latinum vertii…” (pag. 91). Dalle note preliminari della Merrifield veniamo a conoscere, in forma molto sintetica, il contenuto delle ricette: le prescrizioni si riferiscono “chiefly to colours and to mordants for laying on gold” (pag. 9).

Tre mesi dopo, nel maggio del 1410, Alcherio si trasferì a Venezia e lì si procurò una ricetta per ottenere l’azzurro (v. n. 117 p. 103 sg.) da “Michelino de Vesucio, pictore excellentissimo inter omnes pictores mundi”. E forse vale la pena di precisare che si tratta di Michelino da Besozzo, che il Vasari [21] nominò tra i seguaci di Giottino e che il Lomazzo [22] e, assai più tardi, il Lanzi [23] citeranno nei loro scritti. Non certo un capofila, come vien detto nel manoscritto, ma neppure un artista dai tratti evanescenti o una sbiadita comparsa.

L’ultimo capitoletto, il 118simo (pp. 105-111) è dedicato “ad purgandum, vel afinandum, seu faciendum, azurrum ultramarinum cum pastillo, seu ad faciendum illud de lapide lazulli, trito in pulvere, et purgando pulverem cum pastillo”. Alcherio ne stese il testo a Parigi nel febbraio del 1411 seguendo le istruzioni di Giovanni il Normanno che era vissuto nella casa di Pietro da Verona. E non è irragionevole supporre che proprio lì, a Verona, Alcherio e Giovanni si siano conosciuti.

Nei mesi seguenti Alcherio provvide a dare una veste più soddisfacente a questo, come a tutti gli altri suoi scritti sopra ricordati. Entro la fine dell’anno il complesso dei suoi lavori aveva ormai assunto quella veste e quelle caratteristiche formali alle quali – salvo poche integrazioni di cui si dirà successivamente – si attenne il Le Bègue quando, una ventina d’anni dopo. venne redatto il MS. 6741.

Sebbene il manoscritto parigino apparisse strettamente associato al nome di Jean Le Bègue e si parlasse correntemente di Manoscritto Le Bègue, la Merrifield comprese, per quel che se ne sa, prima di altri. che il ruolo di maggior peso andava conferito, più che a questo umanista, a quell’Alcherio di cui abbiamo poco fa indicato i contributi. E ciò non solo, e non tanto, per la ragionevole congettura che portava e porta tuttora a ritenere che le raccolte di data più remota, come quella di Eraclio, siano state reperite da Alcherio e siano giunte a distanza di vari anni nella disponibilità di Le Bègue, quanto piuttosto per ragioni d’altra natura e di maggior sostanza. Mediante continui, persistenti ed efficaci contatti con artisti e artigiani dell’epoca sua, Alcherio era riuscito a documentare il modo di procedere e le soluzioni preferite da coloro che operavano in pittura e in altri comparti di produzione artistica sul finire del ‘300 e agli albori del secolo successivo, né andava dimenticato – come si è detto poco fa – che tra le persone da lui avvicinate comparivano personaggi come Giovanni da Modena e Michelino da Besozzo, non proprio sconosciuti e sicuramente informati sulle tecniche praticate nel loro e in qualche altro ambiente artistico. Attingendo da varie fonti e muovendosi in diversi Paesi, Alcherio stava inoltre a confermare ciò che per altre vie appariva chiaro, anche se non sempre documentato, che cioè nell’epoca sua si erano costituiti sicuri canali informativi e avvenivano scambi di ritrovati e di soluzioni tecniche entro quell’area dell’Europa occidentale in cui s’era venuto diffondendo il cosiddetto gotico internazionale. Insomma, il manoscritto parigino non era composto soltanto da fortunati ricettari di vecchia data, ma veniva ravvivato da guide e da insegnamenti di età più recente, capaci di far luce nel modo di operare, sui ritrovati più recenti e sul gusto avvertito quasi alle soglie dell’età rinascimentale. E il merito di questo secondo e più rilevante risultato andava per intero o pressoché per intero attribuito all’instancabile attività di Alcherio.

Di tale Alcherio la Merrifield non poteva saper altro se non quel che risultava annotato nel manoscritto, vale a dire i vari spostamenti, gli incontri con personaggi di diversa rilevanza artistica e la data in cui procedette al reperimento e alla trascrizione delle ricette. La Merrifield riferisce quel che ha letto e non va molto oltre, ben sapendo di trovarsi su un terreno insidioso. Non si pronuncia chiaramente neppure sul luogo di nascita, anche se di tanto in tanto induce il lettore a ritenere che Alcherio, facendo spesso capo a Parigi e procedendo proprio lì alla revisione dei vari scritti, dovesse essere un francese e, con ogni verosimiglianza, un parigino per nascita o per adozione. Prospetta l’ipotesi che Alcherio sia stato un pittore, dà l’impressione che questa pista non le dispiaccia del tutto, ma quando viene il momento di concludere, avverte che allo stato della conoscenza l’unico punto fermo restava l’evidente legame con l’arte: “his attachment to the art is unquestionable” (p. 3). Interessante, quasi suggestivo, risulta il confronto che la Merrifield compie tra Alcherio e Jehan Le Bègue. Di Le Bègue scrive: “He himself tells us that he was unaccustomed to such writing; and the numerous mistakes throughout the manuscript prove that he told the truth” (pag. 2). Un taglio un po’ sgarbato, come si vede. Ma, quando il discorso ben presto si sposta su Alcherio, si sentono parole assai diverse che lo pongono subito su un livello più alto: “In all that related to the art he was superior to Jehan le Begue” (pag. 3). Per giunta, aveva il vantaggio di comprendere l’italiano e – va da sé – di raccogliere documentazione scritta o. comunque, disponibile in questa lingua: “he also possessed the additional advantage of understanding Italian, which he acquired in Italy during his occasional visits to that country” (ivi). Si noti, fra l’altro, la presenza di quell’ “occasional”, da me messo in corsivo, che sta a confermare come per la Merrifield Alcherio non fosse affatto un italiano e venisse in Italia per tempi tutt’altro che prolungati.

Qualche decennio dopo la pubblicazione del lavoro della Merrifield, quando vennero stampati gli annali della Fabbrica del Duomo di Milano [24], emersero indicazioni che hanno inevitabilmente portato a rivedere alcune posizioni o congetture della Merrifield. Alcherio conosceva la nostra lingua per il semplice motivo d’essere italiano, per l’esattezza milanese. Si interessava professionalmente di problemi d’arte e si era recato in varie parti d’Italia e ripetutamente a Parigi per assolvere mansioni che la Fabbriceria gli aveva affidato e, in particolare, per reperire artisti da utilizzare per i lavori del Duomo: sopra si è già parlato – naturalmente di sfuggita – dei suoi rapporti con Cona. Conosciamo anche qualche sua opinione per la costruzione della volta del Duomo. L’Allgemaines Lexicon non esita, sotto la voce che lo riguarda, a definirlo “Baumeister” ma, oltre che di architettura, doveva provare interesse per altri generi se, profittando dei viaggi che andava compiendo, raccolse materiale su rami del tutto diversi, di produzione artistica.

In conclusione, qualche rettifica al disegno tracciato dalla Merrifield va fatta. Il rilievo dato alla figura di Alcherio resta però confermato e va anzi aggiunto che, negli studi successivi sino a quelli più recenti, tale risalto si è venuto via via accentuando, sino al punto di attribuire al maestro milanese l’intera regia dell’opera e da confinare il Le Bègue nella posizione di un mero trascrittore, data la sua posizione sociale di tutto rispetto di committente delle ricerche e, allo stesso tempo, di appassionato ricopiatore e magari riordinatore del materiale incluso nel MS. 6741. E’, questa, una tesi di taglio estremistico: non vi sono infatti argomenti sufficienti per ritenere che certi processi di revisione debbano essere spinti oltre misura e che, per attribuire ad Alcherio il molto che gli spetta, diventi indispensabile ridimensionare la parte di Le Bègue sino al punto di banalizzarla. Nell’ampio manoscritto parigino Le Bègue ha diritto a un suo posto e, seguendo l’opinione della stessa Merrifield, va detto e sottolineato che alcune parti dell’opera restano sue e non possono essere trasferite ad altri scrittori o raccoglitori. Accanto a vecchie compilazioni e ai significativi settori da attribuire ad Alcherio, vi è una terza componente che porta con tutta ragionevolezza a Le Bègue.

Tenendo sott’occhio la parte destra del prospetto B) vien fatto di indicare tre elaborazioni:


JEHAN LE BÈGUE Receptes en Latin et en François

Vanno da p. 291 a p. 321. Ricavo questo titolo dall’indice che compare all’inizio del MS. 6741 e che nell’edizione della Merrifield è riprodotto a pag. 17. Le ricette, in larga maggioranza redatte in francese, sono poste al termine del De Diversis Coloribus di Alcherio. Le Bègue non ne precisa la provenienza, ma vi è più di un motivo per sostenere che il materiale raccolto presso operatori coevi costituisca – diversamente da quel che accade per le raccolte eseguite da Alcherio – una minoranza esigua. Una curiosità: alcune ricette, qui poste in francese, derivano dal testo latino di Eraclio e persino dallo Pseudo-Eraclio.


JEHAN LE BÈGUE, Tabula de vocabulis sinonimi et equivocis colorum

Va da p.. 18 a p. 39 [23]. I meriti di Le Begue resterebbero assai contenuti e scoloriti, se la sua presenza si limitasse alle sole ricette indicate nel punto precedente. Un livello qualitativo nettamente superiore va attribuito a questa Tabula.

E’ stato giustamente detto che la sua importanza è fondamentale: si tratta, di fatto, di un dizionario redatto in modo tale da attribuire a tutta l’opera il carattere di una vera summa delle tecniche pittoriche allora conosciute. Nella Tabula, che la Merrifield attribuisce senza esitazione a Le Bègue (cfr. pag. 3, primo periodo), si colgono chiaramente gli orientamenti, che noi saremmo tentati di definire enciclopedici, del compilatore e il suo gusto per la sistemazione razionale della materia. Nel lavoro di Le Bègue si colgono i tratti distintivi di una mentalità umanistica. Più di una volta Le Bègue si rifà al Catholicon, un dizionario latino composto alla fine del XIII secolo ed utilizzato in così larga misura anche nei periodi successivi da indurre Gutenberg ad includerlo tra i suoi primi lavori a stampa.


JEAHN LE BÈGUE, Tabulae ad reperiendum


Vanno da p. 39 a p. 45. Sono due tavole, purtroppo incomplete, con le quali si tenta di redigere un indice appropriato delle materie trattate. La loro presenza conferma il proposito di Le Bègue di conferire un carattere sistematico alle varie indicazioni riportate nel manoscritto parigino. Se la Tabula de vocabulis menzionata prima è una sorta di dizionario in cui si forniscono definizioni e si segnalano le diverse voci con cui in tempi e in luoghi diversi si sono indicate sostanze identiche o di poco dissimili, le due Tabulae ad reperiendum intendono facilitare il lavoro di consultazione mediante qualcosa di simile ad un ragionato indice per soggetto. Non a caso, in corrispondenza d’ogni voce, viene fornito il numero con cui nel manoscritto sono contrassegnate le singole ricette. E, poiché lo stesso argomento è stato spesso toccato in più ricette, capita talvolta di reperire, per una sola voce, due o più numeri. In un caso (vedi ultima voce di p. 42) si esegue il rinvio a tredici ricette.


NOTE:

[1] Sul modo in cui la Merrifield entrò in possesso della raccolta antologica di Le Bègue si veda quanto scritto da lei stessa a p. 1 n. 2: “Dobbiamo la prima segnalazione del manoscritto al Lessing, che lo menziona nel suo Trattato [n.d.r. la prima edizione a stampa del De diversis artibus di Teofilo]. Lessing, tuttavia, non conosceva l’opera, e ne citò solo il titolo traendolo dal Catalogo dei Manoscritti nella biblioteca sopra ricordata [n.d.r. la Biblioteca Reale di Parigi] . ritenendo che contenesse una copia del manoscritto di Teofilo. E infatti contiene gran parte del primo Libro di quest’autore. Raspe ed Emeric David menzionano entrambi il manoscritto, ma solo in riferimento alla copia di Teofilo; la restante e maggior parte del manoscritto sembra essere rimasta sconosciuta fino al 1842 o al 1843, quando il conte Charles de l’Escalopier si è procurato una copia dell’intero scritto per completare la sua traduzione di Teofilo. Nell’autunno del 1844 sono stata a Parigi per procurarmi una copia del manoscritto, che ho ottenuto dopo un inevitabile ritardo”.

[2] Schlosser, La letteratura artistica, 3° ed. aggiornata, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 32.

[3] Eraclio, I colori e le arti dei Romani e la compilazione pseudo-eracliana. A cura di Chiara Garzya Romano, Bologna, Il Mulino, 1996, p. XLV).

[4] Del testo di Eraclio e della composizione pseudo-eracliana esiste un’edizione moderna a cura di Chiara Garzya Romano (cfr. nota 3 qui sopra).

[5] J.C.L. Simonde de Sismondi, Histoire des Républiques italiennes du Moyen Age, 1807-1818.

[6] Achille Pellizzari, I trattati attorno le arti figurative in Italia e nella Penisola iberica dall’antichità classica al Rinascimento e al secolo XVIII. Vol. I: Dall’antichità classica al secolo XIII, Napoli, F. Perrella, 1915, p. 391.

[7] Eraclio, I colori e le arti dei Romani… cit., pp. XV-XVI.

[8] Da ricordare che, secondo Garzya Romano, l’autore dei due Libri sarebbe un veneto dell’VIII secolo d.C.

[9] Achille Pellizzari, I trattati… cit., p. 407.

[10] Charles Lock Eastlake, Methods and Materials of Painting of the Great Schools and Masters, New York, Dover Publications, 1960, reprint di Materials for a History of Oil Painting (1847), p. 45.

[11] Franco Brunello, De arte illuminandi e altri trattati sulla tecnica della miniatura medievale, Vicenza, Neri Pozza, 1975, p. 19n.

[12] Eraclio, I colori e le arti dei Romani… cit., pp. XLII.

[13] Schlosser, La letteratura artistica… cit., p. 32.

[14] Robert Hendrie (a cura di), An Essay upon Various Arts, in Three Books, by Theophilus called also Rugerus, Priest and Monk, Londra, John Murray, 1847.

[15] Theophilus, On divers Arts. A cura di John G. Hawthorne e Cyril Stanley Smith. New York, Dover, 1979. Reprint dell’edizione del 1963 pubblicata dall’University of Chicago Press. P. XVIII.

[16] Theophilus Presbyter, Schedula Diversarum Artium. A cura di Albert Ilg. Vienna, Braümuller, 1874.

[17] Theophilus, De diversis artibus. A cura di C.R. Dodwell. Londra e Edinburgo, Nelson, 1961

[18] Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart. A cura di H. Vollmer.  Lipsia, Seeman, 1940, Vol. I, pag. 237.

[19] Enciclopedia Universale dell’Arte. Firenze, Sansoni, 1958. Vol. VI, col. 458.

[20] Enciclopedia dell’Arte Medievale. Roma, Treccani, 1991, ad vocem (a cura di B. Soldano Tosatti).

[21] Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori. A cura di Rosanna Bettarini e Paola Barocchi. Testo, vol II, pag. 235. Firenze, Sansoni, 1967.

[22] Gian Paolo Lomazzo, Scritti sulle arti. A cura di Roberto Paolo Ciardi. Firenze, Centro Di, 1974. Vol. II pagg. 315 e 353.

[23] Luigi Lanzi, Storia pittorica della Italia. A cura di Martino Capucci. Vol. II, pag. 279. Firenze, Sansoni, 1970.

[24] Gli Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall'origine al presente, 9 voll., Milano 1877-1885.

[25] La Tabula è stata studiata da Bianca Tosatti in B. Soldano Tosatti, La ''Tabula de vocabulis sinonimis et equivocis colorum'', ms. lat. 6741 della Bibliothèque Nationale di Parigi in relazione a Giovanni Alcherio, ACME. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Milano 36, 1983, pp. 129-187. Non si è avuto modo di consultare l’opera.

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