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Francesco Mazzaferro
Cennino Cennini e Leon Battista Alberti:
variazioni sul concetto di composizione pittorica
Introduzione
[N.B. Su Cennino Cennini, si veda in questo blog: Progetto Cennini
Su Leon Battista Alberti si veda in questo blog anche: Leon Battista Alberti, Descriptio Urbis Romae, A cura di Jean-Yves Boriaud e Francesco Furlan, Firenze, Leo S. Olschki, 2005; Rocco Sinisgalli, Il nuovo De Pictura di Leon Battista Alberti. Edizioni Kappa, 2006. Qui sotto è la prima puntata di una serie di quattro sul confronto fra Cennino Cennini e Leon Battista Alberti. La bibliografia relativa sarà pubblicata al termine dell'ultima parte]
***
Sulle tracce del mito di Cennino Cennini e della fortuna del suo Libro dell’Arte, ci confrontiamo qui con
uno degli aspetti che, nel corso dei decenni, è diventato quasi una pietra
miliare del lavoro di ogni studioso: il paragone fra Cennino Cennini e Leon
Battista Alberti, fra il Libro dell’Arte
e il De Pictura.
La prima cosa che abbiamo scoperto è che, se tale confronto è davvero
centrale per comprendere Cennino, è egualmente significativo per mettere a
fuoco la figura di Leon Battista. Parafrasando una famosa opera di Pirandello,
entrambi sono Personaggi in cerca
d’autore. Condividono molti aspetti. Innanzi tutto, mentre hanno scritto
libri famosi sulla pittura, è impossibile giudicare i loro scritti avendo a
riferimento uno qualsiasi dei loro dipinti, dal momento che non ce ne è
pervenuto in pratica nessuno. In secondo luogo, esistono opinioni davvero
discordanti su come relazionarli ai movimenti artistici a loro contemporanei:
il tardo Gotico e il primo Rinascimento, due periodi che, sotto molto aspetti,
coesisterono e fra loro s’intersecarono. In terzo luogo, le ipotesi sul periodo
e l’intento con cui stesero i relativi trattati divergono largamente fra loro.
Ciò ha aperto grande spazio per le interpretazioni, che risultano anche quasi
opposte fra loro quando si comparano i due.
Per focalizzare meglio il confronto, abbiamo concentrato la nostra
attenzione sul concetto di composizione pittorica. L’abbiamo fatto perché
abbiamo scoperto che entrambi gli autori discussero su cosa fosse l’arte e
offrirono i primi riferimenti alla composizione pittorica nella storia
dell’arte. Il verbo ‘comporre’ con riferimento alla pittura viene usato per la
prima volta da Cennino e una teoria pienamente matura della composizione
compare solo con Leon Battista.
Abbiamo inoltre scoperto che il termine ‘composizione’ riferito alla
pittura trova i suoi paralleli nella retorica, nell’architettura e nella
musica. La ‘composizione’ era, già ai tempi di Cennino e Leon Battista, un
concetto d’arte multi-disciplinare. Ciò che è comune alle quattro discipline è
che la ‘composizione’ delinea quella parte dell’arte dove la creazione è
soggetta a delle regole, in particolare sulla maniera in cui le ‘parti’ devono
essere ‘combinate’; il termine può essere quindi contrapposto all’altra parte
dell’arte in cui le potenzialità immaginative degli artisti sono in grado di
produrre bellezza al di fuori di ogni cornice concettuale. Cennino distingue
fra ‘abilità di mano’ e ‘fantasia’; Alberti fra ‘arte che può essere imparata e
insegnata’ e ‘il genio del pittore’.
Il concetto di composizione è divenuto via via più complesso e la
distinzione tra arte basata su regole e arte basata sull’immaginazione, col
tempo è andata cambiando connotazione. Cennino e Leon Battista rappresentano
un’epoca in cui la ‘composizione’ corrispondeva a un insieme minimalistico di
regole.
Fig. 2) Masaccio, Il Pagamento del tributo, Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci, 1420 circa |
Abbiamo preso in considerazione tre autori recenti che hanno dedicato il
loro tempo e le loro energie al confronto tra Cennino e Leon Battista in fatto
di composizione pittorica. Per primo, Rudolph Kuhn. Kuhn vede Alberti come l’inventore
del concetto moderno di composizione, mentre Cennino non sarebbe stato nemmeno
in grado di comprendere quello utilizzato da Giotto e dai Giotteschi, ovvero
dai suoi maestri. Fu Alberti, generazioni dopo, a creare una teoria della
composizione. Come seconda, Latifah Troncelliti. Troncelliti ribalta
completamente i termini del paragone. E’ Cennino a mostrare nei suoi scritti le
tecniche compositive del primo Quattrocento – descrivendo così la realtà dei
suoi tempi – mentre Alberti sarebbe stato uno studioso di retorica, le cui
teorie non erano note alla grande maggioranza dei pittori di inizio secolo e
trovarono una qualche eco solo dal 1500 in poi. Per terzo, Thomas Puttfarken. Quest’ultimo
riconosce l’importanza del tema della composizione sia in Cennino sia in Leon
Battista, ma giunge alla conclusione che entrambi non furono in grado di
offrire una teoria complessiva sulla materia. Il seme da cui gemma il moderno
concetto di composizione pittorica – quello che, in ultima analisi, ebbe un suo
ruolo fino agli anni di Vassily Kandisky – risiede nella pittura e nella teoria
dell’arte francese di età barocca, non nel Rinascimento italiano. I teorici
dell’arte del primo Quattrocento (compresi Cennini e Alberti) non furono in
grado di esercitare un qualche ruolo in merito perché concentrarono la loro
attenzione solo su pochi elementi (soprattutto il corpo umano e la prospettiva
in pittura), ma non percepirono l’idea della composizione come una combinazione
olistica di fattori, che in ultima analisi comprendono anche il rapporto con il
fruitore dell’opera d’arte.
La prima interpretazione (quella di Rudolph Kuhn) affonda le sue radici nella seconda metà del XIX secolo. Fu la Scuola di Vienna, con la prima pubblicazione in lingua tedesca del Libro dell’Arte (1871) e del De Pictura (1877), a creare una contrapposizione netta fra Cennini, rappresentante di un’arte morente, e Alberti, campione di una nuova era. Il primo ebbe il merito di vivere con gli occhi rivolti al passato (permettendoci di recuperare informazioni sull’età giottesca) e il secondo di guardare al futuro (influenzando in tal modo Leonardo e la teoria dell’arte del Rinascimento maturo). In parallelo, nel 1860, Jacob Burckhardt creò la figura di Alberti come quella di un genio universale, in grado di avere pieno merito nell’arte, nella letteratura, nella filosofia e nelle scienze matematiche.
Fig. 3) Agnolo Gaddi (1350-1396), Trittico (copia), Cappella Alberti, Santa Caterina, Firenze, 1390 circa |
Fig. 4) Agnolo Gaddi (1350-1396), Storia della vera croce, Due membri della famiglia Alberti. 1380 circa, Santa Croce, Firenze |
La seconda interpretazione (quella della Troncelliti) si rifà a Julius vonSchlosser. Schlosser giunse alla conclusione che sia Cennino sia Leon Battista
non appartenevano in senso stretto al campo della storia dell’arte. Tuttavia
ebbero un ruolo cruciale come scrittori d’arte, fissando il lessico che sarebbe
stato usato per secoli (e, di base, anche oggi) per descrivere la pittura. Il
parere di Schlosser va inteso in senso letterale. Per ciò che attiene Cennino,
lo ritiene un pittore fallito. Con riguardo ad Alberti, parla di lui come ‘un
non-artista’: non fece quadri o sculture (pur essendo l’autore del De Pictura e del De Statua) e la sua produzione in campo architettonico fu davvero
limitata: il vero edificatore fu Michelozzo ed Alberti intervenne solo in
qualità di progettista di facciate. Va ricordato che Schlosser dedicò due
scritti all’argomento. Il suo giudizio non può essere quindi ignorato a cuor
leggero, come capita spesso oggigiorno.
Le coordinate relative alla seconda interpretazione non sarebbero complete
se non prendessimo in considerazione i lavori di Lise Bek e Ulrich Pfisterer
per Cennino e di Edward Wright e Michael Baxandall per quanto riguarda Leon
Battista Alberti. Lise Bek contesta radicalmente la visione contemporanea di
Cennino come pittore del tardo Medio Evo, sia sotto un profilo cronologico, sia
concettuale e stilistico; lo ricolloca come pittore dei primi decenni del
Quattrocento, che scrive da professionista per professionisti e che riflette la
realtà dell’attività dei pittori del Quattrocento (tutti ancora degli
artigiani, compresi i più famosi). Ulrich Pfisterer (sulla base dell’analisi
filologica del testo cenniniano) sostiene che l’opera deve essere stata scritta
attorno al 1415. Passando a Leon Battista, Edward Wright e Michael Baxandall
scoprono che Alberti lavorava come uno studioso di retorica, prima progettando
i suoi scritti secondo la medesima struttura di Quintiliano: poi utilizzando
(anche nel caso della teoria compositiva) esattamente gli stessi argomenti che
Quintiliano e Cicerone usarono per descrivere la composizione in letteratura;
ancora, offrendo al lettore una collazione della letteratura esistente sulla
pittura (più che stilarne una nuova); infine evitando con cautela di presentare
un qualche riferimento ad opere d’arte contemporanee.
Va da sé che queste tesi hanno provocato la fiera risposta di tutti coloro
che ritengono Alberti non solo un artista vero, ma anche uno dei maestri della
prima generazione dei creatori d’arte rinascimentali a Firenze e in altri
luoghi dell’Italia settentrionale. Nel 2011 Lucia Bertolini, nella sua premessa
all’edizione critica della versione volgare del De Pictura, rifiuta con forza questa tesi. Vede Alberti come un
pittore (educato all’arte nella giovinezza, prima del suo ritorno a Firenze,
quindi prima che facesse conoscenza con la pittura del primo Quattrocento),
pone l’accento sul fatto che Alberti dichiara esplicitamente la sua intenzione
di scrivere ‘da pittore’ e rigetta l’interpretazione secondo cui il libro di
Leon Battista sarebbe un esercizio retorico sulla pittura.
La difesa di Leon Battista non è solo un argomento polemico ‘italiano’ in
difesa di un ‘campione nazionale’. In Francia, ad esempio, Florence Vuilleumier
ha dato nel 1993 un giudizio critico devastante nei confronti della nuova
traduzione francese del De Pictura,
uscita ad opera di Jean-Louis Schefer l’anno prima, centocinquanta anni dopo
l’edizione della prima traduzione francese. A dire il vero, Schefer si era
espresso in maniera molto equilibrata a favore dell’interpretazione ‘retorica’,
ma ciò non ha evitato una reazione dai toni così eccessivamente emotivi. Per
capire quanto questo fatto debba aver surriscaldato gli animi basti dire che
nei vent’anni successivi si sono succedute due altre traduzioni francesi del De Pictura, con tesi fra loro diverse.
La terza interpretazione (quella di Puttfarken) è più sofisticata, ed anche
la più difficile da spiegare. In termini estremamente semplificati, non vi è
arte senza pubblico, e senza la libertà di chi osserva non tanto di giocare un
ruolo passivo come spettatore, ma di averne uno attivo, attribuendo un
significato all’opera d’arte. E’ il dialogo fra artista e spettatore, la
relazione tra le intenzioni dell’artista di attribuire un ruolo privilegiato a
chi osserva e la reazione attesa/inattesa di quest’ultimo, l’interazione tra
aspettative e reazioni dell’osservatore, a definire una composizione. Le tesi
‘strutturaliste’ di Puttfarken sulla debolezza dei teorici dell’arte del
Quattrocento sotto questo punto di vista – è interessante notarlo – sono
diametralmente opposte rispetto alla lettura ‘destrutturalista’ dei curatori
francesi dell’edizione 2012 del De
Pictura, Golsenne e Prevost.
Leggendo Kuhn, Troncelliti, Puttfarken e vari altri autori abbiamo anche
scoperto che esistono diverse opinioni su quale impatto abbiano avuto i libri
che abbiamo preso in esame sullo sviluppo dell’arte. In generale, sembra che vi
sia consenso sul fatto che entrambe le opere non vennero utilizzate nelle
botteghe come manuali che servissero d’ispirazione per gli apprendisti e per la
formazione. C’è chi interpreta il Libro
dell’Arte di Cennino come uno scritto redatto per supportare la
continuazione delle corporazioni (sottomettendo gli artisti a un sistema che
riduceva la loro libertà), mentre altri vedono nel De Pictura di Alberti un saggio mirato a smantellarle (portandoli
così all’indipendenza). Si trattava di un argomento tutt’altro che secondario,
all’epoca; all’apice della sua fortuna anche Brunelleschi fu messo in prigione
per qualche giorno per essersi rifiutato di pagare le tasse alla propria
corporazione.
Fig. 5) Benozzo Gozzoli, Cosimo de’ Medici. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 1459 |
Fig. 6) Masaccio, Cappella Brancacci (Firenze) 1425-28, Ritratti di artisti di attribuzione incerta (forse, da destra a sinistra, Brunelleschi, Alberti o Donatello, Masaccio o Masolino) |
In relazione alla questione della composizione, è interessante vedere come diversi
autori riconoscano nelle opere di Masaccio e di Raffaello o l’influenza di Cennino (distribuzione dello
spazio secondo le regole della simmetria, secondo Troncelliti e Amanda Lillie
della National Gallery) o di Leon Battista (composizione bilanciata di diverse
figure, secondo Kuhn). Va osservato peraltro che nessuno dei due fece riferimento a un
qualsiasi lavoro dei pittori a loro contemporanei: non vi è alcun rimando a una
delle opere di Gaddi in Cennino o a un qualche pittore del Quattrocento in Leon
Battista. Ciò spalanca un margine immenso di interpretazione sul fatto che i
due testi abbiano influenzato oppure no il corso della pittura, e, se sì, in
che termini.
Nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta,
John Maynard Keynes scrisse: “Le idee degli economisti e dei filosofi della
politica, siano esse giuste o sbagliate, sono più forti di quanto si pensi
comunemente. Il mondo, a dire il vero, è retto da poco altro. Gli uomini della
strada, che credono di essere in qualche modo esenti da una qualsiasi influenza
intellettuale, in genere sono gli schiavi di un qualche economista defunto”.
Ciò che intendeva dire era che (al contrario di quanto spesso si crede) la
forza delle idee, a medio termine, è più importante di un qualsiasi interesse
materiale. Tutti noi siamo spesso prigionieri inconsapevoli del nostro passato
più che costruttori attivi del nostro futuro.
Ciò è vero anche nella storia dell’arte. Le diverse opinioni su Cennino
Cennini e Leon Battista Alberti che ancor oggi prevalgono nel dibattito hanno
origine nella costruzione della disciplina della storia dell’arte a metà del
XIX secolo. I veri e propri miti di Cennino e Leon Battista non nacquero nel
Rinascimento. Furono creati in un lasso di tempo di circa cent’anni, che
separarono la riscoperta del manoscritto di Cennino, alla fine degli anni ’10
dell’800, la prima traduzione delle opere in diverse lingue e le loro revisioni
più tarde all’inizio del XX secolo. Quelli fra il 1810 e il 1910 sono i cent’anni
fra Napoleone e la Prima guerra mondiale, caratterizzati da profonde
trasformazioni culturali, che vedono le nostre società in cerca di nuove e
vecchie radici che possano fornire legittimazione a nuovi ordini politici e
sociali. Sono gli anni dell’imperialismo globale per l’Inghilterra e la
Francia, del dominio, del consolidamento e del collasso per l’Austria-Ungheria
e dell’unificazione politica di Italia e Germania. Sono questi gli anni in cui
le nostre società si fratturano in profonde differenze materiali ed
ideologiche. Sono anche gli anni in cui l’Europa perde, passo dopo passo, quasi
senza accorgersene, la propria centralità nel mondo. La ricerca di una nostra
identità nel passato potrebbe avere giocato un tranello per il nostro futuro.
L’interpretazione più comune del confronto tra Cennino e Alberti è che essi
segnano con le loro opere – in chiara contrapposizione – la discontinuità tra
il Medio Evo e il Rinascimento. Cennino sarebbe l’ultimo rappresentante di un
mondo in cui la pittura apparteneva ancora alla sfera dell’artigianato e
Alberti lo scopritore di un’arte basata sul puro esercizio intellettuale. Il
primo costituirebbe l’ultimo residuo di un mondo ancorato alla religione, il
secondo sarebbe il primo teorico di un mondo basato sulla centralità
dell’individuo. Tuttavia, almeno per alcuni fra coloro che accettano
quest’interpretazione, Cennino conterrebbe già un nucleo di elementi di novità,
segnando allo stesso tempo la fine del vecchio mondo e la fase davvero iniziale
di uno nuovo, e Alberti, di par suo, conserverebbe ancora qualche retaggio del
pensiero medievale.
Si dovrebbe riflettere su quanto quest’interpretazione (e, più in generale,
il giudizio su quei decenni come indicatori di un brusco punto di rottura nella
storia delle nazioni) fosse in realtà funzionale alla necessità di legittimare
in ultima analisi una sostanziale e diretta continuità fra la cultura del XIX
secolo, il nuovo mondo rinascimentale e i suoi poteri civili e non con il Medio
Evo e la sua cultura basata sulla religione. Le riflessioni sull’arte furono al
centro della ricerca di identità di governi vecchi e nuovi nel XIX secolo. In
Italia, ad esempio, sottolineare la brusca frattura fu una precondizione per
accettare la continuità politica e culturale tra Rinascimento e Risorgimento.
Fu anche necessario per segnare la liberazione del nuovo Stato dalla
competizione culturale della Chiesa, insediata a Roma da molto prima del nuovo
Stato unitario.
Fig. 7) Parri Spinelli, Predella della Madonna della Misericordia, Arezzo,1435-37 |
La stessa logica a
supporto della visione di una frattura tra vecchio e nuovo mondo (nello spazio
di una o due generazioni) fu valida non solo in Italia, ma anche altrove. Miti
come quelli di Alberti ebbero valore universale: trovare nel Rinascimento le
radici antiche e nobili del processo di modernizzazione, in un secolo come il
XIX segnato dalla rivoluzione industriale, dall’irruzione della tecnologia nella
vita delle persone, ma anche da un radicale sfaldamento dei vecchi modelli
sociali, era così importante e rassicurante come, secoli prima, doveva essere
stato per il Rinascimento stesso riscoprire il vecchio mondo dei Latini e dei
Greci. E per il XX secolo, segnato da ogni sorta di orrori, la conferma che le
nostre radici risiedevano nel Rinascimento voleva dire rispondere alla
necessità di sapere che (a dispetto di tutto ciò che andò storto a partire
dalla Prima guerra mondiale) il nostro mondo si basava su un sistema di valori
permeato di razionalità e progresso, mentre le epoche oscure appartenevano al
passato.
Abbiamo visto che un
diverso modo di interpretare il confronto tra Cennino e Alberti è quello di non
considerarli simboli radicalmente opposti di due mondi in conflitto, simboli di
un cambiamento epocale nell’arte e nella civiltà, ma di ritenerli appartenenti
alla stessa cultura, rappresentando entrambi, a dispetto di ovvie differenze,
il primo tentativo di codificare progressivamente per iscritto il linguaggio
dell’arte.
Questa tesi vede in
particolare l’importanza di Cennino e di Alberti nel loro essere gli inventori
di un lessico specializzato dell’arte che continuerà ad essere utilizzato fino
ai giorni nostri, a dispetto dei cambiamenti di stile e di gusto. Rispetto alla
prima interpretazione si tratta di un tentativo più sofisticato di identificare
Cennino e Alberti (questa volta in tandem, uno a fianco dell’altro) come gli
inventori del nostro mondo; si rifà a un concetto di sviluppo sociale e
storico, radicato nello storicismo, che non può essere segnato da rivoluzioni,
ma dalla continuità e, solo quando necessario, da lievi correzioni di rotta.
Non è una coincidenza che questa tesi sia stata elaborata da uno storico
sostanzialmente conservatore come Julius von Schlosser. Per lui il nucleo
dell’eventuale differenza fra i due non ha a che fare con il tempo (Medio Evo
contro Rinascimento) ma con le categorie dello spirito universale: la loro è
arte o letteratura? Appartiene al mondo della poesia (creazione) o della
retorica (spiegazione)? La risposta di Schlosser è che sia Cennini sia Alberti
appartenevano a quest’ultima: il loro valore aggiunto è di aver creato il
lessico che è anche il nostro.
La terza visione che abbiamo preso in considerazione relega sia Cennino sia
Alberti nel passato remoto. I due non sono più visti come i padri fondatori del
nostro mondo estetico, ma come rappresentanti della loro epoca, con le loro
forze e con le loro debolezze. Tra noi e loro il mondo è cambiato in
continuazione, e li osserviamo con critico distacco. La natura del processo
creativo dell’arte non può più essere visto in funzione di tendenze e cicli di
lungo termine, ininterrotti nei secoli, ma ha origini empiriche. Se Schlosser
riflette (indirettamente tramite Croce) l’idealismo tedesco e quindi il
conservatorismo sociale, questa diversa interpretazione è fondamentalmente in
linea con una visione pragmatica della storia. La base di riferimento
dell’analisi non è più posta nel passato (gli antichi, il Rinascimento) ma nel
presente o nel passato recente, segnando l’idea di progresso e innovazione come
motori della storia. Come ci spiegava Eraclito, πάντα ῥεῖ
(“tutto scorre”).
In ultima analisi, questa ricerca ha documentato non solo quanto un
confronto fra due autori possa condurre a una serie di risultati differenti, ma
come possa indurre a tracciare due conclusioni, la prima in merito alla
differenza fra i due libri e la seconda sulla composizione pittorica.
Sui libri: se i critici dell’arte e i filologi hanno
esaminato tutta una vastissima serie di argomentazioni, c’è forse qualcosa di
più semplice che hanno dimenticato: la differenza fra le rispettive personalità
e preferenze professionali. Io mi occupo di economia. Quando leggo articoli o
commenti mi capita a volte di dovermi confrontare con colleghi che
esaurirebbero il loro lavoro nell’analisi econometrica dei fatti,
preferibilmente producendo solo equazioni, grafici e tabelle e descrivendo le
causalità in forma di coefficienti, in pratica dimenticando un qualsiasi testo
di accompagnamento; altre volte ho a che fare con colleghi che, per spiegare il
mondo, scriverebbero un lungo testo descrittivo e basato solo su giudizi, con
una prosa esaustiva, ma con pochissimi numeri. Siamo tutti differenti, e a
volta creiamo in maniera diversa.
Dopo tutto, chi può escludere che, nel suo Libro dell’Arte, l’attenzione di Cennino sulla tecnica artistica,
sulle ricette, sulle procedure manuali etc non sia tanto il risultato di
coordinate generali del tempo in cui visse, non della mancanza della capacità
di elaborare una teoria globale o dell’incapacità di avere una visione
complessiva sull’arte, ma sia in prevalenza il frutto delle sue preferenze
personali nei confronti della conoscenza delle tecniche pratiche? E chi può
realmente escludere che Leon Battista Alberti, anche se fosse stato un
cittadino di Firenze ai tempi di Giotto, non avrebbe rivelato la stessa,
personale preferenza per una discussione ampia, sistematica ed astratta sulle
arti, come molti pensatori enciclopedici del Medio Evo fecero nelle aree di
loro competenza, e non avrebbe quindi escluso allo stesso modo ogni aspetto
tecnico?
Cennino poteva essere innamorato delle tecniche per l’estrazione dei
pigmenti esattamente come oggi un biochimico potrebbe trovare eccitante scoprire
un nuovo principio farmacologico attivo o un ingegnere progettare sistemi per
rendere disponibile per la produzione di massa una nuova tecnologia ecologica.
E Leon Battista poteva essere appassionato di teoria sistematica, proprio come
un fisico ai giorni nostri potrebbe trovare esaltante scoprire una nuova
particella infinitesimale che confermasse la visione olistica dell’universo, da
un millisecondo dopo il Big bang sino
ad oggi. Contrariamente a quanto si può pensare generalmente, tutti questi sono
processi creativi che combinano fra loro gli stessi elementi della composizione
e dell’invenzione, in maniera radicalmente differente. Guardando alla lista dei
premi Nobel, è difficile dire se il nostro mondo sia più vicino a Cennino o a
Leon Battista.
Se diamo uno sguardo all’arte contemporanea, forse Cennino sarebbe oggi un
artista di strada come Banksy, mentre Leon Battista potrebbe essere Carolyn
Christov-Bakargiev. Di Banksy nessuno conosce l’identità, ma è chiaro che ha
sicuramente avuto un impatto sul nostro gusto collettivo. Carolyn
Christov–Bakargiev è stata di recente nominate “la pensatrice più influente nel
mondo dell’arte contemporanea”. E’ stata la curatrice del Museo di Arte Moderna
di Rivoli, il Direttore artistico di Documenta a Kassel nel 2012 e si occuperà
della quattordicesima Biennale di Istanbul l’anno prossimo. A Kassel, ha
prodotto per Documenta 100 taccuini e un catalogo di tre volumi in
collaborazione con una lista estremamente lunga di scienziati, filosofi,
psicanalisti, antropologi, poeti e scrittori. Come si vede, la storia si
ripete.
Fig. 9) Banksy, Compra finché non cadi, Mayfair, Londra |
Fig. 10) dOCUMENTA (13), Il terzo volume del catalogo |
Sulla composizione. L’intreccio di esperienze professionali (storia
dell’arte, filologia) mostrato nella maggior parte dei saggi che abbiamo letto
mostra come (almeno all’epoca) la composizione fosse un concetto relativo
all’arte intesa in senso globale. La composizione pittorica era vista (si veda
Cennini) come qualcosa di equivalente alla poesia e fu codificata (si veda
Alberti) secondo le medesime categorie concettuali della retorica e
dell’architettura.
La combinazione dei quattro tipi di composizione che abbiamo identificato
come già esistenti all’epoca dei nostri autori (letteratura, architettura,
musica e pittura) è qualcosa che è stato ovunque davvero al centro della nostra
cultura condivisa. Che cos’è un’opera di Monteverdi se non una composizione di
carattere retorico, architettonico, pittorico e musicale combinate insieme a
definire un sistema di regole comuni a tutte quante? E che cos’è una produzione
cinematografica, se non una combinazione prolungata nel tempo dei rispettivi
concetti di composizione? E cosa dovremmo dire dell’arte concettuale e delle
installazioni contemporanee? Eliminano ogni concetto estetico di composizione
basata su regole o ne sono il loro ultimo distillato? C’è una linea rossa che
collega Cennino Cennini, Leon Battista Alberti e Ai Weiwei? Forse sì.
Fig. 11) Ai Weiwei's
'Evidence' Installazione composta da 6.000 antichi sgabelli cinesi, Berlino,
2014
|
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