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lunedì 12 maggio 2014

Nicola Aricò. Libro di Architettura. GBM Messina, 2007


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Nicola Aricò
Libro di Architettura

Prefazione di Richard Bösel
GBM Messina
2005-2006 [ma settembre 2007]

Il Collegio dei Gesuiti a Messina nel 1700 (architetto: Natale Masuccio). Distrutto dal terremoto del 1908



[1] Opera in due volumi. Si riportano qui di seguito i testi delle bandelle rispettivamente del volume I e del volume II.

Bandella volume I:

“Tra fine anni ottanta e inizi novanta del secolo XVI un siciliano della Compagnia di Gesù elabora un ambizioso progetto: scrivere un libro per insegnare l’architettura. L’iniziativa trae ispirazione dall’esigenza di superare, con la formazione di nuovi architetti, i numerosi problemi che rallentano e talvolta ostacolano le progettualità e i cantieri siciliani dell’Ordine. Come nella prassi dell’esordio pedagogico dei Gesuiti, i libri di testo utilizzati venivano selezionati tra le opere già pubblicate, su cui si operavano opportuni emendamenti per omologarle ai principi ignaziani. Per l’architettura l’opera-guida prescelta ricadeva sul trattato di Leon Battista Alberti, nel volgarizzamento di Cosimo Bartoli. Il testo albertiano reso in volgare veniva ora copiato, ora sintetizzato, quindi censurato oppure integrato dall’autore anonimo con contributi originali, anche difformi dalla lezione quattrocentesca, talvolta con prestiti da Palladio. Lo spettro della Controriforma e, in particolare, la disciplina con cui Antonio Possevino aveva stigmatizzato il buon architetto cristiano in sintonia con le volontà di Sisto V, avevano escluso il trattato di Sebastiano Serlio dai libri consigliati nella Bibliotheca selecta. Ma tale suggerimento giungeva tardivo. Il trattatista bolognese era ovunque e mai pagine di architettura avevano “invaso” la Sicilia come le sue dei Libri Terzo e Quarto. L’autore anonimo conosceva l’opera di Serlio in epoca precedente la lettura di Alberti e Palladio: la sua lezione, benché criptata, rifluiva infatti nel nuovo libro di testo.

Altre contingenze muovevano da Messina. La sede storica del Collegio Prototipo nella città dello Stretto, il primo cioè gestito in collaborazione con l’amministrazione cittadina, aperto a quanti intendessero istruirsi, aveva diffuso l’idea della sperimentazione didattica: perché non provare a insegnare anche l’Architettura, in un momento di importanti nuove trattative tra Senato cittadino e Curia generalizia dell’Ordine? Nel 1589 moriva l’architetto della città Andrea Calamecca e, forse non casualmente, a margine dell’iniziativa gesuitica condotta dall’autore anonimo, giungeva da Roma il siciliano Jacopo Del Duca, che certo sembra occupare un ruolo, non già nella stesura del libro di testo, quanto nel riferimento al suo alto magistero professionale che chiaramente vi si può riscontrare, sebbene in poche pagine. Poi una vicenda imprevedibile, come la probabile morte dell’autore anonimo, interrompeva l’iniziativa, lasciandola incompleta e inattuata, alimentando così l’utopia cinquecentesca di insegnare l’architettura dai banchi di una scuola, com’era già accaduto a Siena con Baldassarre Peruzzi.”

Bandella volume II

“Lo studio di un manoscritto anonimo e all’origine anepigrafo, che si conserva presso la Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, ha consentito di disvelare l’identità dell’opera attraverso un metodo di indagine filologica, coadiuvato da una mirata ricerca d’archivio.

Avendo identificato il testo-guida da cui il manoscritto aveva strutturato la propria stesura – il volgarizzamento di Cosimo Bartoli dell’albertiano De re aedificatoria, nell’edizione veneziana del 1565 – si è assunta l’edizione bartoliana come fondamentale «testimone» della rilettura filologica. 

Sono così emersi quei criteri di manipolazione, adottati dalla Compagnia di Gesù all’esordio dell’insegnamento, intesi ad adeguare alla propria disciplina pedagogica la selezione di testi optati perché immediatamente disponibili sul mercato librario di quegli anni. Pur condividendo il testo prescelto, era tuttavia necessario, per i padri dell’Ordine, omologarlo all’attività didattica secondo un disegno tutt’altro che scevro dal clima controriformista.

La disamina condotta ha così potuto stabilire una connessione indiretta con la Bibliotheca selecta di Antonio Possevino e, attraverso questa, risalire al personaggio più importante dell’architettura gesuitica del secondo Cinquecento, il padre architetto Giuseppe Valeriano.

Si è pertanto individuato – e reso tipograficamente disponibile agli studiosi – ciò che del volgarizzamento bartoliano di Alberti è stato copiato nel manoscritto, distinguendolo dalle parti sintetizzate e dagli importanti contributi originali. Dippiù è stata identificata la presenza del trattato palladiano e quella dei Libri di Sebastiano Serlio, il quale, caduto in disgrazia in ambiente gesuitico, ma essendo ben noto all’estensore siciliano, circola criptato tra le pagine del manoscritto.

L’indagine filologica è altresì transitata per una lettura attenta delle filigrane e della fascicolazione, analizzando e deducendo la cronologia d’impiego e le differenti mani che hanno vergato le carte.

Autentica miniera si è rivelato ancora il patrimonio linguistico che vi confluisce, riscontrando l’affluenza del volgare fiorentino, del «toscano» di Serlio, di qualche eco veneta proveniente da Palladio e di quei complessi sicilianismi dove greco, latino, arabo, francese, catalano sovente si stratificano formando dialetti dissimili nelle varie aree dell’Isola. Per tale motivo si è voluto proporre, a conclusione dell’edizione critica, un breve glossario dei sicilianismi edilizi.

La parallela ricerca d’archivio ha consentito di colmare alcune lacune, ma anzitutto di potere attribuire l’opera a un fratello siciliano della Compagnia, che, da irrequieto esordiente analfabeta, con mansioni da falegname, diverrà – sia pure per un breve periodo – il vivace architetto gesuita dell’Isola, protagonista autentico di un’utopia didattica.”

[2] La vita è bella perché permette di cambiare opinione e rimediare ai propri errori. In fondo è quello che scrive Aricò nella sua Introduzione (Vol. I, pp. 11-13). Fu lui, nel 1982 circa, a imbattersi nel codice F.V. 29 della Biblioteca Regionale Universitaria di Messina, e a maturare la convinzione, sull’onda dell’entusiasmo, che il Libro di Architettura fosse opera di Jacopo del Duca, allievo di Michelangelo Buonarroti. Gli entusiasmi iniziali si raffreddarono tuttavia nel corso degli anni e man mano che l’esame delle pagine del manoscritto andava procedendo. Aricò ricorda di aver sottoposto la trascrizione delle prime pagine del codice e l’apparato dei disegni a Manfredo Tafuri (suo maestro) che non aveva mancato di sottolineare il basso livello qualitativo dell’apparato grafico e la modestia complessiva del testo del codice. Lo sconforto fece sì che per qualche anno l’esame del manoscritto venisse abbandonato. Nel 1990, tuttavia, Aricò presentava, nel corso di un convegno milanese, un saggio in cui si divulgava la scoperta del codice e si manteneva l’attribuzione a Jacopo del Duca. Il saggio veniva poi pubblicato nel 1992 col titolo Un Libro di Architettura di Jacopo Del Duca nel Collegio di Messina in L’architettura della Compagnia di Gesù in Italia XVI-XVIII secolo, a cura di Luciano Patetta e Stefano Della Torre, Genova, Marietti, 1992. Contemporaneamente si faceva strada l’idea che la reale importanza del manoscritto non fosse tanto sul piano ideativo, ma quale testimonianza di una produzione di libri di testo adeguati alle esigenze pratiche, ma anche teoriche della Compagnia del Gesù. Insomma, l’ipotesi di un trattato teorico delduchiano andava tramontando, soprattutto per l’evidente scarto fra la statura dell’architetto cefaludese e la modestia del manoscritto, mentre si affermava man mano quella di un “possibile” libro di testo stilato in ambito gesuitico. Potremmo semplicemente affermare che la presente edizione critica del manoscritto, condotta con rara acribia filologica e sulla base di approfondite ricerche di archivio, rappresenta in fondo il risultato di questo ribaltamento di prospettiva.

E tuttavia, bisogna fare i conti con un fattore ulteriore. Nel 2004 Francesca Paolino, facendo seguito a precedente comunicazione nel corso di un convegno genovese, pubblicava un’edizione commentata del manoscritto (Giacomo del Duca, L’arte dell’edificare. Biblioteca Regionale Universitaria di Messina. Ms. F.V.29) in cui, pur collocando il manoscritto nell’ambito di un percorso pedagogico-divulgativo gesuitico, si citava esplicitamente l’intervento di Aricò del 1992 e si attribuiva il codice proprio a Jacopo del Duca. Esiste dunque, lungo tutto il dipanarsi delle argomentazioni di Aricò, un convitato di pietra, ovvero il libro della Paolino. E se, nel concreto, si può dire che quest’ultimo lavoro sia stato di fatto ignorato da Aricò (solo due citazioni in nota, la più eloquente delle quali è la seguente a p. 134 del volume primo: “I lunghi anni trascorsi tra l’annuncio del rinvenimento e questa restituzione hanno autorizzato Francesca Paolino a pubblicare il codice nel 2004. Sul valore scientifico dei suoi studi... ci sia consentita una battuta: abbiamo certamente studiato codici differenti”), non ci stupiremmo che diverse pagine dell’opera siano state pensate con lo scopo manifesto di replicare alla Paolino (basti pensare al paragrafo Perché l’autore dell’Epitome non è Jacopo Del Duca, v. 1 pp. 134-142). A noi pare, in tutta onestà, che le argomentazioni proposte da Aricò non solo chiariscano definitivamente chi non sia l’autore del manoscritto (appunto Del Duca), ma producano indizi sufficientemente consistenti da far ritenere che, senza alcun ragionevole dubbio, la paternità dell’opera vada ricondotta ad Alfio Vinci. 

Loggia dei Mercanti (Messina). Opera di Giacomo Del Duca. Distrutta dal terremoto del 1783

[3] La tesi Paolino è che nessun dubbio sussista in merito alla paternità dell’opera...: “nella didascalia che accompagna il disegno di una muratura di fortezza (f. 110) è contenuta, infatti, l’affermazione: “...da me ser giacopo duca sono vidute...”, affermazione che, in modo assolutamente certo, indica in Giacomo Del Duca l’autore del Compendio. Alla stessa conclusione, del resto, conducono tutti i riferimenti in esso contenuti relativi a opere e circostanze, inerenti Cefalù, città natale di Giacomo, e Messina, città nella quale egli ha vissuto e lavorato nell’ultimo decennio della sua vita (1589-1600)” (Paolino, 2004, p. 63). Senza replicare direttamente, Aricò legge il medesimo luogo del testo in “Da miser Giacopo Duca son vidute...” (v. 2 p. 239). Aricò fa inoltre presente che l’attribuzione a misere compare in altri fogli della sezione iconografica (v. 1 p. 138), ma in particolare nel fascicolo XVI del codice (fogli 106-113) che viene definito anche di ambito delduchiano, perché vi compaiono appunto testimonianze ed esperienze da ricondursi appunto a misere Jacopo Del Duca. L’anonimo autore del manoscritto, dunque, cita Del Duca con la stessa formula di rispetto (misere) con cui Del Duca citava il suo maestro Michelangelo. Ciò che per la Paolino è certezza assoluta per Aricò è consapevolezza che il codice è esteso da un terzo rispetto all’architetto cefaludese e che per giungere ad un’identificazione va condotto un processo indiziario, in cui l’autore dà veramente il meglio di sé. La lettura delle prime due sezioni del volume primo (Codex e Historia) lascia in bocca il gusto del romanzo giallo, in cui il colpevole (l’autore) giunge quasi alla fine. Il nome di Alfio Vinci compare solo a p. 132 e l’attribuzione dell’opera alla sua mano si trova a p. 148. Nell’impossibilità di citare tutti gli indizi, proponiamo qui di seguito l’identikit del presunto autore, così come presentato da Aricò. Tutte le sezioni prima e seconda del volume primo, come si diceva, sono la dimostrazione (più che convincente) che l’identikit è quello di Alfio Vinci:

  • Terra d’origine: siciliano, ma non messinese di nascita e formazione;
  • Generazione: successiva a quella di Del Duca;
  • Estrazione sociale: discendenza fortemente popolare per ceto e curiosità culturali;
  • Affiliazione religiosa: adepto della Compagnia di Gesù ma non certo nell’ufficio di «padre», dunque di «fratello»;
  • Temperamento: figura attiva e protagonista nel panorama culturale coevo, talvolta millantando;
  • Percorso formativo: giunge all’architettura da un tirocinio artigiano;
  • Profilo intellettuale: evita le astrazioni erudite preferendo loro la cultura materiale;
  • Attitudini professionali: scarsa dimestichezza col disegno a fronte di una considerevole esperienza del cantiere edilizio;
  • Itinerari documentati: conosce bene Roma dove ha risieduto più volte ed è stato a Napoli;
  • Riferimenti esemplari: avventore dei trattati di Alberti, Palladio e Serlio:
  • Morte presunta: l’epitome rimane incompiuta nei primi anni Novanta del XVI secolo.

E tuttavia, oseremmo dire quasi per motivi scaramantici, avendo già una volta indicato un nominativo non corretto, Aricò non solo evita accuratamente di citare il nome di Vinci in copertina, nel frontespizio o nelle bandelle dei volumi, ma continua a parlare, negli stessi, di “anonimo gesuita siciliano”.

[4] L’ultima sezione del volume primo (Architectura) contiene un’ampia riflessione teorica sui presupposti teorici dell’architettura dei gesuiti e sulla misura in cui il manoscritto di Vinci vi possa essere ricondotta o possa invece essere considerata “eversiva” rispetto a tali presupposti. In tutta onestà questa sezione ci pare meno convincente; in primo luogo perché mancano oggettivamente documenti fondamentali (due sarebbero le fonti di riferimento in materia: da un lato la Bibliotheca selecta del padre gesuita Antonio Possevino, di cui vengono meritoriamente proposti i capitoli XVI-XVIII del Libro XV, dedicati all’architettura; dall’altro il trattato manoscritto del padre architetto Giuseppe Valeriano (che incontrò più volte Vinci durante i viaggi di quest’ultimo), purtroppo andato perduto.

Napoli. Interno della Chiesa del Gesù Nuovo (opera di Giuseppe Valeriano)

Per la precisione – dice Aricò a p. 197 – “nessuna dipendenza diretta esiste dalla Bibliotheca selecta al Libro di architettura, mentre entrambi – e certo con suggestioni differenti – attingevano contemporaneamente nella loro fase redazionale da una comune fonte cultural-pragmatica: quella del padre architetto gesuita [n.d.r. Giuseppe Valeriano]”. La perdita del trattato di Valeriano ci pare esporre Aricò a una serie di ipotesi e supposizioni oggettivamente troppo rischiose. D’altro lato, non sempre queste ipotesi convincono chi legge. Un esempio: che l’esame filologico (davvero impressionante) del manoscritto di Vinci faccia emergere tracce ed influenze serliane, quando è noto che Serlio era autore sgradito ai gesuiti (su questo argomento cfr. infra), e che ciò lasci filtrare in controluce una volontà di criptarne e dissimularne la presenza per non subire l’inevitabile censura è forse una spiegazione troppo complicata; una soluzione che se vera, tornerebbe a mettere in discussione l’identikit dell’autore del manoscritto; non appare davvero probabile a chi legge, in base al ritratto di Vinci che ci viene fornito, che il fratello siracusano possa essere capace di ideare una dissimulazione così abile ed erudita; probabilmente la spiegazione è assai più semplice, ovvero che nonostante l’ostracismo dei gesuiti, il linguaggio serliano - la sua grammatica architettonica che ne determinò il successo in tutta Europa – è talmente acquisito anche negli ambienti architettonici siciliani da essere inconsapevolmente oggetto di citazione (sullo straordinario successo di Serlio in Europa si veda Sebastiano Serlio à Lyon. Architecture et imprimerie. Volume 1. Le Traité d’Architecture de Sebastiano Serlio. Une grande entreprise éditoriale au XVIe siècle, a cura di Sylvie Deswarte-Rosa, ed in particolare la sezione Les rééditions et traductions du Traité d’architecture de Serlio). Una divagazione per spiegarci meglio: noi potremmo essere (e in fondo siamo) strenui difensori della lingua italiana eppure (da bolognesi, sia pur d’importazione) potremmo utilizzare beatamente il termine “rusco”, che è puro dialetto, come esatto sinonimo dell’italiano “pattume”, tale è la convinzione a Bologna che “rusco” sia un lemma italiano. Tutto ciò per spiegare che in fondo spesso la soluzione più semplice e più probabile è anche la più corretta. Sempre su Serlio e i gesuiti: le ragioni della censura sono correttamente indicate da Aricò a p. 246 (dalle frequentazioni con ambienti francesi non ortodossi al presunto evangelismo sotteso all’Extraordinario Libro – si veda in merito Mario Carpo, La maschera e il modello. Teoria architettonica ed evangelismo nell’Extraordinario Libro di Sebastiano Serlio); ma anche qui viene omessa secondo noi la ragione più banale, ovvero lo straordinario successo editoriale e quindi teorico che, suo malgrado – perché vittima di un plagio – Serlio ha conosciuto in terra riformata (si veda Krista De Jonge. Les éditions du traité de Serlio par Pieter Coecke van Aelst sempre nell’opera collettanea a cura di Sylvie Deswarte-Rosa); Serlio cioè non poteva e non doveva essere un modello per l’architettura dei gesuiti nel momento in cui lo era diventato per chi se n’era andato con la Riforma.


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