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venerdì 16 maggio 2014

Jacopo da Pontormo, Il Libro mio. A cura di Salvatore S. Nigro



Jacopo da Pontormo
Il Libro mio
A cura di Salvatore S. Nigro

Costa e Nolan, 1984

Pontormo, Deposizione
Firenze, Chiesa di Santa Felicita


[1] Il manoscritto “è catalogato alla Bibliot. Nazion. Centr. di Firenze: Miscellanea Magliabechiana, Cl. VIII, num. 1490” (p. 98).

[2] Il primo frammento del Diario fu pubblicato da Giovanni Gaye nel suo Carteggio inedito d’artisti... Il Diario fu poi pubblicato integralmente nel 1916 da Frederick Mortimer Clapp, in appendice alla sua monografia sul Pontormo (Yale University Press, New Haven).

[3] A “riscoprire” il Diario in Italia e ad avviarlo verso una buona fortuna editoriale fu proprio Emilio Cecchi, dapprima con un famoso articolo apparso sul Corriere della Sera il 15 settembre 1942, poi curando la prima edizione integrale italiana nel 1956. Cecchi indica nelle note tutte le varianti rispetto alla trascrizione eseguita dal Clapp. 

[4] Va detto subito che Salvatore S. Nigro esprime molte riserve nei confronti della trascrizione della prima edizione. Il Cecchi non sarebbe incorso soltanto in errori singoli, circostanziali. “Il guaio è – scrive il Nigro – che l’edizione Cecchi è un «errore» nell’insieme” (p. 111). Va detto, più in generale, che il Diario del Pontormo è poi diventato famosissimo. Si sono succedute varie edizioni (o riedizioni). Il Diario viene poi tirato in ballo non solo per parlare delle inquietudini del pittore manierista, ma più in generale per avvalorare la tesi (affascinante, ma discutibile) che per essere artisti si debba essere anche afflitti da patologie di carattere psichico, più o meno accentuate.

Jacopo da Pontormo, Alabardiere.
Getty Museum, Los Angeles


[5] Si riporta il testo della recensione apparsa sul Domenicale del Sole 24 Ore in data 24.3.1985 (l’articolo – a firma Francesco Gallo – è tratto da Biblioteca Multimediale del Sole 24 Ore – Cd Rom Domenica 1983-2003 Vent’anni di idee). 

DOMENICA - Pontormo
Squallida, spilorcia esistenza di un grande del manierismo
di Francesco Gallo

Il Libro mio di Jacopo Carucci, detto Pontormo, pittore manieristico formato nella bottega di Leonardo, di Piero di Cosimo, di Mariotto Albertinelli, di Andrea Del Sarto e poi influenzato dall’opera di Durer e di Michelangelo, si distende cronologicamente per due anni: dal 1554 al 1556. Si tratta di un susseguirsi di notazioni scarne, sulla giornata di lavoro, sulle persone incontrate, sulla dieta seguita. A volte le notazioni sono di puro calendario, venerdì, sabato, domenica, senza avvenimenti che li facciano avvertire come giorni di vita. È, in verità, quella di Pontormo una vita ben strana, quasi un romitaggio in terra di pittura, rotto qua e là dal Bronzino, già suo allievo e poi amico, valente pittore manierista anche lui, che si incaricherà di terminare gli affreschi della Cappella corale di San Lorenzo in Firenze, dopo la sua improvvisa morte avvenuta il 1° gennaio del 1557.

La sovranità delle pagine del Libro spetta alla dieta giornaliera, dieta dell’unico pasto fatto di poco pane, poca insalata, e poca carne, a volte del genere “che non l’avrebbero mangiata neanche i cani”.

Sta meglio quando viene a casa del Bronzino, “desinai con Bronzino, pollo e vitella e sentì mi bene”. Quando è solo si sente come un ritornello, “cenai uno cavolo e uno pesce d’uovo”. Così vive, in squallore d’esistenza, fra i disegni, e poi il trasporto in parete di Caino e Abele, di Noè, di Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso, di Cristo in gloria che sovrasta la creazione di Eva, motivo questo che lo farà sospettare di eresia spiritualista, e insieme alla considerazione che si trattava di pittura “sfacciata”, non “propriamente da chiesa”, farà somma nella decisione presa nel 1738 di scrostare gli affreschi, così che oggi non rimangono che alcuni lavori preparatori. Fra mal di testa, diarree, febbri e fichi secchi, scrive: “...io feci el di la testa di quella figura che è sopra quella che sta così“, “Lunedì cominciai quella figura che sta così“ (e accanto fa uno schizzo che ne richiama le linee di fondo, e così per tutto il taccuino ogni volta che riferisce della progressione del lavoro). “Martedì feci la testa, Mercoledì el torso”.

Jacopo da Pontormo, Gruppo di morti. Disegno preparatorio per il ciclo di affreschi di San Lorenzo

Non si lava quasi mai, e spesso si sente male, allo stomaco, ai denti, e mai si sente la eco di una risata, e di rado un sorriso di compiacimento. 

Di scherzi, così congeniali all’animo fiorentino, non se ne parla nemmeno. Solo una volta appare, senza volerla, la sua fiorentinità, nell’invito fatto al suo allievo Battista, ad una passeggiata sulle colline, con una prospettiva di buona cena con “castrone”, ma, arrivati al dunque, gli apparecchiò gli ossi di un pasto precedente: una punizione ai peccati di gola. 

Se vista da dentro la vita di Pontormo, massimo pittore fiorentino tra il 1520 e il 1540, non è allegra, vista da fuori appare al limite della normalità, anche a non prestar fede alle dicerie della sua convivenza, nel periodo della stesura del Diluvio universale, con cadaveri disseppelliti ed immersi nell’acqua, in modo che gonfiassero e si disfacessero tanto da diventare modelli perfetti. 

Vive miseramente, ma non per povertà, e la sua visibile spilorceria messa in confronto col tenore di vita di un Bramante o di un Sangallo, di un Giulio Romano o di un Rosso Fiorentino (con servitori, levrieri, cavalli, e argenterie) risalta in maniera sinistra, offuscandone l’indubitabile grandezza creativa. Un dissidio di arte e vita che finisce per influenzare il giudizio del Vasari sull’ultimo Pontormo, passato da una “felice adesione all’arte classica”, ad una deviante “imitazione dureriana”, a una “rovinosa subordinazione michelangiolesca”. Giudizio pesato a lungo su Pontormo e sul grande manierismo che con lui accomuna Bronzino, Rosso Fiorentino, Beccafumi, Parmigianino, Primaticcio, ma ora del tutto sollevato nel ripristino del suo merito d’avere aperto alla “maniera moderna”, già intuita dallo stesso Vasari. 

Il Libro mio di Pontormo prende il nome dal modo con cui Lorenzo Lotto, negli stessi anni, chiama un libro di “note” e “memorie” e torna a noi nell’edizione critica di Salvatore Silvano Nigro, che lo ha ripristinato in tutto il suo fascino melanconico, liberandolo da deformazioni, errori e mistificazioni dovute a poco o troppo rispetto. Enrico Baj lo presenta con un discorso da pittore a pittore, nella ripulsa della dieta e nell’ascolto dei consigli di pittura, in comunanza psicologica e culturale con il pluralismo degli stili che dal manierismo e da Pontormo derivano. Tano e Antonio Brancato hanno mirabilmente trascritto dall’autografo gli schizzi pontormiani, contribuendo al rigore filologico della pubblicazione.

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