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lunedì 19 maggio 2014

Bramante. Sonetti ed altri scritti. A cura di Carlo Vecce. Roma, Salerno editore, 1995


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Donato Bramante 
Sonetti ed altri scritti
A cura di Carlo Vecce

Roma, Salerno editore, 1995

Bramante. Cortile della Basilica di Sant'Ambrogio, Milano (1492-1499)



[1] Vengono pubblicati tutti i 25 sonetti del Bramante. Ventitré sono ricavati dal Ms. Italien 1543 della Bibliothèque Nationale di Parigi; uno proviene dal Sessoriano 413 (2077) della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma; l’ultimo deriva dal Trattato dell’arte della pittura, scoltura et architettura del Lomazzo, che lo riprodusse senza trovare, però, molto ascolto tra gli studiosi. Nell’edizione degli scritti lomazziani dovuta a R.P. Ciardi questi versi compaiono a p. 245 del secondo volume.

[2] Oltre ai sonetti, il Vecce presenta l’Opinio del Bramante sul tiburio del duomo di Milano, attenendosi al testo fornito da Arnoldo Bruschi negli Scritti rinascimentali d’Architettura editi dal Polifilo nel 1978 .

[3] Non manca infine la cosiddetta Relazione di Crévola, una breve attestazione qui posta a p. 64. Lo scritto “in sé, è poca cosa, e non ha altra importanza se non di essere l’unico documento originale rimasto di Bramante” (p. 107).


Bramante. Chiostro di Santa Maria della Pace, Roma (1500-1504)


[4] Sul Domenicale del Sole 24 Ore del 21 maggio 1995, ampio spazio è stata dedicato all’opera, nell’imminenza della pubblicazione della stessa. Marco Carminati ha scritto una presentazione del volume, a cui, per concessione dell’editore, segue un ampio stralcio dell’introduzione del Vecce. Si riportano entrambi i testi, ricordando che sono stati tratti da Biblioteca Multimediale del Sole 24 ORE – Cd Rom Domenica 1983-2003 Vent’anni di idee.

DOMENICA
Quelle mie calze
di Marco Carminati

Donato di Angelo di Antonio di Renzo da Farneta, in arte “Bramante”, è stato uno degli architetti e pittori più rappresentativi del primo Rinascimento italiano. Nativo di un paesetto vicino ad Urbino (siamo attorno al 1444), il giovane Donato si era formato alla corte del Montefeltro su testi ed esempi di Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Luca Pacioli, Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini. Vasari ci narra che da piccolo il futuro artista fu una sorta di primo della classe, amando “il leggere e lo scrivere” più dei giocattoli ed esercitandosi quasi ossessivamente “nello abbaco”. Ovvia conseguenza di tutto questo impegno scolare, fu che Donato non poté mai definirsi, al pari di Leonardo, un “omo senza lettere”; anzi, una volta giunto alla corte del Moro a Milano intorno al 1480, dimostrò di sapersi destreggiare abilmente con l’arte delle rime, componendo sonetti all’“improvviso”, languide liriche ispirate allo stile petrarchesco, nonché esilaranti poesie burlesche dedicate a dadi, calzini bucherellati ed altre amenità del genere. Solo venticinque sonetti di Bramante sono sopravvissuti al setaccio della storia. Con essi si è salvata anche la celebre relazione alla Veneranda Fabbrica del Duomo riguardante l’erigendo tiburio della cattedrale (è la famosa Bramanti opinio super domicilium seu templum magnum) e un’altra breve relazione fornita a Ludovico il Moro su certe fortificazioni vicine a Domodossola. Tutto quel che ci rimane dell’opera letteraria di Bramante è stato ora riunito in un elegante libricino edito dalla Salerno Editrice di Roma (Donato Bramante, Sonetti e altri scritti, 1995 pagg. 122, L. 13.000) a cura di Carlo Vecce, giovane filologo della scuola milanese di Giuseppe Billanovich, oggi ricercatore presso la cattedra di letteratura italiana dell’Università di Macerata. Merito di Vecce è stato innanzitutto quello di recuperare ed inquadrare storicamente e criticamente l’intero “canzoniere” bramantesco, la cui ultima edizione risaliva al 1884 ed era stata curata da Luca Beltrami. La lettura di queste rime d’amore e di burla contribuisce senz’altro a gettare un po’ di luce sulla personalità dell’artista, sul suo carattere proverbialmente “giocoso”, e sugli amici poeti frequentati alla corte del Moro, soprattutto Gasparo Visconti. Un sonetto - il primo della raccolta - è addirittura dedicato a un viaggio realmente compiuto da Donato dalla Liguria a Pavia. La figura di architetto severo e intransigente (e anche un po’ geloso del successo altrui) emerge invece dalla lettura della più nota Bramanti Opinio sul tiburio del Duomo, nella quale Bramante, esaminando i modelli lignei presentati da altri colleghi, scarica su tutti (Amadeo compreso) una gragnuola di critiche, e fornisce una sua visione delle cose, proponendo un tiburio a pianta quadrata. Per gentile concessione del curatore e dell’editore, abbiamo pensato di offrire ai nostri lettori, in anteprima, un ampio stralcio dell’introduzione di Carlo Vecce al “canzoniere” bramantesco. In più qui accanto, è possibile “assaggiare” uno dei sonetti burleschi del Bramante, dedicato... a un pedalino pieno di buchi. In esso, l’autore descrive le condizioni disastrose del calzino ricevuto in dono da Gasparo Visconti, con un gioco di paradossali paragoni che arrivano a comparare la calzetta sforacchiata alle trapuntate “fenestre del Domo”. Morale del sonetto? Farsi regalare dall’amico un altro paio di calze nuove. [n.d.r. viene riportato integralmente il testo del sonetto n. XVIII]

Bramante. Tempietto di San Pietro in Montorio, Roma (1502)


DOMENICA – Rime d’artista
Imminente l’uscita della prima edizione moderna degli scritti poetici e teorici del grande architetto urbinate
Bramante, poeta dei calzini
Recuperati dopo lungo oblio 25 sonetti amorosi e burleschi e la celebre “Opinio” sul tiburio del Duomo milanese
di Carlo Vecce

Donato da Urbino, detto il Bramante, iniziò il servizio alla corte di Ludovico il Moro come “ingegnere e pittore”, negli stessi anni in cui arriva a Milano anche Leonardo da Vinci. I due si trovano a lavorare insieme in imprese capitali per la storia dell’arte occidentale come, a esempio, in Santa Maria delle Grazie; ma anche nelle mille incombenze che l’incarico a corte comportava: ispezioni a fortificazioni, progetti urbanistici, decorazioni nel Castello Sforzesco, organizzazione di feste e rappresentazioni teatrali. E Leonardo ebbe a ricordare esplicitamente Bramante nei suoi manoscritti, per idee o disegni comunicatigli dall’amico: “gruppi di Bramante” (cioè “nodi”, disegni d’intrecci come quelli che Leonardo ideò per la Sala delle Asse nel Castello Sforzesco) ed “Edifitii di Bramante”; ma l’appunto più significativo è quello in cui Leonardo cita Bramante col diminutivo più familiare e intimo, Donnino: “Modo del ponte levatoio che mi mostrò Donnino” (manoscritto M, c. 53v, ca. 1499). 

Ancora insieme, ma forse su posizioni discordanti, si trovarono nella vicenda del tiburio del Duomo di Milano, per la quale Bramante presentò un parere, la cosiddetta Opinio, databile intorno al 1487-1488: esaminati i modelli degli altri architetti, Donato non risparmiò critiche per nessuno, inseguendo un modello ideale di alto tiburio a pianta quadrata, che andava contro le aspettative della commissione della Fabbrica del Duomo e anche contro le abitudini costruttive delle generazioni di tecnici e operai che si erano succedute in un secolo in quell’opera collettiva. Il documento resta per noi importante, non solo perché è l’unico frammento sopravvissuto delle scritture tecniche che Bramante ebbe a comporre, ma anche per lo stile concreto dell’argomentazione e per il richiamo di concetti di armonia e proporzionalità che vengono ripresi da Leon Battista Alberti. 

Con nessun altro, negli anni del suo soggiorno a Milano, Bramante ebbe rapporti più intensi di quelli intrecciati con il giovane patrizio Gasparo Visconti, consigliere ducale, poeta e scrittore di testi teatrali per le rappresentazioni sforzesche (la Pasitea) e ispiratore della più importante antologia di poesia alla corte sforzesca in quegli anni, il manoscritto Parigino italiano 1543, che serba la silloge dei sonetti di Bramante. L’artista viveva in una condizione d’intimità privilegiata con messer Gasparo e addirittura abitava in una casa di proprietà dell’amico; le sue rime burlesche lo presentano come attore comprimario di una sceneggiata sul tema delle calze, vecchie e logore, già acquistate coi soldi del Visconti, che ora dovrebbe finanziarne di nuove. Ma è soprattutto importante notare che è il Visconti a consacrare Bramante “poeta” di fronte al circolo dei letterati milanesi, fornendogli quella patente che, invece, Leonardo non ebbe (e non ambì di avere, come dimostrano i primi scritti sul paragone tra poesia e pittura, assolutamente contemporanei). Anzi, Bramante viene addirittura presentato in veste di censore e critico delle rime altrui, come appare nello scambio di sonetti tra il Visconti e Girolamo Tetavilla, testimoniato sia dall’autografo visconteo Trivulziano 1093, che dal codice di lusso Trivulziano 2157. A Bramante critico si aggiunge l’immagine di Bramante appassionato cultore di Dante. Sempre Visconti, nei Rithimi pubblicati nel 1493, fornisce un sonetto su Dante e Petrarca della seguente didascalia: “Non fu facto questo sonetto per voler iudicare fra due tanti huomini, ma sol per motteggiare con Bramante, sviscerato partigiano di Dante”: un’indicazione preziosa per intendere la posizione di Bramante sullo sfondo generico del petrarchismo tardo-quattrocentesco, nella cui orbita si muoveva lo stesso Visconti; e Bramante doveva farsi forza di quella linea dantesca che nelle sue Marche era ancora così viva. 

D’altro lato, la presenza del Petrarca in Bramante non appare univoca: le tessere petrarchesche, spesso clausole o spezzoni ritmici, vengono accostate a un lessico inusitato e a immagini concrete, sottratte al livello metaforico. Il brevissimo canzoniere amoroso si rivela addirittura bifronte, con un laccio antico e uno nuovo, cioè un doppio amore, per due donne contemporaneamente. Bramante si permette qualche piccolo artificio, come la rima inclusiva, che dà la sensazione del martellare della parola-rima, denotando poi una certa perizia metrica e prosodica. E il livello dell’argomentazione sembra restare al di sopra di poeti contemporanei come il Taccone, con risultati talvolta anche migliori dell’amico Visconti. Le rime amorose vengono, infine, sganciate da quei riferimenti occasionali (nomi e circostanze reali) che pullulavano nella lirica cortigiana: riferimenti che, invece, tornano prepotenti nelle rime burlesche, con un’evidenza che fornisce dati utili anche alla ricostruzione di vicende biografiche dell’autore non illuminate da altri documenti (il viaggio in Liguria e Piemonte, lo stipendio dell’artista, la familiarità con Bergonzino Botta e Marchesino Stanga). Si tenga sempre presente, però, che i temi del mantello lacero e delle calze rotte, del ronzino, della povertà e della richiesta di denari, rientrano interamente in quel gioco convenzionale e collettivo della poesia cortigiana burlesca, nei campioni più vicini al Bramante: il Bellincioni e il Pistoia. È significativo notare che nessuno dei poeti sforzeschi accenni, se non di sfuggita, al vero mestiere di Donato, accettato come poeta fra poeti, anche all’interno di dispute. Né bisogna dimenticare che la composizione di alcuni dei suoi sonetti poteva avvenire “allo improvviso”: Bramante, nel corso d’un banchetto, improvvisò un sonetto derisorio nei confronti di Paolo da Taegio. Era l’espressione di un carattere aperto e giocoso, del quale poteva ancora testimoniare il Vasari: “Fu persona molto allegra e piacevole e si dilettò sempre di giovare à prossimi suoi. (...) Dilettavasi de la poesia e volentieri udiva e diceva in proviso in su la lira e componeva qualche sonetto, se non così delicato come si usa ora, grave almeno e senza difetti.”. E il gioco poteva spingersi a prendere in giro, verso la fine del secolo, il clima di profetismo apocalittico che aveva pian piano preso il posto di quella “festamobile” ch’era stata la Milano di Ludovico il Moro: ancora una volta sulla stessa linea di Leonardo e delle sue profezie, Bramante mette in scena, in un suo sonetto, una spaventosa danza macabra, una resurrezione dei morti nel giorno del Giudizio: nient’altro che uno scherzo, che si rivela essere la descrizione del gioco dei dadi sul tavoliere. 

Poi, la poesia tace. Crolla il ducato di Milano nel 1499, Bramante si stabilisce a Roma, dove costruisce la sua gloria e la sua fortuna, soprattutto in simbiosi con le idee grandiose e terribili di papa Giulio II, che entusiasmò con i progetti del Belvedere e di San Pietro. Aveva ancora lo spirito di giocare, come dimostrò nel curioso geroglifico del Belvedere; e, probabilmente, continuò a recitare a Roma il sonetto sui dadi; e c’era anche il tempo di leggere e commentare Dante a papa Giulio. Raffaello, che gli doveva molto, lo ritrasse come Euclide nella Scuola d’Atene e la celebre lettera a Leone X, in larga misura elaborata dal Castiglione, raccolse, comunque, idee del maestro. Ma si accrebbe il suo isolamento e scarsi restarono i contatti con la cultura umanistica romana: nella Roma del trionfo del ciceronianismo, Bramante si finse un ignorante.


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