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venerdì 23 maggio 2014

Adriano Zecchina. Alchimie nell'arte. La chimica e l'evoluzione della pittura. Zanichelli editore, 2012


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Adriano Zecchina
Alchimie nell'arte. 
La chimica e l'evoluzione della pittura

Zanichelli editore, 2012
Isbn 9788808199058

Perché Tiziano non dipingeva con i gialli di van Gogh? Cosa c’entrano i colori con la chimica? Da cosa sono legate arte e scienza?

La letteratura sui colori è sterminata. Un posto merita anche Alchimie nell’arte, di Adriano Zecchina, un libro di divulgazione scientifica straordinariamente piacevole, scritto da un chimico con la passione della pittura. Ebbene sì, anche nell’arte c’entra la chimica. Una sciagura, per chi (come me) di chimica non capisce nulla; ma è una fortuna poter leggere il libro e capire che la storia dell’arte può essere letta anche guardando a come gli artisti utilizzarono le tecnologie a loro disposizione per dipingere i loro quadri. E quando parliamo di tecnologie, stiamo parlando sostanzialmente di colori.

Ci sono alcuni concetti base da richiamare: innanzi tutto, che la luce bianca prodotta dal sole in realtà è costituita dai colori dell’iride, che sono emessi su lunghezze d’onda differenti. La luce bianca può essere scomposta (il classico esempio dell’arcobaleno è noto a chiunque). Ci sono minuscole sostanze (i pigmenti, a loro volta naturali o artificiali, cioè creati dall’uomo) che assorbono determinate lunghezze d’onda nella gamma dei colori dell’iride e che restituiscono all’esterno un colore ad esso complementare. Un pigmento che assorbe ad esempio la parte estrema del rosso diffonde il suo colore complementare, ovvero il violetto. Tutto qui. A voler essere prosaici, la storia dell’arte è solo una questione di pigmenti, assorbimento e diffusione della luce,

Eppure – e per fortuna - il mondo del colore è un mondo assolutamente affascinante; e in fondo credo sia questo il merito principale dell’opera di Zecchina: che spiega le cose con passione; che ci guida nell’esame dei pigmenti a disposizione dell’essere umano dalla preistoria ai giorni nostri da un lato con lo stupore del bambino dall’altro col divertimento di chi sa cosa c’è dietro. Se fossimo ad un concerto rock noi saremmo gli spettatori del concerto, ma Zecchina ci permetterebbe di dare un’occhiata al backstage.

E’ così ad esempio che impariamo che la gamma dei pigmenti è stata relativamente ridotta per millenni, e che la vera e propria impennata (in una prospettiva storica) si è avuta con la nascita della chimica moderna, fra il 1750 e il 1850, con la sintesi di pigmenti artificiali inorganici (chi non ha mai sentito nominare il blu di Prussia?); e che poi, con l’arrivo dei pigmenti di natura organica, a fine Ottocento, la gamma dei colori è quanto meno quintuplicata; per poi divenire infinita con l’arte digitale, dove però di pigmenti (e pennelli) non si parla più, ma si fa riferimento al mondo dei pixel.

L’arte, insomma, diventa democratica, nel senso che diventa accessibile a tutti sia in termini di costi di produzione sia in termini di potenziali clienti, con la rivoluzione industriale. I tubetti di stagno che contengono i colori (ossia i pigmenti già mescolati con l’olio di lino) vengono introdotti nel 1840. Prima, i colori venivano prodotti a mano e utilizzati con grande parsimonia: chi di noi non ha mai sentito dire, di fronte a un quadro contemporaneo, che la pittura di un’artista è molto materica? Al di là degli aspetti tecnici, Giotto non si sarebbe mai sognato di applicare strati densi di blu oltremare proveniente dall’Afghanistan e costoso quanto l’oro per la sua Cappella degli Scrovegni. E già la decorazione della Cappella fu impresa costosissima, non a caso finanziata da una famiglia di usurai che voleva così mettersi avanti nell’acquistare un trattamento di favore al momento del giudizio di fronte all’Eterno.

Naturalmente gli artisti nulla sapevano delle proprietà chimiche dei pigmenti: l’uomo ha iniziato a dipingere (a dipingersi) in via del tutto empirica; la gamma dei pigmenti, così come la lavorazione dei medesimi, e le tecniche di lavorazione dell’opera (affresco, encausto, niello, tempera, olio) hanno sempre costituito una massa di informazioni (veri e propri segreti) gelosamente custodita e tramandata il più delle volte per via orale, nelle botteghe degli artigiani. I testi (fondamentalmente medievali) che tramandano vere e proprie ricette per fabbricare colori sono rarissimi e particolarmente preziosi. Molto spesso si tratta di compilazioni che procedono per stratificazioni successive; in cui cioè si parte con un insieme iniziale di prescrizioni e si aggiungono le ricette man mano. Questi testi (salvo eccezioni) passano di generazione in generazione da una bottega all’altra.

Siamo nel regno dell’alchimia (intendendo di fatto come alchimia ciò che viene prima della chimica moderna). E’ assolutamente logico che questo mondo viva anche di aspetti magici ed esoterici. Se l’uomo, sulla base di pura esperienza, e senza nulla sapere di chimica, riesce ad estrarre ad esempio il mercurio dal cinabro, non vi è nulla che impedisca di mettersi alla caccia della pietra filosofale.

Fra i testi a noi noti che meglio rendono conto dello stato delle conoscenze artigianali non vi è dubbio che due spicchino su tutti: il De diversis artibus del monaco Teofilo (scoperto alla fine del Settecento, compilato in area nord-Europea, probabilmente nell’XI secolo; molto curiosamente questo testo è stato tradotto in italiano una sola volta nel 2000, da Adriano Caffaro, e per merito di una minuscola casa editrice di Salerno) e Il Libro dell’Arte di Cennino Cennini, a cui (ovviamente) fa ampio riferimento anche Zecchina. Quanto Il Libro dell’Arte di Cennino Cennini (di fine 1300) sia stato importante nell’ambito artistico, a partire dalla pubblicazione della prima edizione, nel 1821 è cosa di cui si può avere immediata percezione andando a guardare le decine di edizioni che ne sono state pubblicate in tutto il mondo.

Il motivo è semplice: ad essere interessati non sono stati solo gli storici della scienza, ma gli stessi artisti (in particolare sul finire dell’Ottocento e all’inizio del Novecento si sviluppano in tutta Europa movimenti come l’Art Nouveau e le Secessioni che mirano a recuperare una dimensione più spirituale dell’arte, anche tramite il recupero delle tecniche medievali); e, ancora, ad essere interessatissimi sono ovviamente i restauratori, nonché i teorici dell’arte, che cercano di cogliere nel lessico tecnico usato da Cennino il momento di passaggio dal Medioevo all’Umanesimo.

Il mondo di chi si muove attorno ai colori è davvero affascinante, e assolutamente ricco di legami inaspettati e di figure strabilianti. Ne citeremo un paio: nel suo libro Zecchina ci parla del celebre falsario Icilio Federico Joni (un pregio dell’opera non banale: l’indice analitico e quello dei colori permettono di muoversi agilmente fra le pagine): e naturalmente penseremmo tutti a qualcuno che conduce un’esistenza criminale e clandestina; quando in realtà Joni era famosissimo e godeva di stima e amicizie incondizionate: il miliardario americano Forbes (appassionato di storia delle tecniche artistiche e con un laboratorio privato che poi donerà alla Yale University facendola diventare una dei centri principali dello studio sulla tecnica a tempera) mandava i suoi allievi più brillanti da Federico Joni per imparare i trucchi del mestiere: fra questi anche quel Daniel Thompson che Zecchina cita a p. 82.

Ma lo studio delle tecniche artistiche è anche un modo per affrancarsi da un’immagine delle donna stereotipato e retrivo come quello dell’Inghilterra vittoriana di metà ‘800. A pubblicare il manoscritto bolognese che l’autore cita sempre a p. 82 è Mary Philadelphia Merrifield, autrice dei famosissimi Original Treatises on the Arts of Painting, madre di cinque figli, inizialmente senza nessuna particolare conoscenza altolocata, ma con la passione sconfinata per scienza e pigmenti. Questa donna, semplicemente facendo leva sul suo talento, girerà tutta Europa e porterà due dei suoi cinque figli con sé per tradurre i manoscritti che man mano andava scoprendo. Strano? Assolutamente sì. Ancor di più se si pensa che a tradurre in prime bozze il manoscritto bolognese fu Charles, che all’epoca aveva 18 anni. Andò bene: l’altro figlio (Frederick) traduceva dallo spagnolo e di anni ne aveva 14.

Né, e qui concludo, mancano le sorprese. E’ di soli 10 giorni fa l’annuncio di Erik Kwakkel di aver ritrovato di aver ritrovato una specie di ‘dizionario dei colori’ olandese di fine 1600 conservato presso la Biblioteca di Aix-en-Provence. Se per un’edizione critica di questo manuale di oltre 800 pagine dovremo aspettare probabilmente ancora anni, la tecnologia ci permette già di sfogliarlo nella sua interezza a questo link: http://www.e-corpus.org/notices/102464/gallery/. E’ semplicemente magnifico.
Il mondo dei colori non finisce di stupirci. Grazie ad Adriano Zecchina per avercelo fatto meglio conoscere.

Una pagina del manoscritto di Aix-en-Provence



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