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Adriano Zecchina
Alchimie nell'arte.
La chimica e l'evoluzione della pittura
Isbn 9788808199058
Perché Tiziano non dipingeva con i gialli di van Gogh? Cosa
c’entrano i colori con la chimica? Da cosa sono legate arte e scienza?
La letteratura sui colori è sterminata. Un posto merita
anche Alchimie nell’arte, di Adriano
Zecchina, un libro di divulgazione scientifica straordinariamente piacevole,
scritto da un chimico con la passione della pittura. Ebbene sì, anche nell’arte
c’entra la chimica. Una sciagura, per chi (come me) di chimica non capisce
nulla; ma è una fortuna poter leggere il libro e capire che la storia dell’arte
può essere letta anche guardando a come gli artisti utilizzarono le tecnologie
a loro disposizione per dipingere i loro quadri. E quando parliamo di
tecnologie, stiamo parlando sostanzialmente di colori.
Ci sono alcuni concetti base da richiamare: innanzi tutto,
che la luce bianca prodotta dal sole in realtà è costituita dai colori
dell’iride, che sono emessi su lunghezze d’onda differenti. La luce bianca può
essere scomposta (il classico esempio dell’arcobaleno è noto a chiunque). Ci
sono minuscole sostanze (i pigmenti, a loro volta naturali o artificiali, cioè
creati dall’uomo) che assorbono determinate lunghezze d’onda nella gamma dei
colori dell’iride e che restituiscono all’esterno un colore ad esso
complementare. Un pigmento che assorbe ad esempio la parte estrema del rosso
diffonde il suo colore complementare, ovvero il violetto. Tutto qui. A voler
essere prosaici, la storia dell’arte è solo una questione di pigmenti,
assorbimento e diffusione della luce,
Eppure – e per fortuna - il mondo del colore è un mondo
assolutamente affascinante; e in fondo credo sia questo il merito principale
dell’opera di Zecchina: che spiega le cose con passione; che ci guida
nell’esame dei pigmenti a disposizione dell’essere umano dalla preistoria ai
giorni nostri da un lato con lo stupore del bambino dall’altro col divertimento
di chi sa cosa c’è dietro. Se fossimo ad un concerto rock noi saremmo gli
spettatori del concerto, ma Zecchina ci permetterebbe di dare un’occhiata al
backstage.
E’ così ad esempio che impariamo che la gamma dei pigmenti è
stata relativamente ridotta per millenni, e che la vera e propria impennata (in
una prospettiva storica) si è avuta con la nascita della chimica moderna, fra
il 1750 e il 1850, con la sintesi di pigmenti artificiali inorganici (chi non
ha mai sentito nominare il blu di Prussia?); e che poi, con l’arrivo dei
pigmenti di natura organica, a fine Ottocento, la gamma dei colori è quanto
meno quintuplicata; per poi divenire infinita con l’arte digitale, dove però di
pigmenti (e pennelli) non si parla più, ma si fa riferimento al mondo dei
pixel.
L’arte, insomma, diventa democratica, nel senso che diventa
accessibile a tutti sia in termini di costi di produzione sia in termini di
potenziali clienti, con la rivoluzione industriale. I tubetti di stagno che
contengono i colori (ossia i pigmenti già mescolati con l’olio di lino) vengono
introdotti nel 1840. Prima, i colori venivano prodotti a mano e utilizzati con
grande parsimonia: chi di noi non ha mai sentito dire, di fronte a un quadro
contemporaneo, che la pittura di un’artista è molto materica? Al di là degli
aspetti tecnici, Giotto non si sarebbe mai sognato di applicare strati densi di
blu oltremare proveniente dall’Afghanistan e costoso quanto l’oro per la sua
Cappella degli Scrovegni. E già la decorazione della Cappella fu impresa
costosissima, non a caso finanziata da una famiglia di usurai che voleva così
mettersi avanti nell’acquistare un trattamento di favore al momento del
giudizio di fronte all’Eterno.
Naturalmente gli artisti nulla sapevano delle proprietà
chimiche dei pigmenti: l’uomo ha iniziato a dipingere (a dipingersi) in via del
tutto empirica; la gamma dei pigmenti, così come la lavorazione dei medesimi, e
le tecniche di lavorazione dell’opera (affresco, encausto, niello, tempera,
olio) hanno sempre costituito una massa di informazioni (veri e propri segreti)
gelosamente custodita e tramandata il più delle volte per via orale, nelle
botteghe degli artigiani. I testi (fondamentalmente medievali) che tramandano
vere e proprie ricette per fabbricare colori sono rarissimi e particolarmente
preziosi. Molto spesso si tratta di compilazioni che procedono per
stratificazioni successive; in cui cioè si parte con un insieme iniziale di
prescrizioni e si aggiungono le ricette man mano. Questi testi (salvo
eccezioni) passano di generazione in generazione da una bottega all’altra.
Siamo nel regno dell’alchimia (intendendo di fatto come
alchimia ciò che viene prima della chimica moderna). E’ assolutamente logico
che questo mondo viva anche di aspetti magici ed esoterici. Se l’uomo, sulla
base di pura esperienza, e senza nulla sapere di chimica, riesce ad estrarre ad
esempio il mercurio dal cinabro, non vi è nulla che impedisca di mettersi alla
caccia della pietra filosofale.
Fra i testi a noi noti che meglio rendono conto dello stato
delle conoscenze artigianali non vi è dubbio che due spicchino su tutti: il De diversis artibus del monaco Teofilo
(scoperto alla fine del Settecento, compilato in area nord-Europea,
probabilmente nell’XI secolo; molto curiosamente questo testo è stato tradotto
in italiano una sola volta nel 2000, da Adriano Caffaro, e per merito di una
minuscola casa editrice di Salerno) e Il Libro
dell’Arte di Cennino Cennini, a cui (ovviamente) fa ampio riferimento anche
Zecchina. Quanto Il Libro dell’Arte
di Cennino Cennini (di fine 1300) sia stato importante nell’ambito artistico, a
partire dalla pubblicazione della prima edizione, nel 1821 è cosa di cui si può
avere immediata percezione andando a guardare le decine di edizioni che ne sono state pubblicate in tutto il mondo.
Il motivo è semplice: ad essere interessati non sono stati
solo gli storici della scienza, ma gli stessi artisti (in particolare sul
finire dell’Ottocento e all’inizio del Novecento si sviluppano in tutta Europa
movimenti come l’Art Nouveau e le Secessioni che mirano a recuperare una
dimensione più spirituale dell’arte, anche tramite il recupero delle tecniche
medievali); e, ancora, ad essere interessatissimi sono ovviamente i
restauratori, nonché i teorici dell’arte, che cercano di cogliere nel lessico
tecnico usato da Cennino il momento di passaggio dal Medioevo all’Umanesimo.
Il mondo di chi si muove attorno ai colori è davvero
affascinante, e assolutamente ricco di legami inaspettati e di figure
strabilianti. Ne citeremo un paio: nel suo libro Zecchina ci parla del celebre
falsario Icilio Federico Joni (un pregio dell’opera non banale: l’indice
analitico e quello dei colori permettono di muoversi agilmente fra le pagine):
e naturalmente penseremmo tutti a qualcuno che conduce un’esistenza criminale e
clandestina; quando in realtà Joni era famosissimo e godeva di stima e amicizie
incondizionate: il miliardario americano Forbes (appassionato di storia delle
tecniche artistiche e con un laboratorio privato che poi donerà alla Yale
University facendola diventare una dei centri principali dello studio sulla
tecnica a tempera) mandava i suoi allievi più brillanti da Federico Joni per
imparare i trucchi del mestiere: fra questi anche quel Daniel Thompson che Zecchina cita a p. 82.
Ma lo studio delle tecniche artistiche è anche un modo per
affrancarsi da un’immagine delle donna stereotipato e retrivo come quello
dell’Inghilterra vittoriana di metà ‘800. A pubblicare il manoscritto bolognese
che l’autore cita sempre a p. 82 è Mary Philadelphia Merrifield, autrice dei
famosissimi Original Treatises on the Arts of Painting, madre di cinque figli,
inizialmente senza nessuna particolare conoscenza altolocata, ma con la
passione sconfinata per scienza e pigmenti. Questa donna, semplicemente facendo
leva sul suo talento, girerà tutta Europa e porterà due dei suoi cinque figli
con sé per tradurre i manoscritti che man mano andava scoprendo. Strano?
Assolutamente sì. Ancor di più se si pensa che a tradurre in prime bozze il
manoscritto bolognese fu Charles, che all’epoca aveva 18 anni. Andò bene:
l’altro figlio (Frederick) traduceva dallo spagnolo e di anni ne aveva 14.
Né, e qui concludo, mancano le sorprese. E’ di soli 10
giorni fa l’annuncio di Erik Kwakkel di aver ritrovato di aver ritrovato una
specie di ‘dizionario dei colori’ olandese di fine 1600 conservato presso la
Biblioteca di Aix-en-Provence. Se per un’edizione critica di questo manuale di
oltre 800 pagine dovremo aspettare probabilmente ancora anni, la tecnologia ci
permette già di sfogliarlo nella sua interezza a questo link: http://www.e-corpus.org/notices/102464/gallery/.
E’ semplicemente magnifico.
Il mondo dei colori non finisce di stupirci. Grazie ad
Adriano Zecchina per avercelo fatto meglio conoscere.
Una pagina del manoscritto di Aix-en-Provence |
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