English Version
Luciano Mazzaferro
Giovan Battista Marino:
interessi artistici fra cortigianeria e collezionismo
Terza parte - Le Lettere
Terza parte - Le Lettere
[Nota
di Giovanni e Francesco Mazzaferro: questo testo è la trascrizione e la
traduzione fedele di un manoscritto scritto da nostro padre, Luciano Mazzaferro (1928-2004) poco prima del 2000, a
commento di tre opere di Giovan Battista Marino (1569-1625), in cui emergono
gli interessi artistici del poeta barocco: la prima delle sue Dicerie sacre, la Galeria
e le Lettere. Il titolo dello scritto, così come la suddivisione in
paragrafi e le note sono di nostra redazione]
Le Lettere: lo
specchio del collezionismo di Marino
Le lettere del Marino danno indicazioni essenziali
e insostituibili sulla sua instancabile e quasi maniacale attività di collezionista,
sui suoi orientamenti e preferenze e sui rapporti che stabilì con artisti, con
amatori e con qualche procuratore d’affari.
Anche lui, come molti altri di quei tempi, coltivò
una gerarchia di generi e ritenne che alcune categorie di soggetti avessero una
dignità sociale e un valore artistico superiori ad altri tipi di
raffigurazione, ma non ci vuole molto per capire che la sua “graduatoria” non
si basava su valutazioni astratte, su considerazioni di principio estetico o
addirittura di sapore moralistico. Per lui la “gerarchia dei generi” obbediva a
preferenze personali e risentiva, al massimo, di talune obiettive esigenze di
mercato. Era, a ben vedere, una persona che, pur tenendo alle proprie idee,
teneva i piedi ben poggiati in terra. Nei suoi elenchi di cose desiderate non
si fa mai riferimento a disegni e a pitture di rievocazione storica non perché
ignorasse il pregio in cui erano tenute o nutrisse una sentita antipatia nei
loro confronti: si comportava così per il semplice motivo che realizzazioni
pittoriche di tal genere non se le poteva permettere, non erano in altre parole
a portata di mano o negoziabili con quel che voleva o poteva dare in cambio. Di
grandi pale d’altare si disinteressava completamente, perché sapeva benissimo
che, per loro natura, erano destinate a chiese ed enti religiosi, a
collezionisti di prim’ordine, a famiglie nobili e signori che, al piacere per
simili pitture, dovevano aggiungere gli impegni derivanti da forme di
giuspatronato su oratori, cappellanie e su istituzioni di peso anche maggiore.
Le sue preferenze andavano alle scene mitologiche e a quelle raffigurazioni
che, non a caso, descrisse in apertura della Galeria. E nel parlare di
scene ispirate al mondo classico e di rappresentazioni spesso in contrasto con gli
indirizzi del concilio tridentino e con molte cose dette per opportunità nelle
sue stesse Dicerie sacre, tendeva a mostrarsi piuttosto disinvolto,
quasi spregiudicato. In una lettera, indirizzata a Ludovico Carracci, chiese –
oltre a quello già ricevuto – un altro “scherzo”, magari “di suo capriccio”,
senza però troppo pensiero di mostrare “tanta onestà”: quindi, per togliere di
mezzo ogni equivoco, lo invitò a non farsi “scrupolo di esercitare la sua mano
in fantasie oscene e lascive, poiché la cosa ha da rimanere nello studio”
privato di un gentiluomo che avrebbe mostrato il disegno (Marino gradiva che si
rappresentassero “Salmace ed Ermafrodito”) “a persone se non care” (pag. 62).
Oltre a scene ancorate alla letteratura greco-romana, erano poi graditi i
ritratti, per lo più a mezzo busto, le miniature e, in genere, le immagini di
piccolo taglio. Se i temi religiosi ed edificanti restavano fuori dalla cerchia
dei suoi desideri, qualche soggetto ricavato dall’antico testamento e
rappresentabile con la stessa libertà di un mito classico poteva però
richiamare la sua attenzione, com’è provato da quella “Giuditta ed Oloferne” di
Cristoforo Allori per cui provò una vera cupidigia di possesso.
Il problema delle
copie
Non mi pare che facesse molta differenza tra
originali e repliche, purché, beninteso, si trattasse di lavori rieseguiti
dallo stesso artista; ebbe invece ben chiaro il divario tra originale e copia
affidata ad altra mano. Ma, toccando questo argomento, bisogna avere le idee
ben chiare. Il Marino non ebbe mai per le “copie” quella specie di disprezzo o
di disgusto che è tipica di questi ultimi due secoli e propria di quei critici
e storici dell’arte sui cui scritti tutti noi ci siamo formati. In linea di
principio, Marino non fu contrario alle copie e, in più casi, le richiese anche
con qualche insistenza. Per lui la copia poteva rivestire un indiscutibile
valore di documentazione e di testimonianza e con questo modo di pensare non
dovette sentirsi completamente isolato, come appare chiaro a chiunque abbia
l’avvertenza di leggere con un po’ di pazienza il catalogo che il cardinale Federico Borromeo compilò per la collezione da lui costituita a Milano [18].
Ma, pur dando libero accesso alle copie e pur evitando di considerarle come la
peste destinata a corrodere qualsiasi raccolta di beni artistici, il Marino
ebbe sempre l’avvedutezza di distinguerle dagli originali per varie
considerazioni, tra le quali sicuramente andava posto il diverso valore
economico attribuito al lavoro di un maestro e al rifacimento di qualche
seguace. Il suo atteggiamento ci risulta chiaro in più occasioni. E’ vero che
più di una volta chiese agli amici alcune opere in prestito per poterne
ricavare delle copie; ma è anche vero – e questo atteggiamento mi sembra assai
più significativo – che non concesse mai degli originali in suo possesso agli
stessi amici che aveva in precedenza disturbato, perché fossero loro a ricavare
delle copie, ricorrendo a pittori di fiducia. No, questo mai. E quando si trovò
stretto alle corde, se ne uscì con frasi ad effetto nel mondo degli amatori:
non parlò di sue paure o di possibili truffe a suo danno; evitò accuratamente
di suscitare sospetti, ombrosità o pericolosi risentimenti, ma diede la colpa
alla sua particolare indole facendo cenno ad una specie di gelosia che gli
avrebbe impedito di accogliere la richiesta. Un’eco, sia pur riflessa, di
questo atteggiamento s’avverte in una lettera del 1603, in cui il poeta afferma
d’essere così legato all’opera richiesta da volerne rimanere “tirannicamente” il
solo “goditore” (pagg. 42 sg.). Qualche altra frase del medesimo tono si riesce
a coglierla in questa bella raccolta di lettere, ma s’avverte lontano un miglio
che a guidare il Marino era soprattutto il sospetto d’essere raggirato. Voleva
assolutamente evitare che, al posto dell’opera originale, gli fosse restituita
una copia. Di qui il diniego di cui ho appena detto; di qui anche vari maneggi
ed espedienti per differire gli impegni o per assolverli, quando non se ne
fosse potuto fare a meno, senza dover rimuovere l’originale. E sempre con
questo timore si spiega la serie di avvertenze impartite per la spedizione, al
suo domicilio, di opere appena uscite dalla bottega dei pittori o, quando
accadde, di lavori acquistati sul mercato. Le opere andavano consegnate a mani
sicure sia perché fosse evitato il rischio di perdite accidentali, sia perché
non venissero in mano di persone che, troppo bramandole, fossero tentate di
ricorrere ai buoni uffici di qualche copista, tenendo così l’originale e
facendo recapitare la contraffazione (pag. 45).
I disegni
L’autore dell’Adone amava i disegni (l’ho detto già
parlando della Galeria), li collezionava con cura ed era indotto a distinguerli
in base a caratteristiche che andavano assai oltre la consueta classificazione per
argomenti raffigurati. L’esame delle lettere induce a ritenere che il Marino
pensasse a tre tipi di lavori. In maggior conto andavano tenuti i disegni
pensati come lavoro autonomo e come prodotto finito, e non già come una fase
intermedia tra ideazione e definitiva resa delle immagini in pitture o
sculture. Per questo primo gruppo di disegni era indotto a comportarsi come se
si trovasse di fronte a dei quadri e spesso segnalava le dimensioni e precisava
all’artista sia i colori più graditi sia il procedimento tecnico che sarebbe
stato opportuno seguire. In un secondo raggruppamento o categoria venivano
invece a porsi i disegni occorrenti per l’esecuzione delle opere definitive e che per loro natura potevano andare
incontro ad aggiustamenti e modifiche dovute a qualche nuova intuizione, a
pentimenti o ad esigenze tecniche: questi disegni “preparatori” rappresentavano
dei documenti interessanti sul percorso seguito dall’artista, ma era per il
Marino inevitabile che l’opera finita (tela o statua, poco importa) li
declassasse respingendoli in un piano inferiore. Significativo mi sembra un
passo d’una lettera spedita da Parigi nel 1622 e indirizzata a don Lorenzo
Scoto, cappellano dei Savoia: “Mi scriveste d’aver ricevuto un disegno… del
quale avevate il quadro. Chi possiede il più che ha da fare del meno? e se
avete il figurato, che vi bisogna dell’ombra? Orsù, non tante chiacchiere;
mandatelo, se non volete” che io mi metta a parlar male di voi (pag. 318). C’è
dell’ironia; c’è della confidenza e c’è anche voglia di scherzare, ma rimane
egualmente fermo che simili nozioni e differenze (come il divario tra il
“figurato” e la sua “ombra” o tra il “più” della pittura e il “meno” del lavoro
meramente grafico e steso per necessità tecniche) sono scodellate quando si
parla di disegno preparatorio e non in altre circostanze.
Vi era infine un ultimo gruppo di disegni, il
terzo, costituito dai cosiddetti “abbozzi” che il committente di una pittura
aveva diritto di richiedere per prefigurare, col fiuto tipico del buon intenditore,
la bellezza dell’opera che intendeva acquistare o per verificare, nel limite
del possibile, se l’artista avesse correttamente inteso le istruzioni che gli
erano state impartite. Si legga quel che il poeta scrisse al citato don Lorenzo
per avere una tela del Morazzone: “Il suggetto che manca [n.d.r. nella mia
raccolta], e ch’io desidero, è il contrasto tra Minerva e Nettuno, cioè quando
quella con la percossa dell’asta fa nascere l’olivo e questo col tridente il
cavallo. Se questa materia sarà conforme al suo genio [n.d.r. si allude
ovviamente al Morazzone] bene; se non, avisatemi, ché la scambierò, lasciandola
per qualch’altro pittore…”. Ed eccoci al sodo: “Fatene fare il disegno prima e
mandatelo…: e destramente cavategli di bocca il prezzo che ne pretende, perché
non voglio che resti per danari” (pag. 317). Il disegno, qui inteso come
semplice schema d’ideazione, è qualcosa che consente d’immaginare l’opera e –
dopo essersi ben intesi – di portare a termine le trattative, fissando il
compenso dovuto.
Ma con ogni probabilità l’aspetto più interessante
delle Lettere è fornito dalla massa di notizie e di valutazioni che
consentono di farsi un’idea abbastanza precisa sul collezionista e di precisare
i suoi rapporti con gli esecutori delle opere da lui richieste e non di rado
sollecitate con molta insistenza. In una scheda come questa non vi può essere –
mi sembra ovvio – lo spazio necessario per affrontare, come si gradirebbe, un
argomento di tal fatta, ricco di motivazioni, di ripensamenti e di episodi
anche divertenti, e bisogna limitarsi a cogliere nei tratti essenziali qualche
filone tra i più significativi. Due o tre; non di più. Così, ad esempio, non è
male accennare ad alcuni punti o brani delle lettere inviate al pittore
Bernardo Castello, già citato, che è l’artista al quale il poeta rivolse il
maggior numero di note epistolari. Il Castello, allievo del Cambiaso, era noto
per varie opere; aveva illustrato la “Gerusalemme Liberata”, era in continuo
contatto con il patriziato genovese e manteneva ottimi rapporti con il
Chiabrera. Le prime lettere del Marino risalgono al 1603 e fanno subito
intendere quale fosse lo scopo al quale il mittente mirava: “Direi ch’io sono
ambizioso di qualche particella de’ miracoli della sua mano”, ma – aggiunge il
Marino – so bene che il mio è “soverchio ardimento” (pag. 34). Va da sé che si
tratta di un semplice complimento: dopo i convenevoli, il poeta corre al sodo
supplicando “caldamente” il Castello di fornirgli qualcosa di suo ed offre in
cambio di sostenerlo nell’ambiente romano. Nella lettera successiva aumentano
le espressioni elogiative e, con esse, le insistenze del collezionista. Sembra
che almeno allora ogni lavoro gli tornasse gradito, qualunque fosse il tema
toccato: “In quanto all’opera di sua mano, sappia che non è cosa ch’io più
ardentemente disideri in questa vita, ma il non aver tanto merito appo lei mi
scema alquanto la speranza d’ottenere il favore. Pure quando volesse degnarmi
di tanto, rimetterei in tutto e per tutto le condizioni al suo arbitrio ed alla
sua cortesia: o profana o sacra, pur che sia fantasia di suo capriccio, me ne
riputerò fortunatissimo…” (pag. 36). Da vecchia volpe com’era, il Marino riesce
però in poco tempo a portare il pittore sul terreno più aderente ai propri
gusti; e il Castello concorda di spedirgli, senza alcun dubbio in omaggio, una Venere
che purtroppo giunge al poeta alquanto guasta per un difetto d’imballaggio.
“E’ giunta” - leggo a pag. 39 – “la Venere di V.S., ma tanto ha avuto di
disavventura, che mi è pervenuta tutta guasta alle mani, in guisa ch’io l’ho
mirata con altrettanto dispiacere con quanto desiderio la stava aspettando;
perciocché, essendo la dipintura assai fresca, in quell’invoglio, dove era
avviluppata, si son cancellati tutti i colori…”. Per porre rimedio ai danni, il
Marino consegna la tela al cavalier d’Arpino che aveva “promesso di
riconciarla” nei limiti del possibile. Pur mostrandosi rattristato per
l’accaduto, il poeta si profonde in ringraziamenti e assicura che, a dispetto
del guasto subito, la pittura gli sarebbe rimasta sempre assai cara. Purtroppo
– si legge in un’altra lettera – il cavalier d’Arpino si è limitato a compiere
qualche ritocco di modesta entità “perché nel resto non volse metterci mano, sì
per modestia, come anche perché gli pareva difficilissimo il potere immitare
[n.d.r. sic] bene” lo stile dell’autore “e far che i colori nuovi e freschi non
si conoscessero dagli altri temperati per altra mano” (pag. 40). I complimenti
si susseguono senza sosta: il Marino torna a scrivere al pittore per dirgli
che, colpito da fastidiosi attacchi febbrili, aveva trovato “consolamento e
refrigerio” nell’ammirare continuamente la Venere. L’aveva fatta porre
“a riscontro del letto e tutto il dì” la vagheggiava (pag. 41). Per quanto
guasta, la Venere sembrava aver assunto le virtù di un’icona miracolosa.
E, a riprova delle sue qualità, di miracoli ne fa presto due: il Marino (questo
in verità era pressoché scontato) guarisce e il Castello (e ciò, bisogna
ammetterlo, non era egualmente prevedibile) si sbilancia e promette una nuova Venere,
“l’altra figura” come la battezza il Marino. E, poiché il ferro va battuto
finché è caldo, parte un’ulteriore lettera sempre diretta al Castello: “Aspetto
la figura promessa” – trovo nella lett. 27 a pag. 43 – “con tanto sfinimento
d’animo, che mi par mill’anni vederla; e scusi V.S. la mia ingordigia,
perciocché io stimo più una linea della sua mano che tutti i tesori del mondo”.
Poco dopo comunica al pittore genovese che il d’Arpino, informato del prossimo
arrivo del secondo quadro, ha manifestato il “desiderio di vederlo quanto
prima” (pag. 44). Finalmente, e siamo ormai nel 1604, la nuova Venere
vien fatta recapitare nella casa in cui alloggiava il Marino. “La Venere
di V.S.” – rinvengo a pag. 48 – “mi è giunta tanto cara quanto desiderata. E’
stata qui mirata ed ammirata da molti… Rendo a V.S. infinite grazie del favore,
del quale sì come sommamente godo, così sommamente mi glorio, assicurandola
ch’io serberò in perpetuo non meno che la figura depinta [n.d.r. sic] la
memoria scolpita di tanta cortesia”. L’ultima parola è assai eloquente: quello
di Bernardo Castello non è un lavoro retribuito, ma una cortesia che va
ripagata con la stessa moneta. Quando verrà il momento opportuno, il poeta gli
dedicherà versi di elogio.
I rapporti tra il pittore e il poeta non furono –
per quanto ne so – mai interrotti e nella Galeria il Marino descrisse,
elogiandole, varie opere di Castello e vi incluse, considerandosi suo amico, un
sonetto per un lutto che l’aveva colpito. Eppure, con l’andare degli anni,
qualcosa doveva inevitabilmente cambiare: via via che la sua reputazione si
consolidava, il Marino tendeva a smorzare il tono degli incensamenti e ad
impartire intenzioni più dettagliate e meno arrendevoli; allo stesso tempo era
indotto a contenere o, quanto meno, ad incanalare le richieste che riteneva
eccessive e troppo impegnative per lui. Marino sentiva d’aver avanti a sé un
uomo debole e vien fatto di pensare che qualche volta ne abbia approfittato. Da
Torino, qualche anno dopo la vicende delle due Veneri, l’autore dell’Adone
riscrive al Castello per ottenere in breve tempo un nuovo disegno. Nella
lettera successiva, spazientito per l’attesa, gli fa sapere: “non voglio che
vada così in lungo. Caro Signor Bernardo, io so che, quand’Ella vuole, è
altrettanto presta quanto eccellente”. E aggiunge in forma concisa, quasi
sbrigativa: “Vorrei che [n.d.r. il disegno] fusse in carta turchina, illuminata
di biacca, ma con isquisita diligenza, perché ha da comparire con molti altri
di diversi valenti uomini. La misura sarà una facciata di questa medesima carta
in cui scrivo a V.S., alquanto più piccola, con la figura per questo verso”
(pag. 114). Poi, in sole sei parole, null’altro che un saluto di rito. I vecchi
svolazzi sono scomparsi. Un paio d’anni dopo usa un linguaggio solo in
apparenza più morbido: “Ricordisi ch’io l’amo, l’osservo ed ammiro… Ma
ricordisi ancora delle promesse. V.E. m’è debitore d’una testa e di non so che
altro. Insomma, se ha qualche cosetta di bello, non lasci di mandarmela subito,
ché già n’è tempo… Se lo faria, io invierò all’incontro a V.S. qualche segno e
testimonio dell’amor che le porto in alcun componimento” (pag. 132). Ma resta
in ogni caso fuor di discussione che spetterà a lui, cioè al Marino, decidere
che cosa andrà scritto e in che occasione scrivere. Ce lo provano due lettere,
anch’esse spedite da Torino. Il Castello aveva chiesto al Marino dei versi che
gli tornassero di qualche utilità. Ed il Marino risponde affermativamente, ma
ponendo condizioni tali da rendere la sua disponibilità priva dell’attrattiva
che più contava agli occhi del pittore genovese. Insomma, il Marino risponde
che scriverà i versi richiesti, soltanto “quando ella [n.d.r. ossia il
Castello] si risolvesse di non pubblicarmi per auttore, ma si contentasse di
porvi altro nome, o il suo istesso, o d’altro amico suo intrinseco…” (pag.
142). Il concetto viene ribadito nella lettera immediatamente seguente, la n.
98. Il Castello aveva probabilmente bisogno dell’autorità e della firma del
Marino, ma questi non desiderava assolutamente allontanarsi dalle sue
posizioni: “Replico di bel nuovo a V.S. che, se vorrà risolversi di fare andar
gli argomenti sotto nome suo, o d’un suo figlio, o di qualche amico, io mi
applicherò a fargli [n.d.r. sic] senz’altro; e le prometto e giuro sotto parola
d’infamia che per me non si saprà mai, ma darò al fuoco gli originali…” (pag.
143). Che cosa sia poi accaduto non lo so, ma ho più di un motivo per
concludere che la richiesta del pittore sia definitivamente caduta nel nulla:
il Marino era disposto a concedere tutto fuorché il proprio nome. Forse era
portato a concedere tanto per un motivo di fondo: sapeva cioè che quel “tanto”
non interessava per niente il Castello. Trascorsero vari anni prima di trovare un
ulteriore documento epistolare; poi, quando meno ce lo saremmo atteso, nella
raccolta edita da Einaudi appaiono due lettere, la n. 193 (pag. 356) e la n.
198 (p. 363), tutt’e due brevi e tutt’e due del 1623. Nella seconda (ossia
nella lettera 198) il poeta parla di un quadretto del Castello e gli vien fatto
di dire: “io penso di tenerlo vicino al letto, per far le mie orazioni alla
beatissima Vergine…”. Ma, mi chiedo, non aveva detto vari anni prima di tenere
proprio lì, vicino al letto, un altro lavoro del Castello? Ha cambiato gusti?
ha per caso pensato che fosse venuto il momento, considerati i molti acciacchi
di cui soffriva, di togliere la Venere e di mettere la Madonna? oppure
questa faccenda dei quadri collocati vicino al letto altro non era se non un
accorgimento retorico, una bella frase di sicuro effetto?
Con Bernardo Castello può bastare. Passo quindi ad
altro artista. Mi riferisco al modenese Bartolomeo Schedoni, temperamento più
forte del pittore genovese, personalità artistica più schietta, ma carattere
non sempre prevedibile nelle sue reazioni. I rapporti col poeta, difficili e
persino difficilissimi per vari anni, si aggiustano solo sul tardi, non molto
prima della morte prematura del pittore. Lo Schedoni (l’abbiamo saputo in
questi ultimi decenni) valeva molto e il Marino, che ne aveva inteso la
grandezza, non si trasse indietro, perseverò nelle sue richieste, alternò gli
elogi con i rimbrotti e alla fine con l’aiuto di due amici (Fortuniano
Sanvitale e Guidubaldo Benamati) riuscì a venirne a capo. Anche se il Marino dice
di aver scritto più volte direttamente al pittore, nessuna di queste note è
giunta sino a noi e dobbiamo per forza di cose accontentarci delle lettere
indirizzate al Sanvitale e a Benamati, bastevoli per la verità a rappresentare
le difficoltà incontrate dal Marino e i suoi palesi momenti di cattivo umore.
Il poeta incominciò ad interessarsi dell’artista modenese nel 1609 (o,
addirittura, prima del 1609), ma i suoi sforzi incominciarono a produrre
qualche risultato dopo più tentativi e vari scoppi d’ira veri o simulati. Nel
1613, forse nel 1614, si rivolse al Sanvitale, suo intimo amico residente a
Parma, dicendo o, meglio, urlando: “Al signor Schidoni [n.d.r. sic] mando una
disfida capitale; e se vorrà aspettarmi in campo, sappia che ha da far meco
duello. Armisi pure di lapis e di colori, perché se non supplirà al mancamento
passato con qualche cosetta di suo gusto, lo cancellerò dal libro, o dirò mille
mali del fatto suo negli elogi de’ pittori moderni, ch’io vo tenendo” (pag.
149). E’ chiaro il riferimento alla Galeria. Poco dopo, sempre rivolto
al Sanvitale, il Marino scrive in modo tale che la lettera, fatta leggere allo
Schedoni, sia in grado di conseguire il duplice scopo di fargli intendere il
suo disappunto e, al tempo stesso, la sua considerazione per l’attività che
andava svolgendo. Leggo un brano della lettera 84 a pag. 150: “…io dovrei
cancellarlo in tutto e per tutto dall’animo mio, come nemico capitale non dico
della cortesia, ma della civiltà, non degnandosi di rispondere alle lettere…;
tale e tanta nondimeno è la forza della virtù, che l’amo tuttavia, o per dir
meglio amo non lui, ma in lui il suo valore, e l’onoro e lo predico e lo
essalto [n.d.r. sic] e lo celebro, sì come in breve faranno fede alcune opere
mie segnate dal suo nome”. Ma nulla cambia. Questa volta il Marino si rivolge
al Benamati: “Il disegno del signor Schedoni è aspettato da me con tanto
desiderio, che vo contando l’ore della tardanza e me ne struggo di sfinimento.
V.S. gli ricordi che i favori promessi quanto sono più accelerati, tanto
sogliono essere più cari: onde lo ripriego a voler contentare la mia avidità e
liberarsi della mia seccaggine” (pag. 154). Al Benamati giungono altre lettere,
una delle quali attacca così: “Le promesse del signor Schidoni sono svanite,
V.S. di grazia non gli ne sia più importuno: perché sono tutte parole gettate
al vento” (pag. 158). E’ però un cedimento temporaneo, forse una mossa
calcolata. Il Benamati riceve una nuova lettera, al cui termine il poeta chiede
se vi fosse ancora “speranza del disegno dello Schidone [n.d.r. sic]” (pag.
162). Il Marino viene poi a sapere che il pittore sta per sposarsi e ne
approfitta immediatamente per lanciare una proposta tramite il Benamati: “…
V.S. gli dica in mio nome che, se lo manderà [n.d.r. il disegno], io gli
manderò un sonetto sopra le sue nozze, e lo farò stampare con queste rime che
usciranno adesso fuora” (pag. 164), ossia nella terza parte delle Rime
in stampa a Venezia. Allo Schedoni l’idea non dispiace e il Marino, avvertito
della reazione positiva, pone tempestivamente le mani avanti: “Circa il sonetto
nuziale, quando sarà venuto il disegno ci parleremo; perché, a dirla schietta,
io non gli credo più nulla per tante volte che ha mancato alle sue promesse”
(pag. 165). Quando però il Benamati gli comunica che il lavoro è stato
consegnato dal pittore con il compito di spedirglielo, il Marino non tergiversa
più: vuol sapere il nome e il cognome della sposa per citarli nei versi che
aveva promesso, manifesta apertamente la sua soddisfazione e, come al solito,
si raccomanda che il disegno venga ben protetto per preservarlo dai danni della
spedizione (pag. 172). Quando lo riceve a Torino, esulta: “Ho ricevuto il
disegno…, il quale è stato qui da tutti gli intendenti dell’arte giudicato un
miracolo. Sono molti che hanno giurato essere del Parmigianino o del Coreggio
[n.d.r. sic]; perché non si sanno accommodare a credere che viva alcun pittore
moderno, il quale arrivi a tanta eccellenza; n’è stato dato aviso a questo
serenissimo, il quale ha voluto vederlo, e se n’è tanto compiacciuto, che non
ho dorata poca fatica a cavarglielo dalle mani. Insomma è bellissimo, ed io ne
ringrazio tanto l’autore e l’intercessore…” (pag. 173). E’ ben vero che il
formato non corrisponde alle misure che aveva indicato e “ch’io non sono stato
bene inteso da esso signor Schidoni circa la positura delle figure” ma il giudizio
complessivo non poteva variare e il lavoro restava sempre di alto pregio: “lo
serberò fra le gioie mie più care” (ivi) [n.d.r. accanto al letto?]. Lo Schedoni morirà l’anno dopo, nel 1615, ma
nei pochi mesi che gli rimasero inviò altro materiale al poeta e – vi sono
validi motivi per supporlo – con piena soddisfazione del destinatario.
Alcuni rifiuti
In numerose occasioni il Marino usò il solito
schema proponendo, ora con lusinghe ora con voce ferma, uno scambio tra opere
d’arte e versi elogiativi. Lo schema funzionò e vari pittori stettero
volentieri al gioco che veniva loro proposto. Nelle pagine che il Baldinucci
dedicò a Francesco Albani v’è un passo che, a mio avviso, merita d’essere
ricordato. L’Albani – scrisse Filippo Baldinucci (vol. IV, pag. 58) [19], pur
amorevole nel tratto, si gloriava di non aver mai donato una sua opera e
d’averla negata persino al suo medico e allo stesso “cavaliere Marino, che gli
promettea celebrarlo con sue rime”. Cosa, evidentemente, tanto inconsueta da
doversela appuntare e registrare non si sa bene se come stranezza o come motivo
di pubblico encomio. E’ abbastanza scontato che il Marino sia stato una
specie di incallito “Portoghese”, come nel 1956 lo definì con parlata romana il
Samek Ludovici [20]. Aveva una faccia di bronzo o, per meglio dire, ne assumeva
le fattezze e la durezza, quando lo mordeva il desiderio irrefrenabile di
mettere le mani su un’opera che fosse o ritenesse bella. Quanto accadde con
Tommaso Stigliani, dapprima amico e quindi fiero avversario, rasenta
l’incredibile. Nei tempi in cui il colloquio tra i due non aveva ancora assunto
asprezze polemiche lo Stigliani fece vedere un suo ritratto al Marino che
riuscì a carpirgli la promessa di darglielo in dono. Passò del tempo e quando ormai
i rapporti si erano irrimediabilmente guastati, il Marino si ricordò della
vecchia promessa e scrisse al suo nemico dichiarato perché tenesse fede
all’impegno e gli spedisse la tela. L’altro, cioè lo Stigliani, non si lasciò
sfuggire l’occasione per essere il più sferzante possibile. Aveva presente la
promessa e ricordava anche che, di fronte a quel ritratto a mezzo busto, il
Marino aveva sentenziato che era troppo bello e somigliante per non riuscire a
parlare. Era vero, ridacchiò lo Stigliani in faccia al Marino. Quando io lessi
ad alta voce la tua lettera, il mio ritratto “proruppe in queste parole: O
Tomaso [n.d.r. sic]… quell’uomo avido che porta i mostacci grandi all’uso de’
tartari, al quale per mia disgrazia tu mi promettesti in dono, non m’ha punto
ingannato. Perché, quando egli fu qui e mi guardava con quella sua faccia sì
furba e con quei suoi occhi sì gatteschi e sfavillanti, io sospettai
grandemente ch’egli mi bramasse per fine poco buono, essendo sbarbato come
sono. Il che tu vedi ora esser chiaramente succeduto e riuscito vero, se bene
con qualche diversità: perché, dove io credevo il peccato esser di lussuria, lo
trovo esser d’avarizia…”. E lo Stigliani fece ancora dire al suo ritratto:
contro il “primo peccato, che è la libidine, io non avevo paura, mancandomi la
parte dalla cintura in giù; ma del secondo [nd.r. ossia dell’avarizia]… temo
purtroppo, possendo riceverne non poco danno”. A una nota di tal genere, piena
d’insulti che volevano essere particolarmente pungenti, il Marino non diede
soverchia importanza e tornò, con un’altra lettera, a chiedere il lavoro che
considerava suo da anni: dopo averglielo donato, lo Stigliani non poteva più
svolgere altro ruolo che quello del custode. A questo punto lo Stigliani non si
raccapezzò più: pensò (ma è improbabile) che la sua risposta non fosse mai
giunta a destinazione o che il Marino ne avesse dimenticato il contenuto (e qui
la cosa da improbabile diventa addirittura impossibile). Comunque capì che era
meglio mettere da parte gli svolazzi e, nel replicare, si premurò di dire
l’essenziale: quel ritratto lui non glielo avrebbe mai consegnato. Mi astengo
dal fornire ulteriori dettagli e mi limito a rinviare, per qualche particolare
in più o meno saporito alle pagg. 266-269, volume secondo, dell’Epistolario
del Marino, dell’Achillini e dello Stigliani pubblicato da Laterza nel 1912
[21].
Gli acquisti
Soltanto nell’ultimo periodo, e mai in forma
sistematica, il Marino decise d’imboccare la via, per altri consueta,
dell’acquisto. Si sentiva famoso, riverito, ricco e circondato da molte
premure: aveva molto denaro e non gli parve più assurdo (anzi, gli sembrò
naturalissimo) impiegarlo per la raccolta che andava da qualche tempo
progettando per una dimora nei dintorni di Napoli. Da tempo andava raccogliendo
una ricca collezione di volumi, “tutti scelti ed egregiamente legati” (pag.
286), e si stava togliendo il “capriccio“ di mettere insieme stampe prevalentemente del
secolo precedente. S’aggiungano i disegni, le pitture e le miniature e si avrà
un’idea del molto materiale di cui, beninteso negli ultimi anni (quelli della
riconosciuta prosperità), era venuto in possesso. Sentiva di controllare beni
di valore apprezzabile e, come accade alla maggior parte degli amatori,
avvertiva la necessità di porre finalmente riparo a talune lacune e di
aggiungere al già posseduto qualche pezzo che aumentasse il prestigio della
raccolta. Lavorava “di fino” e, per conseguire il risultato voluto, capiva di
dover impegnare il proprio denaro, rimovendo incertezze tra artisti e
mediatori. Il Museo che era stato poco più di un ambizioso miraggio o di un
insieme fragile e disordinato di opere al tempo in cui fu concepita la Galeria,
tendeva ora ad assumere contorni piuttosto definiti. Qualche tempo prima del
ritorno da Parigi fece sapere al Sanvitale che tutto ciò di cui poteva disporre
l’andava spendendo in simili acquisti. E lo stesso concetto lo confermò in più
occasioni nelle sue lettere. Con tutto ciò non si deve però ritenere che avesse
del tutto rinunciato a vecchi artifici e che all’improvviso fosse divenuto poco
accorto e addirittura prodigo. Al Ciotti, suo stampatore e rappresentante a
Venezia, accordò facoltà di spendere soprattutto per quei quadri di piccolo
formato che gli erano particolarmente cari, ma subito dopo aggiunse pareri che
avevano tutta l’aria d’essere vincolanti. E, in più casi, per non incorrere in
sorprese spiacevoli, chiese ad amici e a suoi procuratori d’affari d’inviargli
preventivi sufficientemente dettagliati. E, se già prima era stato di difficile
contentatura, ora che pagava sentiva crescergli lo spirito critico e cercava in
tutti i modi di adoperarsi perché i disegni venissero eseguiti e le pitture
finite con impegno e senza inammissibili rilassatezze. Un episodio può, forse
più di altri, porre a nudo le pieghe del suo carattere. A Palma il Giovane che
– si passi il bisticcio di parole – era ormai divenuto vecchio, dato che
s’avvicinava agli ottant’anni, aveva chiesto varie tele: le prime che
arrivarono a Parigi non gli piacquero molto e incominciò a pensare che avessero
ragione coloro che andavano da qualche anno sostenendo che il pittore con
l’aumentare dell’età avesse perduto la sua “maniera leggiadra e graziosa”. Ed
ecco partire da Parigi per Venezia, dirette al Ciotti, due lettere. Nella prima
il Marino vien preparando il terreno; dice che i lavori non l’hanno pienamente
accontentato; rispolvera i giudizi correnti sulle fatiche più recenti del
pittore e poi conclude nascondendo la mano che aveva tirato il sasso: “Di
grazia di ciò non fate motto alcuno [n.d.r. a Palma il Giovane], anzi
ringraziatelo da mia parte…” (pag. 304). Nella seconda missiva si delinea la
strategia da seguire per far sì che il vecchio artista migliori la qualità
delle tele ancora non terminate e, forse, appena abbozzate. Mi vien da
sorridere quando rileggo le istruzioni date al Ciotti: “Non lasciate d’importunar
del continovo [n.d.r. continuamente] il
signor Palma, e ditegli da mia parte che i miei quadri qui sono aspettati come
il Messia, e vi sono molti pittori i quali dicono ch’egli non farà gran cosa,
essendo vecchio. Io ho saputo ben rispondere per le rime e gli ho fatti tacer
confusi, mostrando loro de’ disegni di sua mano, la cui eccellenza e perfezione
non hanno pure ingegno da saper conoscere”. Lui, il Marino, continuerà a
comportarsi in questo modo e, per ribadire il suo punto di vista si avvarrà
delle nuove opere che gli giungeranno. “Vorrei dunque” – conclude il poeta –
“ch’egli [n.d.r. il Palma] ne pigliasse gran cura e vi mettesse del buono e si
sforzasse di farmi onore, tanto più che saranno veduti dal re, dalla reina e
dalla maggior parte della corte” (pag. 306).
Sorpresi? Ma no, il Marino era fatto così.
NOTE
[18] Federico Borromeo, Musaeum, a cura di
Gianfranco Ravasi, Milano, Claudio Gallone editore, 1997. Posseduto da questa
biblioteca.
[19] Filippo Baldinucci, Notizie dei Professori
del disegno, 7 volumi, S.P.E.S. Studi per Edizioni Scelte, 1974-1975.
Posseduto da questa biblioteca.
[20] Sergio Samek Ludovici, Vita del Caravaggio,
pag, 123, Edizioni del Milione, Milano, 1956. Posseduto da questa biblioteca.
[21] Giambattista Marino, Epistolario seguito da
lettere di altri scrittori del Seicento, Vol. II, a cura di Angelo Borzelli
e Fausto Nicolini, Bari, Laterza, 1912
Nessun commento:
Posta un commento