English Version
Luciano Mazzaferro
Giovan Battista Marino:
interessi artistici fra cortigianeria e collezionismo
Prima parte - Dicerie sacre
Prima parte - Dicerie sacre
[Nota
di Giovanni e Francesco Mazzaferro: questo testo è la trascrizione e la
traduzione fedele di un manoscritto di nostro padre, Luciano Mazzaferro, a commento di tre opere di Giovan
Battista Marino (1569-1625), in cui emergono gli interessi artistici del poeta
barocco: la prima delle sue Dicerie sacre, la Galeria e le Lettere. Il titolo
dello scritto, così come la suddivisione in paragrafi e le note sono di nostra
redazione]
Frans Pourbus il Giovane, Ritratto di Giovanni Battista Marino (1621) Fonte: Detroit Institute of Art |
Introduzione
Il Marino non fu pensatore originale, né approfondì
il pensiero di predecessori e di contemporanei per ricavarne orientamenti
estetici nuovi; fu invece bene informato sulle teorie diffuse in età classica o
elaborate nel pieno e tardo Rinascimento e le utilizzò non per intenti
conoscitivi, ma per fini pratici, elogiativi e cortigianeschi. Praticò gli
ambienti artistici; fu in corrispondenza con disegnatori, incisori e pittori
non sempre (anzi, raramente) di grande levatura; ebbe una conoscenza che
sarebbe ingiusto dire superficiale dei procedimenti tecnici; amò raccogliere
opere d’arte; s’impratichì di varie regole e trucchi del mercato e ricorse a vari
espedienti per formare e per arricchire la sua raccolta; dimostrò nelle scelte
che compì una pluralità di gusti e di orientamenti che attestano un generico
eclettismo e non già una motivata predilezione per alcune precise correnti
stilistiche. Non è vero che si sia adoperato perché al Caravaggio venisse
affidato l’incarico di dipingere le tele della Cappella Contarelli; questa
tesi, sostenuta dal Bellori [1], urta contro il fatto che, quando venne redatto
il contratto per l’esecuzione dei lavori a San Luigi dei Francesi, Marino era
ancora a Napoli e non poteva quindi operare in Roma a vantaggio del Caravaggio,
come di qualsiasi altro pittore. Ebbe tuttavia un merito che non gli va
disconosciuto: durante la permanenza parigina scoprì e contribuì a valorizzare
Nicolas Poussin che, riconoscente e convinto della grandezza del poeta
napoletano, lo ritrasse un paio di vote, una sotto l’aspetto di Ovidio nel
“Trionfo” della Galleria Nazionale d’arte antica di Roma e l’altra nel
“Parnaso” ora conservato nel museo del Prado. Né va dimenticato che, pur con i
limiti che non si tolse mai di dosso – e fors’anche per la presenza e la
rilevanza di questi limiti – il Marino riuscì a rappresentare gli orientamenti
prevalenti nella vita di corte e il modo di pensare diffuso tra molti amatori
d’arte agli sgoccioli del Cinquecento e nel primo quarto del Seicento. Per
rappresentare le preferenze del Marino ci si rifà alle Dicerie sacre
[2], alla Galeria [3] e alle sue Lettere [4]. Le altre sue opere
presentano, ai nostri effetti, un rilievo del tutto marginale.
Le Dicerie sacre
La prima delle Dicerie Sacre, l’unica che ci
interessi, ha per titolo La pittura e, per sottotitolo, Diceria prima
sopra la Santa Sindone. Considerata da qualcuno un vero trattato d’arte, è
in realtà una mescolanza o combinazione di argomenti d’interesse artistico con
smaccati intenti adulatori nei confronti del Duca che lo ospitava a Torino e
con propositi di apologetica religiosa influenzati dal clima post-tridentino.
Credo che tra gli argomenti presenti nella
“diceria” ci si riesca a ben orientare a patto di seguire i due fili conduttori
lungo i quali si sviluppano le due tesi fondamentali. Il primo dei due temi è
trattato nelle pagine iniziali e ripreso in quelle finali; il secondo, di meno
agevole lettura, risulta inserito e quasi incastonato nell’altro, occupando la
parte centrale della “diceria”.
La Sindone
La Sindone |
Ecco, in breve, come viene trattato il primo dei
due temi. Pur senza negare i collegamenti che tra loro sussistono, il poeta
pone a confronto la pittura con la scultura e si domanda a quale delle due
manifestazioni artistiche spetti una posizione di primato. Ritorna, come si
vede, il vecchio tema del “paragone delle arti”, già ampiamente presente nella
letteratura artistica del Quattro e del Cinquecento. Il Marino lascia la parola
alla Pittura e alla Scultura che riproducono argomenti e valutazioni più volte
ascoltate in passato: il commentatore, Giovanni Pozzi, ricorda i precedenti
forniti da Leon Battista Alberti, da Baldassarre Castiglione e da Benedetto
Varchi [5], ma non occorrerebbe un grande sforzo di memoria per stilare un
elenco di proporzioni più che rispettabili. Il Marino mette in bocca alle due
arti, qui personificate e rese loquaci dalle sue indiscutibili capacità
espositive, varie motivazioni a sostegno del loro prestigio e del minore da
attribuire alla controparte. Al termine del confronto il paragone si risolve a
vantaggio della pittura, ma è interessante notare che il giudizio finale non è
preso tenendo conto della validità degli elementi addotti dall’arte vincente o
dalla scarsa presa dei discorsi imbastiti dalla Scultura, ma è la conseguenza
di una valutazione di tutt’altra natura, di taglio nettamente religioso e
metafisico. In difesa della Pittura – scrive il Marino (pag. 86 sg.) - vi è una
“ragione” inoppugnabile: “ed è che lo stesso ottimo e grandiosissimo Iddio ha
voluto più pittore che sculture (secondo il modo del nostro intendere)
dimostrarsi”. Basti considerare come “egli [n.d.r. cioè Dio] per arricchire la
suppellettile della sua Chiesa d’un inestimabile arredo, abbia lasciato in
terra di suo proprio pugno istoriato…” un drappo misterioso, “istoriato con
colori immortali e divini”. Va da sé che il drappo cui si riferisce il marino è
la Sacra Sindone di Torino. La scelta del Salvatore di rappresentarsi in quel
lino, quasi si trattasse di un autoritratto, sarebbe senz’ombra di dubbio la
migliore testimonianza della preminenza della pittura e della sua maggiore
capacità rappresentativa nei confronti della scultura.
Per la verità non è questa la prima volta che sia
stato utilizzato un argomento, simile o analogo a quello avanzato dal Marino,
per risolvere a vantaggio della pittura il paragone tra le due arti figurative
o, più in generale, per ribadire la conclamata “nobiltà della pittura”.
L’Autore della Diceria, tutt’altro che originale, lascia tracce
sufficienti per dimostrare come anche qui abbia tenuto conto di affermazioni
reperibili in taluni trattatisti che, come al solito, si guarda bene dal
menzionare. La sua è un’abitudine: non menziona il lavoro altrui, ma lo saccheggia
se gli torna comodo. Il Pozzi (pag. 87 n.) ricorda il precedente dell’Armeniniche dà forza alla sua dichiarata preferenza per la pittura con il comportamento
“dell’istesso Gesù Cristo nostro Signore e Redentore, perché egli medesimo si
compiacque di lasciarci espressa la vera sembianza della sua santa e divina
faccia, dipinta con immortali colori sopra di un semplice velo; miracolo veramente
grandissimo e stupendissimo a tutto il mondo”. Si tratta del “Santissimo
Sudario della Beata Veronica, il quale è tanto noto tra i cristiani, che da
tutte le estremi parti della terra vengono le genti a Roma per vederlo” (p.
49). Il lavoro dell’Armenini comparve nel 1587 [6]. In quello stesso periodo
altri cultori d’arte, e tutti di primo piano, ricorsero allo stesso motivo per
sottolineare la “nobiltà” della pittura e la sua “utilità” per fini di
educazione religiosa: il cardinale Paleotti nel 1582 [7], Romano Alberti nel
1585 [8] e il Lomazzo [9]. L’Armenini, il Paleotti e l’Alberti si rifanno
esclusivamente al velo della Veronica; l’autore del Cinquecento al quale il
Marino si accosta più di frequente, cioè il Lomazzo, cita in primo luogo la
Veronica e poi, quasi a rafforzamento della sua tesi, l’immagine lasciata nel
“lenzuolo” custodito “appresso al Serenissimo Duca di Savoja”. Lo scritto del
Marino si differenzia dai precedenti in due punti soltanto: quando il velo
della Veronica, di preminente importanza per gli altri trattatisti, viene
declassato ad “uno schizzo del volto di Cristo abbozzato col sudore in un mocchinino”,
insomma a tratti sommari riportati su un fazzoletto per soffiarsi il naso, e quando
la Sindone – vero ritratto dell’intero corpo di Cristo – viene intesa quasi
fosse un vistoso amuleto o un attestato di particolare benevolenza divina. A
pag. 191 leggo: “Cinto [n.d.r. ovvero “cintura di protezione”] d’Italia son
queste Alpi insuperabili: cinto di Torino
son queste mura inespugnabili: ma cinto più sicuro e più forte di tutto
il vostro Stato, Serenissimo Sire, è questa santissima Sindone, bastione che da
tutti i vostri nemici vi guarda e da ogni insidia vi difende.” E a pag. 193
trovo: “Volse l’infinita Bontà del Salvatore a diverse Città ed a diversi
Prencipi diversi stromenti distribuire della sua dolcissima Passione. A Milano
lasciò un chiodo, a Napoli diede una spina, a Parigi tutta la corona, a Roma
donò la lancia, a Mantova un poco del sangue, a Gerusalemme parte della Croce:
ma tutto quello che compartito era distintamente a molti, è stato prodigamente
diffuso insieme ad uno. A voi (Serenissimo Sire) si è compiaciuto di donar
cosa, la qual tutto il contenuto di que’ tanti misteri raccoglie in un
ristretto compendio: poiché chiunque mira questo sacratissimo contesto, espressamente
vede e le cicatrici de’ chiodi, e le punture delle spine, e la fessura della
lancia, e la scaturigine del sangue e la rigidezza della Croce. Per la qual
cosa vi potete divotamente vantare d’aver quasi impoverito il tesoro del Cielo,
ed in certo modo spogliato Iddio di tutta la sua maggior ricchezza”. Infine, a
pag. 197, il Marino esclama: “Né maggiore e più vigoroso argomento so trovar io
a provare che voi (Serenissimo Sire) siate singolarmente da Dio amato, se non
il vedere ch’egli si è spogliato di quel panno istesso che lo coverse, e ve
n’ha fatto libero dono.” E’ vero che Carlo Emanuele I di Savoia fu detto il
Grande; ma probabilmente l’artista napoletano, accolto a Torino sotto la
protezione sabauda, è ricorso in qualche esagerazione.
L’impossibilità
della perfezione nell’arte come argomento teologico
Fin qui il primo dei due temi trattati nella Diceria
dedicata alla pittura. Ed ecco, di fatto intrappolato nel precedente, il
secondo tema ridotto ovviamente all’essenziale. Anche se la pittura offre
strumenti espressivi assai più validi della scultura, il Marino è egualmente
convinto che nessun pittore possa in concreto disporre di tutti gli elementi
occorrenti per raggiungere la perfezione nell’arte. Per rendere “eccellente e
perfetto” un pittore si richiedono – e l’autore dell’Adone lo sostiene a
spada tratta – tre condizioni: “scienza, sapienza e diligenza” (pag. 89). Ma
già la prima di queste condizioni, vale a dire la scienza, si mostra
“imperfetta” nei pittori, “percioché di rado o non mai avviene che in un solo
artefice si uniscano insieme quelle discipline tutte che in cotal’arte son
necessarie” (pag. 91). E il Marino fa cenno alla necessità di conoscere la teologia
“per poter con sicurezza descrivere le cose di Dio, degli Angioli e de’ santi”,
l’anatomia “per collocare i muscoli nelle sedi loro senza stroppio
[n.d.r sic]”, la geometria “per tratteggiar con fondamento le linee”, la
cosmografia per debitamente “rappresentare i luoghi del mondo”, l’astrologia
“per dimostrare l’imagini del Cielo”, la prospettiva per “far gli scorci
ed atteggiare i moti” e, quindi, varie altre discipline e settori di conoscenza
che è pressoché inutile numerare, dato che quelle menzionate bastano a rendere
conto delle pesanti condizioni richieste per ottenere una perfezione di fatto
impossibile. E, dopo i requisiti di questo primo gruppo, tutti classificati
sotto la voce “scienza”, il Marino viene a parlare di quelli rientranti nella
seconda parte, chiamata prima “sapienza” e poi “sperienza”, e che consentono di
rappresentare particolari abilità nella rappresentazione artistica. Per
giungere alla vera perfezione il pittore non può limitarsi a seguire gli
accorgimenti di un singolo artefice, anche se ritenuto di alto valore, ma deve
assimilare la qualità dimostrata da un numero non indifferente di maestri,
prendendo da ciascuno il meglio che è riuscito a dare. A pag. 93 vien detto che
il vero creatore d’opere d’arte è tenuto ad eguagliare “il Parmigianino nella
grazia, il Correggio nella tenerezza, Tiziano nelle teste, il Bassano negli
animali, il Pordenone nella fierezza, Andrea del Sarto nella dolcezza,
Giorgione nell’ombreggiare, il Salviati nel panneggiare, Paolo Veronese nella
vaghezza, il Tintoretto nella prestezza, Alberto Duro nella diligenza, il
Cangiaso [n.d.r. Luca Cambiaso] nella pratica, Polidoro nelle battaglie, il
Buonaroti negli scorci, Rafaello in molte delle suddette cose.”
Già alcuni intenditori che vissero nella stessa
epoca del Marino o, comunque, nel suo stesso secolo avvertirono che le
richieste e i requisiti classificati in questo e nel gruppo precedente erano
esagerati e immotivati. Il Mancini, ad esempio, lasciò scritto [10] (pag. 7)
che il Marino s’ingannava “ponendo tanti requisiti nel pittore”; qualche
decennio dopo (ma pur sempre nel medesimo clima culturale) lo Scannelli [11] tornò ad avvertire che “il cavalier
Marini [n.d.r sic] nel suo particolar discorso che fa di Pittura” era andato
oltremisura. E’ davvero difficile pensare che il poeta napoletano non
comprendesse come le sue fossero richieste oltremodo esagerate, eppure è certo
che (in aggiunta alle condizioni ed obblighi già ricordati) venne a porre
qualche altra richiesta che finì col collocare sotto la terza ed ultima voce,
ossia la “diligenza”, troppe volte “fallace” nei pittori (pagg. 93 sg.). Non
sfoltì il lungo elenco, ma continuò a calcare la mano. Tutto ciò è così
manifesto che vien fatto di chiederci: perché il Marino si pose su questa
strada, che appare addirittura irragionevole, e si comportò così? Io credo che
il Marino abbia elencato tanti requisiti e posto tante condizioni perché
l’intento suo principale non era quello di darsi dei criteri di valutazione
critica sulla validità delle singole esperienze artistiche, ma piuttosto di
dimostrare con tutti gli elementi a portata di mano l’impossibilità, anzi
l’inammissibilità di una realizzazione pittorica da ritenersi perfetta. Il
Marino scrittore d’arte ha ormai lasciato il posto al predicatore e al teologo
dilettante e, in queste nuove vesti, ciò che l’interessa è di dimostrare una
sola cosa: l’unico artefice perfetto è soltanto Iddio, in quanto per
definizione onnipotente. E va aggiunto che, pur accentuando nettamente i toni,
il Marino si comportò anche in quest’occasione senza particolare originalità:
fornì conclusioni che a noi sembrano colorarsi d’assurdo, ma che sul finire del
Cinquecento erano state sperimentate con spirito meno balzante. Giustamente il
Grassi ricorda [12] (, pag. 101, n. 3) un passo del Lomazzo in cui si profila la
figura di Dio sommo pittore e artista “che creò a sembianza sua, colorando i
cieli, le stelle, il sole, la circonferenza della terra, l’acque e tutti gli
estremi de gli elementi, co’ vaghi e leggiadri colori elementari” [13]. La
figura di Dio sommo artefice e pittore è già delineata, ma tra il Lomazzo e il
Marino s’intravede egualmente una differenza sostanziale: il primo, per
riverire il potere divino, non rende problematica la capacità creatrice degli
artisti; l’altro, vale a dire il Marino, fa quasi terra bruciata attorno ai
normali pittori per contestare loro (a quanto pare in questo suo solo scritto)
quella perfezione che viene riservata, con accanimento predicatorio,
esclusivamente all’arte trascendentale. Non ci vuol molto per comprendere che,
una volta compiuto, il confronto si risolve ad evidente vantaggio del
trattatista lombardo.
Nulla quindi che ripaghi l’attenzione del lettore e
che lo soddisfi pienamente in questa Diceria sacra? Di stimolanti punti
di richiamo non se ne trovano davvero molti, ma qualcosa pur vi è che meriti
d’essere gustato e ricordato. Mi riferisco a certi puntuali riferimenti al
gusto cromatico allora prevalente e penso a qualche intuizione, purtroppo
dispersa in un mare di svagate proposizioni. Mi viene in mente un passo (pag.
133) in cui si discorre di opere incompiute: “Anche alle macchie e alle
sgrossature degli uomini grandi si suol portare reverenza e rispetto, anzi
l’opere loro non finite maggiormente si ammirano, percioché in esse ogni minuto
pensiero degli artefici si vede addentro.” Sono parole di alto livello e
l’unico loro guaio deriva dal fatto di rientrare nel gruppo striminzito delle
cose controcorrente e delle eccezioni.
NOTE
[1] Giovan Pietro Bellori, Le Vite de’ pittori, scultori e architetti
moderni, a cura di Evelina Borea, Torino, Einaudi, 1976, pag. 218; presente
in questa biblioteca.
[2] Giovanbattista Marino, Dicerie sacre e la strage de gl’innocenti,
a cura di Giovanni Pozzi, Torino, Einaudi, 1960; presente in questa biblioteca;
presente in questa biblioteca.
[3] Giovanbattista Marino, La Galeria, a cura di Marzio Pieri,
Padova, Liviana Editoriale, 1979; presente in questa biblioteca.
[4] Giovanbattista Marino, Lettere, a cura di Graziano
Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966; presente in questa biblioteca.
[5] Si veda, per tutti, Benedetto
Varchi, Vincenzo Borghini, Pittura e
Scultura nel Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, Livorno, Sillabe, 1998;
presente in questa biblioteca.
[6] Giovan Battista Armenini, De’ veri precetti della pittura, a cura
di Marina Gorreri, Torino, Einaudi, 1988, p. 49; presente in questa biblioteca.
[7] Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e
profane (1582), Libreria Editrice Vaticana, 2002, pp. 58-59; presente in
questa biblioteca.
[8] Romano Alberti, Trattato della nobiltà della pittura in
Paola Barocchi (a cura di), Trattati
d’arte del Cinquecento, Vol III, p. 234, Bari, Laterza, 1962; presente in
questa biblioteca.
[9] Gian Paolo Lomazzo, Idea del tempio della pittura in Gian
Paolo Lomazzo, Scritti sulle arti, a
cura di Roberto Paolo Ciardi, Vol I p. 265, Firenze, Marchi & Bertolli,
1973; presente in questa biblioteca.
[10] Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, Edizione
critica e introduzione di Adriana Marucchi, Vol I, p. 7, Roma, Accademia
Nazionale dei Lincei, 1956; presente in questa biblioteca.
[11] Francesco Scannelli, Il microcosmo della pittura, Vol. I,
1989, p. 27, 29 e sg., Cassa dei Risparmi di Forlì, 1989. Reprint dell’edizione
di Cesena, 1657; presente in questa biblioteca.
[12] Luigi Grassi, Teorici e storia della critica d’arte.
Vol II. L’Età Moderna: il Seicento, pag. 101, n. 3. Roma, Multigrafica editrice, 1973.
[13] Gian Paolo Lomazzo, op. cit., p. 245.
Nessun commento:
Posta un commento