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lunedì 21 aprile 2014

Luciano Mazzaferro. Giovan Battista Marino: interessi artistici fra cortigianeria e collezionismo. Prima parte


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Luciano Mazzaferro
Giovan Battista Marino: 

interessi artistici fra cortigianeria e collezionismo
Prima parte - Dicerie sacre


[Nota di Giovanni e Francesco Mazzaferro: questo testo è la trascrizione e la traduzione fedele di un manoscritto di nostro padre, Luciano  Mazzaferro, a commento di tre opere di Giovan Battista Marino (1569-1625), in cui emergono gli interessi artistici del poeta barocco: la prima delle sue Dicerie sacre, la Galeria e le Lettere. Il titolo dello scritto, così come la suddivisione in paragrafi e le note sono di nostra redazione]

Frans Pourbus il Giovane, Ritratto di Giovanni Battista Marino (1621)
Fonte: Detroit Institute of Art

Introduzione

Il Marino non fu pensatore originale, né approfondì il pensiero di predecessori e di contemporanei per ricavarne orientamenti estetici nuovi; fu invece bene informato sulle teorie diffuse in età classica o elaborate nel pieno e tardo Rinascimento e le utilizzò non per intenti conoscitivi, ma per fini pratici, elogiativi e cortigianeschi. Praticò gli ambienti artistici; fu in corrispondenza con disegnatori, incisori e pittori non sempre (anzi, raramente) di grande levatura; ebbe una conoscenza che sarebbe ingiusto dire superficiale dei procedimenti tecnici; amò raccogliere opere d’arte; s’impratichì di varie regole e trucchi del mercato e ricorse a vari espedienti per formare e per arricchire la sua raccolta; dimostrò nelle scelte che compì una pluralità di gusti e di orientamenti che attestano un generico eclettismo e non già una motivata predilezione per alcune precise correnti stilistiche. Non è vero che si sia adoperato perché al Caravaggio venisse affidato l’incarico di dipingere le tele della Cappella Contarelli; questa tesi, sostenuta dal Bellori [1], urta contro il fatto che, quando venne redatto il contratto per l’esecuzione dei lavori a San Luigi dei Francesi, Marino era ancora a Napoli e non poteva quindi operare in Roma a vantaggio del Caravaggio, come di qualsiasi altro pittore. Ebbe tuttavia un merito che non gli va disconosciuto: durante la permanenza parigina scoprì e contribuì a valorizzare Nicolas Poussin che, riconoscente e convinto della grandezza del poeta napoletano, lo ritrasse un paio di vote, una sotto l’aspetto di Ovidio nel “Trionfo” della Galleria Nazionale d’arte antica di Roma e l’altra nel “Parnaso” ora conservato nel museo del Prado. Né va dimenticato che, pur con i limiti che non si tolse mai di dosso – e fors’anche per la presenza e la rilevanza di questi limiti – il Marino riuscì a rappresentare gli orientamenti prevalenti nella vita di corte e il modo di pensare diffuso tra molti amatori d’arte agli sgoccioli del Cinquecento e nel primo quarto del Seicento. Per rappresentare le preferenze del Marino ci si rifà alle Dicerie sacre [2], alla Galeria [3] e alle sue Lettere [4]. Le altre sue opere presentano, ai nostri effetti, un rilievo del tutto marginale.


Le Dicerie sacre

La prima delle Dicerie Sacre, l’unica che ci interessi, ha per titolo La pittura e, per sottotitolo, Diceria prima sopra la Santa Sindone. Considerata da qualcuno un vero trattato d’arte, è in realtà una mescolanza o combinazione di argomenti d’interesse artistico con smaccati intenti adulatori nei confronti del Duca che lo ospitava a Torino e con propositi di apologetica religiosa influenzati dal clima post-tridentino.

Credo che tra gli argomenti presenti nella “diceria” ci si riesca a ben orientare a patto di seguire i due fili conduttori lungo i quali si sviluppano le due tesi fondamentali. Il primo dei due temi è trattato nelle pagine iniziali e ripreso in quelle finali; il secondo, di meno agevole lettura, risulta inserito e quasi incastonato nell’altro, occupando la parte centrale della “diceria”.


La Sindone

La Sindone
Ecco, in breve, come viene trattato il primo dei due temi. Pur senza negare i collegamenti che tra loro sussistono, il poeta pone a confronto la pittura con la scultura e si domanda a quale delle due manifestazioni artistiche spetti una posizione di primato. Ritorna, come si vede, il vecchio tema del “paragone delle arti”, già ampiamente presente nella letteratura artistica del Quattro e del Cinquecento. Il Marino lascia la parola alla Pittura e alla Scultura che riproducono argomenti e valutazioni più volte ascoltate in passato: il commentatore, Giovanni Pozzi, ricorda i precedenti forniti da Leon Battista Alberti, da Baldassarre Castiglione e da Benedetto Varchi [5], ma non occorrerebbe un grande sforzo di memoria per stilare un elenco di proporzioni più che rispettabili. Il Marino mette in bocca alle due arti, qui personificate e rese loquaci dalle sue indiscutibili capacità espositive, varie motivazioni a sostegno del loro prestigio e del minore da attribuire alla controparte. Al termine del confronto il paragone si risolve a vantaggio della pittura, ma è interessante notare che il giudizio finale non è preso tenendo conto della validità degli elementi addotti dall’arte vincente o dalla scarsa presa dei discorsi imbastiti dalla Scultura, ma è la conseguenza di una valutazione di tutt’altra natura, di taglio nettamente religioso e metafisico. In difesa della Pittura – scrive il Marino (pag. 86 sg.) - vi è una “ragione” inoppugnabile: “ed è che lo stesso ottimo e grandiosissimo Iddio ha voluto più pittore che sculture (secondo il modo del nostro intendere) dimostrarsi”. Basti considerare come “egli [n.d.r. cioè Dio] per arricchire la suppellettile della sua Chiesa d’un inestimabile arredo, abbia lasciato in terra di suo proprio pugno istoriato…” un drappo misterioso, “istoriato con colori immortali e divini”. Va da sé che il drappo cui si riferisce il marino è la Sacra Sindone di Torino. La scelta del Salvatore di rappresentarsi in quel lino, quasi si trattasse di un autoritratto, sarebbe senz’ombra di dubbio la migliore testimonianza della preminenza della pittura e della sua maggiore capacità rappresentativa nei confronti della scultura.

Per la verità non è questa la prima volta che sia stato utilizzato un argomento, simile o analogo a quello avanzato dal Marino, per risolvere a vantaggio della pittura il paragone tra le due arti figurative o, più in generale, per ribadire la conclamata “nobiltà della pittura”. L’Autore della Diceria, tutt’altro che originale, lascia tracce sufficienti per dimostrare come anche qui abbia tenuto conto di affermazioni reperibili in taluni trattatisti che, come al solito, si guarda bene dal menzionare. La sua è un’abitudine: non menziona il lavoro altrui, ma lo saccheggia se gli torna comodo. Il Pozzi (pag. 87 n.) ricorda il precedente dell’Armeniniche dà forza alla sua dichiarata preferenza per la pittura con il comportamento “dell’istesso Gesù Cristo nostro Signore e Redentore, perché egli medesimo si compiacque di lasciarci espressa la vera sembianza della sua santa e divina faccia, dipinta con immortali colori sopra di un semplice velo; miracolo veramente grandissimo e stupendissimo a tutto il mondo”. Si tratta del “Santissimo Sudario della Beata Veronica, il quale è tanto noto tra i cristiani, che da tutte le estremi parti della terra vengono le genti a Roma per vederlo” (p. 49). Il lavoro dell’Armenini comparve nel 1587 [6]. In quello stesso periodo altri cultori d’arte, e tutti di primo piano, ricorsero allo stesso motivo per sottolineare la “nobiltà” della pittura e la sua “utilità” per fini di educazione religiosa: il cardinale Paleotti nel 1582 [7], Romano Alberti nel 1585 [8] e il Lomazzo [9]. L’Armenini, il Paleotti e l’Alberti si rifanno esclusivamente al velo della Veronica; l’autore del Cinquecento al quale il Marino si accosta più di frequente, cioè il Lomazzo, cita in primo luogo la Veronica e poi, quasi a rafforzamento della sua tesi, l’immagine lasciata nel “lenzuolo” custodito “appresso al Serenissimo Duca di Savoja”. Lo scritto del Marino si differenzia dai precedenti in due punti soltanto: quando il velo della Veronica, di preminente importanza per gli altri trattatisti, viene declassato ad “uno schizzo del volto di Cristo abbozzato col sudore in un mocchinino”, insomma a tratti sommari riportati su un fazzoletto per soffiarsi il naso, e quando la Sindone – vero ritratto dell’intero corpo di Cristo – viene intesa quasi fosse un vistoso amuleto o un attestato di particolare benevolenza divina. A pag. 191 leggo: “Cinto [n.d.r. ovvero “cintura di protezione”] d’Italia son queste Alpi insuperabili: cinto di Torino  son queste mura inespugnabili: ma cinto più sicuro e più forte di tutto il vostro Stato, Serenissimo Sire, è questa santissima Sindone, bastione che da tutti i vostri nemici vi guarda e da ogni insidia vi difende.” E a pag. 193 trovo: “Volse l’infinita Bontà del Salvatore a diverse Città ed a diversi Prencipi diversi stromenti distribuire della sua dolcissima Passione. A Milano lasciò un chiodo, a Napoli diede una spina, a Parigi tutta la corona, a Roma donò la lancia, a Mantova un poco del sangue, a Gerusalemme parte della Croce: ma tutto quello che compartito era distintamente a molti, è stato prodigamente diffuso insieme ad uno. A voi (Serenissimo Sire) si è compiaciuto di donar cosa, la qual tutto il contenuto di que’ tanti misteri raccoglie in un ristretto compendio: poiché chiunque mira questo sacratissimo contesto, espressamente vede e le cicatrici de’ chiodi, e le punture delle spine, e la fessura della lancia, e la scaturigine del sangue e la rigidezza della Croce. Per la qual cosa vi potete divotamente vantare d’aver quasi impoverito il tesoro del Cielo, ed in certo modo spogliato Iddio di tutta la sua maggior ricchezza”. Infine, a pag. 197, il Marino esclama: “Né maggiore e più vigoroso argomento so trovar io a provare che voi (Serenissimo Sire) siate singolarmente da Dio amato, se non il vedere ch’egli si è spogliato di quel panno istesso che lo coverse, e ve n’ha fatto libero dono.” E’ vero che Carlo Emanuele I di Savoia fu detto il Grande; ma probabilmente l’artista napoletano, accolto a Torino sotto la protezione sabauda, è ricorso in qualche esagerazione.


L’impossibilità della perfezione nell’arte come argomento teologico

Fin qui il primo dei due temi trattati nella Diceria dedicata alla pittura. Ed ecco, di fatto intrappolato nel precedente, il secondo tema ridotto ovviamente all’essenziale. Anche se la pittura offre strumenti espressivi assai più validi della scultura, il Marino è egualmente convinto che nessun pittore possa in concreto disporre di tutti gli elementi occorrenti per raggiungere la perfezione nell’arte. Per rendere “eccellente e perfetto” un pittore si richiedono – e l’autore dell’Adone lo sostiene a spada tratta – tre condizioni: “scienza, sapienza e diligenza” (pag. 89). Ma già la prima di queste condizioni, vale a dire la scienza, si mostra “imperfetta” nei pittori, “percioché di rado o non mai avviene che in un solo artefice si uniscano insieme quelle discipline tutte che in cotal’arte son necessarie” (pag. 91). E il Marino fa cenno alla necessità di conoscere la teologia “per poter con sicurezza descrivere le cose di Dio, degli Angioli e de’ santi”, l’anatomia “per collocare i muscoli nelle sedi loro senza stroppio [n.d.r sic]”, la geometria “per tratteggiar con fondamento le linee”, la cosmografia per debitamente “rappresentare i luoghi del mondo”, l’astrologia “per dimostrare l’imagini del Cielo”, la prospettiva per “far gli scorci ed atteggiare i moti” e, quindi, varie altre discipline e settori di conoscenza che è pressoché inutile numerare, dato che quelle menzionate bastano a rendere conto delle pesanti condizioni richieste per ottenere una perfezione di fatto impossibile. E, dopo i requisiti di questo primo gruppo, tutti classificati sotto la voce “scienza”, il Marino viene a parlare di quelli rientranti nella seconda parte, chiamata prima “sapienza” e poi “sperienza”, e che consentono di rappresentare particolari abilità nella rappresentazione artistica. Per giungere alla vera perfezione il pittore non può limitarsi a seguire gli accorgimenti di un singolo artefice, anche se ritenuto di alto valore, ma deve assimilare la qualità dimostrata da un numero non indifferente di maestri, prendendo da ciascuno il meglio che è riuscito a dare. A pag. 93 vien detto che il vero creatore d’opere d’arte è tenuto ad eguagliare “il Parmigianino nella grazia, il Correggio nella tenerezza, Tiziano nelle teste, il Bassano negli animali, il Pordenone nella fierezza, Andrea del Sarto nella dolcezza, Giorgione nell’ombreggiare, il Salviati nel panneggiare, Paolo Veronese nella vaghezza, il Tintoretto nella prestezza, Alberto Duro nella diligenza, il Cangiaso [n.d.r. Luca Cambiaso] nella pratica, Polidoro nelle battaglie, il Buonaroti negli scorci, Rafaello in molte delle suddette cose.”

Già alcuni intenditori che vissero nella stessa epoca del Marino o, comunque, nel suo stesso secolo avvertirono che le richieste e i requisiti classificati in questo e nel gruppo precedente erano esagerati e immotivati. Il Mancini, ad esempio, lasciò scritto [10] (pag. 7) che il Marino s’ingannava “ponendo tanti requisiti nel pittore”; qualche decennio dopo (ma pur sempre nel medesimo clima culturale) lo Scannelli  [11] tornò ad avvertire che “il cavalier Marini [n.d.r sic] nel suo particolar discorso che fa di Pittura” era andato oltremisura. E’ davvero difficile pensare che il poeta napoletano non comprendesse come le sue fossero richieste oltremodo esagerate, eppure è certo che (in aggiunta alle condizioni ed obblighi già ricordati) venne a porre qualche altra richiesta che finì col collocare sotto la terza ed ultima voce, ossia la “diligenza”, troppe volte “fallace” nei pittori (pagg. 93 sg.). Non sfoltì il lungo elenco, ma continuò a calcare la mano. Tutto ciò è così manifesto che vien fatto di chiederci: perché il Marino si pose su questa strada, che appare addirittura irragionevole, e si comportò così? Io credo che il Marino abbia elencato tanti requisiti e posto tante condizioni perché l’intento suo principale non era quello di darsi dei criteri di valutazione critica sulla validità delle singole esperienze artistiche, ma piuttosto di dimostrare con tutti gli elementi a portata di mano l’impossibilità, anzi l’inammissibilità di una realizzazione pittorica da ritenersi perfetta. Il Marino scrittore d’arte ha ormai lasciato il posto al predicatore e al teologo dilettante e, in queste nuove vesti, ciò che l’interessa è di dimostrare una sola cosa: l’unico artefice perfetto è soltanto Iddio, in quanto per definizione onnipotente. E va aggiunto che, pur accentuando nettamente i toni, il Marino si comportò anche in quest’occasione senza particolare originalità: fornì conclusioni che a noi sembrano colorarsi d’assurdo, ma che sul finire del Cinquecento erano state sperimentate con spirito meno balzante. Giustamente il Grassi ricorda [12] (, pag. 101, n. 3) un passo del Lomazzo in cui si profila la figura di Dio sommo pittore e artista “che creò a sembianza sua, colorando i cieli, le stelle, il sole, la circonferenza della terra, l’acque e tutti gli estremi de gli elementi, co’ vaghi e leggiadri colori elementari” [13]. La figura di Dio sommo artefice e pittore è già delineata, ma tra il Lomazzo e il Marino s’intravede egualmente una differenza sostanziale: il primo, per riverire il potere divino, non rende problematica la capacità creatrice degli artisti; l’altro, vale a dire il Marino, fa quasi terra bruciata attorno ai normali pittori per contestare loro (a quanto pare in questo suo solo scritto) quella perfezione che viene riservata, con accanimento predicatorio, esclusivamente all’arte trascendentale. Non ci vuol molto per comprendere che, una volta compiuto, il confronto si risolve ad evidente vantaggio del trattatista lombardo.

Nulla quindi che ripaghi l’attenzione del lettore e che lo soddisfi pienamente in questa Diceria sacra? Di stimolanti punti di richiamo non se ne trovano davvero molti, ma qualcosa pur vi è che meriti d’essere gustato e ricordato. Mi riferisco a certi puntuali riferimenti al gusto cromatico allora prevalente e penso a qualche intuizione, purtroppo dispersa in un mare di svagate proposizioni. Mi viene in mente un passo (pag. 133) in cui si discorre di opere incompiute: “Anche alle macchie e alle sgrossature degli uomini grandi si suol portare reverenza e rispetto, anzi l’opere loro non finite maggiormente si ammirano, percioché in esse ogni minuto pensiero degli artefici si vede addentro.” Sono parole di alto livello e l’unico loro guaio deriva dal fatto di rientrare nel gruppo striminzito delle cose controcorrente e delle eccezioni.



NOTE

[1] Giovan Pietro Bellori, Le Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, a cura di Evelina Borea, Torino, Einaudi, 1976, pag. 218; presente in questa biblioteca.

[2] Giovanbattista Marino, Dicerie sacre e la strage de gl’innocenti, a cura di Giovanni Pozzi, Torino, Einaudi, 1960; presente in questa biblioteca; presente in questa biblioteca.

[3] Giovanbattista Marino, La Galeria, a cura di Marzio Pieri, Padova, Liviana Editoriale, 1979; presente in questa biblioteca.

[4] Giovanbattista Marino, Lettere, a cura di Graziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1966; presente in questa biblioteca.

[5] Si veda, per tutti, Benedetto Varchi, Vincenzo Borghini, Pittura e Scultura nel Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, Livorno, Sillabe, 1998; presente in questa biblioteca.

[6] Giovan Battista Armenini, De’ veri precetti della pittura, a cura di Marina Gorreri, Torino, Einaudi, 1988, p. 49; presente in questa biblioteca.

[7] Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582), Libreria Editrice Vaticana, 2002, pp. 58-59; presente in questa biblioteca.

[8] Romano Alberti, Trattato della nobiltà della pittura in Paola Barocchi (a cura di), Trattati d’arte del Cinquecento, Vol III, p. 234, Bari, Laterza, 1962; presente in questa biblioteca.

[9] Gian Paolo Lomazzo, Idea del tempio della pittura in Gian Paolo Lomazzo, Scritti sulle arti, a cura di Roberto Paolo Ciardi, Vol I p. 265, Firenze, Marchi & Bertolli, 1973; presente in questa biblioteca.

[10] Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, Edizione critica e introduzione di Adriana Marucchi, Vol I, p. 7, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1956; presente in questa biblioteca.

[11] Francesco Scannelli, Il microcosmo della pittura, Vol. I, 1989, p. 27, 29 e sg., Cassa dei Risparmi di Forlì, 1989. Reprint dell’edizione di Cesena, 1657; presente in questa biblioteca.

[12] Luigi Grassi, Teorici e storia della critica d’arte. Vol II. L’Età Moderna: il Seicento, pag. 101, n. 3. Roma, Multigrafica editrice, 1973.

[13] Gian Paolo Lomazzo, op. cit., p. 245.

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