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mercoledì 16 aprile 2014

Giovanni Maria Fara. Albrecht Dürer nelle fonti italiane antiche: 1508-1686. Leo S. Olschki editore, 2014

Albrecht Dürer,
Autoritratto a 28 anni (1500)

English Version

Giovanni Maria Fara
Albrecht Dürer nelle fonti italiane antiche
1508-1686


Leo S. Olschki editore, 2014
Isbn 978 88 222 6297 4


Non credo di far torto a nessuno dicendo che Giovanni Maria Fara è il principale esperto dell’arte di Albrecht Dürer in Italia. Nel corso degli ultimi 15 anni ha pubblicato (oltre a una serie sterminata di saggi) almeno tre volumi fondamentali per la conoscenza dell’artista tedesco in Italia: dapprima Albrecht Dürer teorico dell’architettura. Una storia italiana (Leo S. Olschki, 1999), la prima traduzione in italiano del trattato di architettura del pittore di Norimberga; si è dedicato quindi a una rassegna certosina dell’opera incisoria di Dürer in Albrecht Dürer. Originali, copie, derivazioni, in cui sono analizzate tutte le opere a stampa di o attribuite all’artista tedesco e conservate presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (Leo S. Olschki, 2007); infine l’edizione critica della traduzione manoscritta di Cosimo Bartoli dell’Underweysung der Messung, ovvero del trattato di geometria düreriano (Nino Aragno editore, 2008). All’inizio del 2014, sempre per i tipi di Leo S. Olschki esce ora Albrecht Dürer nelle fonti italiane antiche. 1508-1686. [1]

Può una raccolta di fonti essere esaltante? Questa senza dubbio sì, perché Fara passa in rassegna, riproduce i passi principali e commenta 198 fonti comprese nell’arco cronologico in esame (a partire dal Libellus del 1508 di Christoph Scheurl [2] per finire con la biografia dedicata a Dürer da Baldinucci nel suo Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame (1686) [3]. E quella che potrebbe sembrare una semplice elencazione ci fornisce invece un quadro ben preciso di come mutò l’approccio del mondo culturale italiano nei confronti dell’artista tedesco nel suo complesso, e di alcuni aspetti della sua opera (incisioni, dipinti, trattati) in particolare.

E’ necessario fare una premessa sulla produzione trattatistica di Dürer. L’artista di Norimberga manda alle stampe tre trattati: il primo è l’Underweysung der Messung (1525), sostanzialmente un trattato di geometria, ma non solo, posto che l’ultima parte del testo è destinata ad illustrare sistemi di rilevamento prospettici; segue nel 1527 un trattato di fortificazioni (ovvero un trattato di architettura militare), per finire poi, nel 1528, con il trattato sulle proporzioni umane (Vier Bücher von menschlicher Proportion), pubblicato postumo, nel 1528, grazie all’opera di  Willibald Pirckheimer. In realtà, la fortuna europea dei trattati di Dürer si deve tuttavia alle traduzioni dei tre trattati in latino (la lingua universale dell’epoca) ad opera di Joachim Camerarius. A dire il vero in Italia, nel 1537, Cosimo Bartoli traduce in italiano. in maniera molto precoce, su sollecitazioni di alcuni amici, l’Underweysung der Messung, ma tale traduzione ha, di per sé, un valore puramente documentale e serve semmai a capire meglio la formazione di una professionalità specifica del Bartoli (che, qualche anno dopo, non dimentichiamolo, tradurrà il De architectura di Leon Battista Alberti), posto che la versione di Bartoli non fu mai resa pubblica. Tutti i trattati di Dürer vengono consultati in latino, almeno fino al 1591, anno in cui Giovanni Paolo Gallucci presenta in italiano i Quattro libri sulle proporzioni umane, con l’aggiunta di un quinto, di cui parleremo. Per il resto i riferimenti alle edizioni tedesche sono pochissimi.

Dürer viene in Italia sicuramente una volta, fra il 1505 e il 1507. E’ possibile, anzi è probabile, ma non certo che già vi fosse stato fra il 1494 e il 1495. In entrambe le occasioni la meta del viaggio del pittore di Norimberga è Venezia. Da Venezia (fra il 1505 e il 1507) sappiamo che l’artista si spostò a Bologna e a Ferrara. Sicuramente non vide mai Firenze e Roma. A Venezia Dürer viene chiamato per eseguire la pala della Festa del Rosario, presso la chiesa di San Bartolomeo in Rialto, chiesa per eccellenza della comunità tedesca nella città lagunare.

Albrecht Dürer, La Pala della Festa del Rosario (1506)

La sorte della Pala è strana. Resta a San Bartolomeo solo un secolo. Nel 1606 viene venduta all’Imperatore Rodolfo II d’Asburgo, che vent’anni prima aveva trasferito la capitale dell’Impero da Vienna a Praga e che collezionava opere d’arte non solo per gusto, ma anche e soprattutto per assicurare maggiore prestigio al Palazzo Imperiale. Non a caso si trova ancora a Praga, nella locale Pinacoteca nazionale. Tutto ciò per puntualizzare che la principale evidenza pittorica della permanenza di Dürer in Italia viene a mancare in epoca relativamente precoce.


Dürer pittore, Dürer incisore

La fama di Dürer come pittore, insomma, resta fondamentalmente confinata in ambito veneto, ed è riferita alla Festa del Rosario. Sono citati alcuni “quadretti” devozionali che l’artista dipinse durante la sua permanenza lagunare (ne resta traccia nelle lettere di Dürer ai corrispondenti tedeschi) e, sotto questo punto di vista, la testimonianza più affidabile è quella di una lettera di un giovane Giulio Mancini, più avanti celebre collezionista ed autore di quelle Considerazioni sulla pittura (1614-1621, ma aggiornate fino al 1630), che rimasero manoscritte, ma furono saccheggiate da quasi tutti gli scrittori d’arte dell’epoca. Completamente diverso è il discorso delle incisioni. La fama di Dürer incisore è subitanea ed europea e scatena una gara al collezionismo, nonché la produzione di tutta una serie di repliche, di falsi, di dipinti e stampe ispirate dalle stesse di cui nelle fonti raccolte da Fara vi è amplissima testimonianza. Per tutto il Cinquecento ed oltre, quando si parla di Dürer come artista si parla di Dürer come incisore, e i giudizi sulla sua produzione artistica sono riferiti proprio all’attività incisoria. Per quanto importante sia stato il ruolo del norimberghese nella produzione di bulini e di incisioni è chiaro che si tratta di una visione (volutamente) limitante. Dürer teorico delle arti non interessa, ed è meglio che non interessi. Spieghiamoci meglio.


Dürer prima di Michelangelo, Michelangelo al posto di Dürer

Uno degli aspetti caratteristici del commento di Fara (se ne è già occupato in altre occasioni) è quello di individuare un momento, quanto meno due decenni, dal 1520 al 1540 circa, in cui l’arte, ma soprattutto il pensiero teorico di Dürer sono particolarmente apprezzati in quel di Firenze. Non vi è nulla di straordinario per la città toscana nel guardare al mondo del Nord: i contatti e il collezionismo della pittura fiamminga nel Quattrocento fiorentino sono noti a tutti. Nel caso di Dürer si aggiunge però l’interesse per i trattati; ricordiamo che sono degli anni Trenta le traduzioni latine di Camerarius. In questo senso la traduzione operata da Bartoli attorno al 1537 è indice di un interesse non banale. Passano pochi anni e cambia tutto. La traduzione viene rimossa. Bartoli non la citerà mai. Chiari elementi di riferimenti ai principi architettonici fissati da Dürer saranno posteriormente e dallo stesso Bartoli attribuiti a Michelangelo. Nelle Vite vasariane del 1550 non c’è una biografia dedicata; i riferimenti a Dürer sono sostanzialmente due (nella vita di Raffaello in cui si parla dell’amicizia fra i due, e in quella di Michelangelo in cui si dice che il giovane Buonarroti si esercitava su un bulino di Dürer – informazione sbagliata, poi corretta nel 1568). Cos’è successo? E’ nato il mito fiorentino di Michelangelo; si è consolidata la tesi della rinascita delle arti tramite l’arte toscana. Per Dürer non c’è spazio. E’ lecito che Dürer possa, con le sue incisioni, fornire ispirazione a decine e decine di artisti; non è lecito che chi non appartiene alla tradizione fiorentina possa fare ombra al progetto di glorificazione del potere dei Medici. Più che nella sostanziale rimozione dalle Vite torrentiniane (1550) è importante quanto scritto da Ascanio Condivi, biografo di Michelangelo, solo tre anni dopo (1553): Condivi afferma di sapere che Michelangelo “quando legge Alberto Duro, gli par cosa molto debole… Alberto [n.d.r. stiamo parlando del trattato delle proporzioni] non tratta se non delle misure e varietà de’ corpi, di che certa regola dar non si può, formando le figure ritte come pali; quel che più importava, degli atti et gesti umani non ne dice parola” (p. 72). Come dire: Dürer ha scritto di proporzioni, Michelangelo no; ma le proporzioni di Dürer sono uomini ritti come pali; gli atti e i gesti umani si imparano guardando la pittura di Michelangelo. 

Albrecht Dürer: Due pagine del Trattato sulle proporzioni umane
Fonte: http://theshipthatflew.tumblr.com/


Quando nel 1568 escono le Vite nell’edizione giuntina, Dürer ha molto più spazio (ma non una vita autonoma) all’interno della biografia di Marcantonio Bolognese (Marcantonio Raimondi), e d’altri intagliatori di stampe; la sua biografia è quello di un incisore, non di un pittore né di un trattatista. Vasari redige un vero e proprio inventario delle incisioni e dei bulini del tedesco (a volte dando informazioni esatte, a volte non riuscendo a distinguere copie altrui dagli originali), che avrà naturalmente un valore fondamentale nel collezionismo successivo; e presenta il catalogo di Dürer in coppia con quello del suo allievo Luca di Leida. Da quel momento in poi il binomio Dürer-Luca di Leida è un luogo comune della letteratura artistica italiana. Ma se un giudizio su Dürer pittore si cerca, bisogna andare alla vita del Pontormo, quando si parla degli affreschi di quest’ultimo nella Certosa di Firenze. E ad essere criticato non è il fatto che Pontormo abbia ‘inventato’ a partire dalle incisioni di Dürer, quanto il fatto che abbia aderito eccessivamente alla sua ‘maniera tedesca’: “Né creda niuno che Iacopo sia da biasimare perché egli imitasse Alberto Duro nell’invenzioni, perciò che questo non è errore, e l’hanno fatto e fanno continuamente molti pittori. Ma perché egli tolse la maniera stietta Tedescha in ogni cosa, né panni, nell’aria delle teste e l’attitudini, il che doveva fuggire, e servirsi solo dell’invenzioni, havendo egli interamente con grazia e bellezza la maniera moderna” (p. 155). 

Jacopo Pontormo, L'ascesa al Calvario (1523)
Certosa del Galluzzo, Firenze

L’autore ritiene peraltro (personalmente non ne sono del tutto convinto) che l’utilizzo del cognome italianizzato nella versione Duro e non Durero non sia un caso, ma una precisa scelta semantica, a rimarcare la “durezza” della scuola tedesca.

Il giudizio storico di Vasari e la sostanziale condanna fiorentina si ripercuoteranno nei decenni successivi, come logico. Non a caso, quando esce la traduzione veneziana del 1591 del Trattato delle proporzioni Gallucci sceglie di aggiungere un quinto libro “nel quale si tratta, con quai modi possano i Pittori e Scoltori mostrare la diversità della natura de gli huomini e donne, e con quali le passioni, che sentono per li diversi accidenti, che li occorrono”. E’ una risposta alle critiche del Condivi sul fatto che Dürer parli di proporzioni solo in termini di uomini dritti come pali, e alle note di Vasari sulla ‘durezza’ dell’artista.


Dürer e Baldinucci

Quando nel 1686 Filippo Baldinucci scrive il suo Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame avverte l’esigenza di cominciare la serie delle 18 biografie che lo compongono proprio con quella di Albrecht Dürer. E avverte soprattutto la necessità – lui, che potremmo definire più vasariano del Vasari nel perseguimento della centralità della Toscana nel rinascimento delle arti – di completare i dati forniti da Vasari con particolare riguardo all’opera pittorica del maestro tedesco. Se l’impianto di base è lo stesso del suo illustre predecessore, ovvero che la pittura oltremontana, nonostante la diligenza e l’accuratezza, non ha mai raggiunto la grazia e il decoro della maniera fiorentina, Baldinucci avverte chiara la necessità di colmare molte lacune biografiche. Baldinucci, si sa, è uno straordinario collettore di informazioni, più o meno affidabili che esse siano. Ricorre quindi da una lato a Vasari per l’opera incisoria, dall’altro a Van Mander e alle sue Vite dei pittori dei Paesi Bassi e tedeschi (1604 e 1618 in seconda edizione) per arrivare a un risultato più completo. Poi, naturalmente, non disdegna di recuperare quanto di interessante sia stato pubblicato nella letteratura artistica italiana, a partire dal Lomazzo, Gallucci, Tassoni ed Agucchi. Il tutto coi limiti ben noti dell’autore: la sua è una cultura libresca, basata sulla raccolta delle informazioni, non sulla visione delle opere. Per forza di cose, quindi, nel catalogo di Dürer finisce tutta una serie di dipinti e più in generale di opere che di Dürer non sono, ma che continueranno ad essergli attribuite fino all’Ottocento; tutto ciò che è nordico va ad ingrossare l’opera di Dürer, che diventa quindi una sorta di modello di un’indistinta regione nord-europea. Nel fare tutto ciò, tuttavia, Baldinucci esprime e rappresenta una tendenza collezionistica che è andata maturando in Italia nel corso di tutto il Seicento. Lui non inventa attribuzioni; riporta attribuzioni che sono andate maturando, in maniera superficiale, nel mondo del collezionismo italiano e che sono state poi puntualmente riportate nella letteratura artistica coeva. 


Fra Vasari e Baldinucci

In realtà man mano che vado avanti mi rendo conto di quanto sia frustrante recensire un libro del genere, perché i sentieri da seguire sarebbero decine e decine e, ovviamente, non ho modo di farlo. Ne segnalo alcuni, senza alcuna pretesa di completezza, ma solo per segnalare quanti siano gli spunti che l’opera offre:

la fortuna del trattato di geometria düreriano, da un lato da un punto di vista matematico in senso stretto, dall’altro nei trattati di architettura specie del Cinquecento (si veda in particolare Daniele Barbaro); ed ancora la fortuna particolare dell’ultimo libro del trattato, dedicato alla prospettiva (si pensi solo alla fama che acquisisce negli anni lo ‘sportello dureriano’). Non è peraltro un mistero che, specie nel XVI secolo, è il trattato di geometria ad essere quello più citato e commentato nella letteratura artistica;

Lo sportello di Dürer
Fonte: http://brunelleschi.imss.fi.it/bdtema/ibpr.asp?c=5003&xsl=7

la fortuna del trattato d’architettura militare, che costituisce un filone tutto a sé, e che viene recepito, di fatto, come facente perfettamente parte di un’arte che è prettamente italiana. Dürer, insomma, è un architetto militare italiano con un cognome straniero (si veda in particolare il Della fortificatione delle città di Girolamo Magi (o Maggi) del 1564 come trattato che a tutti gli effetti ‘sdogana’ Dürer in una visione storica della discilplina);

il giudizio espresso su Dürer dai teorici della Controriforma (e qui il primo a cui viene da pensare è il Cardinale Paleotti con il suo Discorso intorno alle immagini sacre et profane). Dürer è considerato pittore devoto ed alieno da ogni vizio, e quindi di fatto liberamente accessibile ed anzi consigliato dalla Chiesa dopo il Concilio di Trento. Un dato tutt’altro che scontato, se si pensa a certi eccessi a cui portò la Controriforma semplicemente sulla provenienza geografica di autori e/o opere;

la particolare sensibilità, ma anche la conoscenza specifica dell’opera artistica e della trattastica, che Giovan Paolo Lomazzo dimostra nei confronti di Dürer nei suoi trattati del 1584 e del 1590 (Fara sostiene che, prima della traduzione italiana di Gallucci del 1591, alcuni passi del Trattato dell’Arte de la Pittura del 1584 rappresenterebbero, di fatto, il primo abbozzo di traduzione italiana dei libri sulle proporzioni umane di Dürer).


Dürer nelle biblioteche italiane

Il capitolo finale è per intenditori. Fara si è preso la briga di censire e classificare tutte le copie a lui conosciute di trattati düreriani conservati nelle biblioteche italiane. Troppo modestamente parla di un elenco forzatamente incompleto. Fatto sta che stiamo parlando di 197 esemplari censiti, la maggior parte dei quali costituiti o dalle edizioni latine o dall’edizione italiana del libro sulle proporzioni umane nella traduzione del Gallucci del 1591. E’ andato a vedere le note di possesso, ma anche e soprattutto quali siano gli esemplari postillati. Li indica ed apre così nuove strade di studio per gli studiosi che vorranno applicarsi negli anni venturi allo studio del recepimento del pensiero dell’artista di Norimberga (e non di Anversa, come diceva Vasari) in Italia.

  
NOTE

[1] Se a ciò si aggiunge che nel 2007 Giuditta Moly Feo ha curato la nuova edizione italiana dei Quattro Libri sulle Proporzioni Umane, condotta sulla princeps tedesca del 1528 e non su traduzioni dal latino (Edizioni Bononia University Press) si capisce che nel giro relativamente breve di 15 anni gli studiosi di Dürer hanno avuto la possibilità di accedere ad edizioni moderne e commentate di quasi tutta la produzione teorica dell’artista tedesco.

[2] Trattando chiaramente l’opera di fonti italiane (come specificato nel titolo) ci si potrebbe chiedere come mai compaia il Libellus de laudibus Germaniae et ducum Saxonie, pubblicato da Christoph Scheurl a Lipsia nel 1508. Semplicemente perché al suo interno vi compaiono alcune poesie composte dall’umanista italiano Riccardo Sbruglio per celebrare il passaggio di Dürer a Ferrara enl 1507.


[3] Recentemente pubblicato a cura di Evelina Borea (2013) nella Piccola Biblioteca Einaudi. Peraltro, nel commento alla vita di Dürer è scritto esplicitamente che ci si richiama a precedenti saggi di Fara.

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