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lunedì 14 aprile 2014

Francesco Mazzaferro, Jan Verkade, Cennino Cennini e la ricerca dell'arte spirituale durante la Prima guerra mondiale - Parte seconda

English Version

SI VEDA: PROGETTO CENNINI

Francesco Mazzaferro
Jan Verkade, Cennino Cennini e la ricerca dell'arte spirituale durante la Prima guerra mondiale
Parte seconda

[Versione orginale aprile 2014 - nuova versione aprile 2019]

Leggi la Parte prima



Fig. 7) Cartolina sull'arte di Beuron alla Mostra di Vienna sulla Secessione (1905)
(copyright André M. Winter, pubblicata dietro sua cortese autorizzazione)

Simbolismo e Sintetismo, da Gauguin ai Nabis


Come detto, Jan Verkade scrisse, nella sua Prefazione alla traduzione di Cennino: “La nuova direzione verso cui si indirizzerà la pittura sarà di natura spirituale”. Parlando di se stesso, di Paul Sérusier e di Maurice Denis, pochi anni dopo, aggiunse, a p. 228 delle sue memorie del 1920: “Noi eravamo gli apostoli del Simbolismo, del Sintetismo e del Tradizionalismo”. E Annette Kehrbaum elenca gli elementi stilistici formali in comune ai tre in termini di linea, colore e composizione. La linea è funzionale allo scopo di ‘deformare’ intenzionalmente le cose (un concetto già visto in Baudelaire) attraverso contorni chiaramente definiti; i colori sono radicalmente semplificati; la composizione combina elementi di reale ed irreale. La Visione dopo il Sermone di Paul Gauguin). 

Guardiamo innanzi tutto come Paul Sérusier spiega questi concetti chiave nel suo libro ABC de Peinture – Correspondance del 1921, presente in questa biblioteca in un’edizione del 1956. Il suo quadro Il talismano  (del 1888) è considerato il prototipo del Sintetismo. “La natura è l’insieme di oggetti che sono percepiti dai nostri sensi. Nella nostra impossibilità di inventare forme e colori, faremo uso di quelli che sono catturati dalla nostra vista. Se l’arte del pittore si riducesse a imitare – riproducendole su una superficie piana – le immagini che ha percepito, egli non produrrebbe altro che un atto meccanico, a cui non prenderebbe parte nessuna delle facoltà superiori dell’essere umano: questa sarebbe l’impressione, annotata senza aggiungere nulla, un lavoro privo di intelligenza. La natura, intesa in questo senso, non è più pittura. Analizziamo infatti la formazione di una sensazione determinata dalla vista. Un essere umano normalmente costruisce una forma con due occhi, ognuno dei quali trasmette un’immagine al cervello, e queste due immagini sono fra loro differenti. Bisogna sceglierne una e distruggere l’altra. Oltre a ciò, la nostra mente costruisce – procedendo per deduzione dalle altre due – una terza immagine, che comprende anche la collocazione nello spazio, ovvero un’immagine a tre dimensioni. Data la forma piatta di un quadro, si rende necessario rappresentarvi in qualche modo quest’immagine tridimensionale o distruggerla. In entrambi i casi una semplificazione dell’immagine ci permetterà di trasportarla su una superficie piana: quindi si verifica una nuova modificazione dell’immagine, una modificazione intenzionale, per poterla adattare alla superficie piana. La percezione sensoriale che ci procura un oggetto ci fa tornare alla mente nozioni precedentemente acquisite in merito a quell’oggetto, che sono conservate nella nostra memoria. La più importante è il ‘concetto’ che abbiamo dell’oggetto, che è il risultato di una generalizzazione. Dopo aver riconosciuto e dato un nome all’oggetto, la nostra mente lavora: fa uso delle esperienze precedentemente acquisite tramite gli altri sensi: forma, posizione nello spazio, peso, movimento o riposo, utilità e così via. I sentimenti personali si cumulano con questi dati: amore, o repulsione (bellezza o bruttezza). A questi tutti fattori, che modificano l’immagine, bisogna poi sommare lo stato psicologico e fisiologico del soggetto, che può variare in qualsiasi momento (sensibilità). Tutti questi coefficienti agiscono su ciò che è stato percepito fino al punto di trasformarlo in un’immagine mentale. Siamo molto lontani dall’originaria immagine percepita dalla vista, che non ha più che un ruolo subalterno”. Quest’immagine mentale è la sintesi, che deve essere ispirata a regole stilistiche universali, valide attraverso la storia e le culture, e che consistono nel rispetto delle buone proporzioni e della sezione aurea. Sérusier dedica un intero capitolo ad equazioni matematiche. Egli ritiene che il suo principale contributo alla storia dell’arte sia appunto questo concetto di arte formalizzata su basi matematiche.

Vediamo ora come Jan Verkade usi lo stesso linguaggio, nel 1914-1916, per commentare le prescrizioni di Cennino Cennini sul disegno (p. 21, n. 1) e per farne un predecessore dell’arte sintetista contemporanea. “I disegni della natura degli antichi maestri – in particolare dei primitivi – seguono sempre uno stile, mentre i disegni dei moderni raramente lo fanno. Una delle ragioni fondamentali di questa impressionante differenza è che quei pittori – nel loro lavoro artistico – sapevano come combinare le informazioni che catturavano dagli oggetti con la loro apparenza in un determinato momento. Non si limitavano a riprodurre semplicemente l’immagine corrente delle cose, ma riproducevano la sintesi di tutte le loro percezioni e, pertanto, quando disegnavano la natura, la vedevano in maniera più oggettiva di quanto non si faccia noi. S’avvicinavano alla natura con grande rispetto, come qualcosa di perfetto, che aveva una sua esistenza reale, una sua forma a prescindere dallo loro, e questo rispetto originava dal loro profondo senso religioso. In generale, rispetto, moralità, purezza e pudore appartengono al cuore di un artista; allo stesso tempo, personalità e innocenza, grazia e dignità che compaiono sui volti dipinti dei loro contemporanei appartengono alle condizioni essenziali per produrre un’arte grande. Diversamente, l’artista si perde nel proprio animo, dove si ricorderà solo di figure superficiali e trasandate.

Nelle sue memorie del 1920 Verkade parla dell’arte a Parigi nel 1891. “In pittura, Gauguin odiava la rappresentazione servile della natura e teneva un certo distacco – almeno all’epoca in cui lo conobbi – rispetto all’impressionismo. Se infatti partì della percezioni sensoriali, imparò che l’impressione che produce la natura deve essere combinata con un riconoscimento estetico, che deve scegliere, ordinare, semplificare e sintetizzare. Capì che un pittore non può riposare fino a quando non ha nuovamente dato alla luce il risultato (in termini di decorazione visiva, per la gioia di tutti coloro che la vedono) prodotto dalla sua mente in combinazione con la realtà. All’origine dell’opera d’arte sarebbe dunque un doppio parto: una nascita nella mente ed una nascita materiale. Quest’ultima può tuttavia avere successo solo applicando le regole eterne della rappresentazione artistica, che ci permette di mediare tra la nostra esperienza e quella degli altri. E se Gauguin insisteva sulla struttura logica della composizione pittorica, sulla distribuzione armonica di macchie di colore chiare e scure, sulla semplificazione delle forme e le relazioni fra esse per ottenere come risultato un effetto visivo forte e d’impatto (a cui contribuiva l’inibizione dell’utilizzo del contrasto fra luci ed ombre), lo faceva perché poteva mostrare che conosceva i più importanti strumenti espressivi della pittura e che li aveva imparati diligentemente dai pittori di ogni epoca” (p. 63-64).

Concludendo, scrive Anna-Maria Von Bonsdorff: “L’artista simbolista mirava a sintetizzare tre aspetti: primo, l’apparenza esterna delle forme naturali; secondo, il sentire dell’artista nei confronti dell’oggetto dei sui dipinti; terzo: la purezza dell’analisi estetica di linee, colore e forma, in maniera tale che i colori coinvolgessero direttamente i sensi.” (p. 68)

E’ ancora Aurier, nell’articolo su Gauguin e simbolismo di cui abbiamo già parlato, a spiegarci come ciò si traduca in termini spirituali: “Un’opera d’arte è la traduzione,  in un linguaggio speciale e naturale, di un dato spirituale residuo, misurabile in valore: come minimo un frammento della spiritualità dell’artista e come massimo l’intera essenza spirituale di differenti oggetti. Un’opera d’arte completa è dunque un nuovo essere, si potrebbe assolutamente dire un essere vivente, perché ha uno spirito che l’anima, che è la sintesi di due spiriti, quello dell’artista e quello della natura.”


Dal cioccolato al nutrimento dello spirito

E’ giunto il momento di contestualizzare il dibattito teorico di cui abbiamo parlato sinora con particolare riferimento alla biografia di Verkade e alla sua appartenenza al monastero benedettino di Beuron, nel sud-ovest della Germania.

Jan era nato nel 1868, nel Nord dell’Olanda, da un famiglia protestante di rito Mennonita. Era il figlio di un industriale la cui azienda (http://www.verkade.nl/) esiste ancora ed è ben nota per la produzione di cioccolata, torte e biscotti. Il padre, Ericus Gerhardus Verkade, la fondò il 2 marzo 1886. Il fratello gemello di Jan ne prese in mano la gestione. Questo è l’albero genealogico della famiglia:
 http://en.wikipedia.org/wiki/Verkade_(family).



Fig. 8) Jan Rinke, Pubblicitá per i biscotti Verkade (ca. 1900)

A Jan non piacque la prospettiva di entrare nel business di famiglia e abbandonò la scuola commerciale per l’arte. Forse per lo stesso motivo volle lasciare l’Olanda e lo fece dirigendosi nel 1891 a Parigi, la capitale dell’arte Europea. Da quel momento in poi è un susseguirsi travolgente di avvenimenti, in cui arte e religione sono collegati in maniera inestricabile. Fece conoscenza, come abbiamo già visto, con Paul Gauguin, Denis e Sérusier.  Divenne un membro dei Nabis. Dopo la partenza di Gauguin da Parigi, Verkade si trasferì in Bretagna (1892), sempre al fianco di Denis e Sérusier e di altri pittori Nabis. La vocazione religiosa, nel frattempo, è già arrivata: nelle sue memorie ricorda che avvertì i primi segni di una chiamata religiosa visitando il Louvre e Notre-Dame di Parigi. In Bretagna si converte al cattolicesimo e riceve il battesimo. Dopo qualche mese in Bretagna, nel 1893 Verkade è in Italia, assieme all’amico e pittore danese Mogens Ballin. Visita il monastero francescano di Fiesole; resta fulminato sia dalla vita monastica sia dall’arte del Trecento. Il padre gli scrive dicendogli che non avrebbe più finanziato i suoi viaggi in Francia, Germania ed Italia; lui risponde dicendo che ha deciso di essere un pittore religioso. Si fa ospitare nel monastero di Fiesole, poi scrive una lettera a Peter (Desiderius) Lenz, lo incontra già nel 1893 e nel 1894 entra come novizio nel monastero di Beuron, cambiando il suo nome in Willibrord.

Da quel momento tutta la vita di Verkade si svolge nell’ambito (ma solo parzialmente all’interno delle mura) del monastero di Beuron. Solo parzialmente perché in realtà Verkade viaggia moltissimo per eseguire le sue opere in altri monasteri (abbiamo già ricordato Montecassino, in cui lavorò fino al 1905), ma anche, come vedremo, per motivi di studio e come una sorta di “Ministro degli esteri” dell’arte Beuronese nel resto d’Europa. 


L’arte di Beuron

Peter Lenz, ovvero Padre Desiderius Lenz (il destinatario della lettera di Verkade) era un monaco benedettino che aveva creato nel 1868 la Scuola d’Arte Beuronese. Lasciamo spiegare allo stesso Lenz (sia pure indirettamente, nelle parole riportate nelle memorie di Verkade) l’origine di questo movimento artistico. Ci sono molti elementi in comune col simbolismo francese. 

“Io ero dispiaciuto che l’arte moderna avesse smarrito una direzione verso cui andare e si fosse arresa al naturalismo, diventando così semplicemente una variabile di preferenze individuali. Per molti anni mi sono confrontato, senz’aiuto alcuno, con la natura e le sue continue manifestazioni, finché non sono giunto alla conclusione che limitarsi a copiare goffamente la natura non avrebbe mai condotto alla qualità del mondo antico. Quindi, ho cercato di meglio comprendere l’arte della creazione negli antichi. Le opere degli antichi Cristiani e dell’arte bizantina – così come quelle di Giotto – mi insegnarono che geometria e separazione sono gli elementi principali nell’esercizio delle arti. Tuttavia, non ho colto in esse l’uso cosciente e intenzionale di questi strumenti, pure imperativi. Gli antichi Cristiani e gli artisti bizantini facevano uso di misure e separazione apparentemente solo per via di una vecchia tradizione ormai indebolitasi e Giotto ne fece uso solo perché si trattava del suo modo di sentire. Gli antichi maestri greci, al contrario, sembravano aver usato precise regole di misurazione e separazione. Quali erano queste regole? (…) In particolare fu lo studio delle figure vascolari sul vasellame greco che mi permise di fare progressi. Attraverso lo studio di queste figure giunsi alla fine a conoscere il lavoro monumentale di  Lepsius [n.d.r. famoso egittologo tedesco, direttore del Museo egizio di Berlino] sugli antichi templi egizi. Quando vidi quest’opera, con grande emozione mi sembrò come se avessi visto quelle opere d’arte da sempre. Alla fine e per la prima volta, la mia innata passione per numeri e simmetria, ordine e modularità aveva trovato piena soddisfazione. Vi trovai la religiosità così come l’intendevo: un’immersione appagante nel mio animo e nella profondo dell’eternità.” (p. 203).

Nel 1871 Lenz elaborò un canone sulle proporzioni umane, che rivela alcune comunanze col costruttivismo e l’astrazione e ne fece la base dell’arte di Beuron. Lenz lo mantenne segreto al mondo esterno, ma lo mostrò a Verkade, Sérusier e Denis nel 1893. Non lo menzionò nel suo libro sull’estetica del 1898, che – come già detto – fu tradotto in francese da Sérusier e Denis nel 1904. Tuttavia, l’interesse dei pittori Nabis per il suo lavoro lo convinse alla fine a rendere pubblico il canone.  

Jan Verkade spiegò nel secondo volume delle sue memorie, pubblicato nel 1931, che egli concepiva l’arte Beuronese come uno “stile in senso stretto”. Ciò dicendo, faceva riferimento a Romano Guardini (1885-1968), un teologo e filosofo italo-tedesco vicino a Martin Heidegger, nonché uno dei padri del Movimento Liturgico (si veda oltre). Sia Guardini sia Heidegger visitarono assiduamente Beuron. Guardini differenziava fra ‘stile in senso generale’, ‘stile in senso stretto’ e ‘schema’. Lo stile in senso generale è l’espressione della capacità creativa di una personalità (come tale specifica e individuale) e implica che specifici elementi personali diventino d’importanza generale. Al contrario, lo stile in senso stretto “è creato quando ciò che è personale passa in secondo piano rispetto a ciò che è generale; quando ciò che è accidentale – perché dipende dal tempo e dal luogo in cui si verifica – (…) è rimpiazzato fino a un certo grado da ciò che è necessario e valido in ogni occasione, luogo e per ogni persona; se la semplice realtà – che di per sé è sempre concreta ed individuale – è rimodellata in maniera tale che quanto vi è di tipico, di valore generale e  di significativo in senso ampio venga messo in primo piano” (Verkade, 1931, p. 69). Uno schema è la conseguenza di un’eccessiva stilizzazione, basata su concetti e regole astratte. Citando Guardini, Verkade scrive: “Uno stile vero mantiene anche nelle sue forme più strette la forza di convinzione di un’espressività matura”



Fig. 9) Cartolina sull'arte di Beuron alla Mostra di Vienna sulla Secessione (1905)
(copyright André M. Winter, pubblicata dietro sua cortese autorizzazione)

La definizione di tipico data da Verkade non è “tipico” nel senso di “individuale”, ma, al contrario, di “Grundtyp”, ovvero di “caratteristiche tipiche fondamentali”. “Senza caratteristiche fondamentali non c’è grande arte, e non ce n’è nemmeno una piccola. Queste “caratteristiche tipiche fondamentali” non si creano “da sole” e non sono mai generate dall’abilità del singolo artista. Si tratta, piuttosto, di caratteristiche tradizionali, che ricevono da ognuno la loro espressione specifica. Non potrebbero tuttavia essere bellissime o trasmissibili se non fossero basate su semplici rapporti di massa. L’osservazione e l’esperienza mi hanno insegnato che in pittura – non solo da un punto di vista tecnico, ma anche in senso estetico – molto dipende da quale livello di perfezione (…) una forma normalizzata [Normalgestalt – nota del traduttore: lo stesso termine usato dagli psicologi della Gestalt] sia in grado di assicurare alle cose che sono rappresentate dall’artista [e] che sono maturate nella sua fantasia […]. Tutti i grandi maestri,  Giotto come il Beato Angelico, Piero della Francesca, Leonardo, Michelangelo e Raffaello, Dürer e Rubens avevano le loro forme normalizzate, che conoscevano a memoria e che usavano per dipingere. E che non fosse diversamente nell’antichità è mostrato da una qualsiasi opera d’arte egizia, greca o romana” (p. 79).

Lo scopo dell’arte di Beuron è quello di essere ‘monumentale’, di una monumentalità caratterizzata da “semplicità, non-differenziazione e unità”. “In fin dei conti, le condizioni per riuscire a raggiungere uno ‘stile in senso stretto’ mi sembrano essere le seguenti: un profondo rispetto per il divino in sé e per la creazione. Capacità intuitiva di creare forme. Senso dello stile. Capacità di percepire ciò che è necessario e ciò che è generale. Una tecnica di creazione dell’opera d’arte spirituale (geometria estetica). Una mano allenata. E, in particolare, anche l’immensa fortuna di incontrare il divino nella figura umana, bellissima e sempre celestiale. Il terreno sociale necessario per un grande stile è un sistema politico solido [nota del traduttore: queste parole vengono scritte durante la repubblica di Weimar, in un momento di profonda instabilità]. E se il fiorire di un’arte grande e monumentale dipende dalla combinazione di condizioni fortunate, il suo radicamento si è sempre verificato in un sistema di governo gestito con polso – nel quale regnavano la paura di Dio, una stretta disciplina e l’ordine -, anche se il momento di massima fioritura ha luogo in momenti in cui cominciano ad essere visibili segni di decadenza”. (pp. 74-75).

L’affinità fra arte e religione, fra stile collettivo e disciplina è molto probabilmente l’interesse massimo di Verkade per il Libro dell’Arte di Cennino, un manuale indirizzato – per usare la sua terminologia - agli artisti che aspirano a un’arte monumentale ed a uno stile in senso stretto.


Beuron come centro culturale europeo

Oltre all’arte, peraltro, ci sono quattro fatti a testimoniare che Beuron era un ambiente culturale di estrema ricchezza. Primo: l’abbazia ospita ancor oggi la più vasta biblioteca monastica tedesca, con circa 400.000 volumi, fondata negli anni ’20. Secondo: Beuron fu in quegli anni uno dei centri all’origine del Movimento Liturgico che, a partire dai benedettini tedeschi, mirava a ri-orientare la liturgia verso alcuni valori del passato (compresa, ad esempio, l’importanza del gregoriano e della musica corale sacra in generale). Terzo: filosofi di primaria importanza come Martin Heidegger (1889-1976) e Max Scheler (1874-1928) visitarono spesso Beuron. Quarto: Beuron ospitò alcuni dei leader religiosi della resistenza cristiana ai nazisti. Tra essi, la personalità più nota era quella di Edith Stein (1891-1942), ovvero Santa Teresa Benedetta della Croce, una dei santi patroni dell’Europa, che si formò religiosamente a Beuron fra 1927 e 1933. Furono 15 le sue permanenze all’abbazia. Su Beuron ella scrisse: “Lo consideravo come l’anticamera dei Cieli”. Edith Stein era una suora convertita di origini ebraiche, attiva come filosofa e pubblicista, che più tardi morì ad Auschwitz. Jan Verkade pubblicò nel 1931 il secondo volume delle sue memorie. E’ impossibile che i due non si siano incontrati, dal momento che, in veste di Gastpater (“Padre ospitante”) di Beuron Verkade aveva la responsabilità di autorizzare l’ingresso nel monastero di tutti i visitatori. Purtroppo questi contatti con personalità così importanti per la storia dell’Europa ebbero luogo in un periodo di tempo non più coperto dai suoi memoriali.


L’arte Beuronese in Europa e Jan Verkade (il suo 'ambasciatore')

Per molti lettori, parecchie delle cose dette sino ad ora potrebbero suonare nuove. Spiritualismo, Sintetismo, arte Beuronese non sono oggi fra gli argomenti più comuni nella storia dell’arte. Il dibattito su Jan Verkade, Paul Sérusier e Maurice Denis appartiene a una ristretta cerchia di specialisti, non è presente nei normali manuali di storia dell’arte e sicuramente non è comune fra il grande pubblico.

E tuttavia, per diversi decenni, Jan Verkade ebbe un successo considerevole con i suoi due volumi di memorie che abbiamo richiamato sopra in varie occasioni. Le memorie furono stese inizialmente in olandese e poi tradotte in tedesco, inglese, francese, spagnolo, italiano, ceco e polacco. La vita dell’artista monaco, in cerca di una sintesi tra religione ed arte fu un bestseller nell’Europa fra le due guerre mondiali, per un pubblico che probabilmente era in cerca di una qualche forma di sollievo spirituale in anni di estrema difficoltà. Il secondo volume di Verkade si conclude con una postfazione di una pagina, in cui si spiega che – anche se l’autore si era volontariamente astenuto da fare riferimenti alla crisi economica e politica di quegli anni – egli era ben consapevole delle ansie e dei problemi quotidiani della gente.  

Quando scrisse la traduzione di Cennino nel 1914-1916, Jan Verkade era da un decennio l’intermediario fra il ricco mondo culturale del monastero e la comunità artistica al di fuori di esso. Aveva viaggiato, diffondendo l’arte Beuronese fra l’altro a Praga, Cassino, Vienna, Monaco, Parigi, Gerusalemme e ancora Vienna (due volte). Aveva mantenuto i contatti con i pittori Nabis (non solo Denis e Sérusier, ma anche Émile Bernard e Armand Seguin) e li aveva messi in contatto con Peter Lenz. Tra i suoi amici poteva contare su artisti, come il pittore Alexej von Jawlensky (1864 –1941) a Monaco e l’architetto Jože Plečnik (1872-1957) a Vienna, e su critici d’arte e di letteratura, come Julius Meier-Graefe (1867 –1935) in Germania e Hermann Bahr (1863-1934) a Vienna.



Fig. 10) Cartolina sull'arte di Beuron alla Mostra di Vienna sulla Secessione (1905)
(copyright André M. Winter, pubblicata dietro sua cortese autorizzazione)

Consideriamo ora la questione, complessa, di quali ricadute abbia avuto sull’arte del suo tempo la maturazione estetica dell’arte di Jan Verkade (a partire dall’interpretazione del simbolismo di Gauguin, passando dai Nabis – in particolare Paul Sérusier e Maurice Denis - per arrivare all’arte di Beuron). Per prima cosa prenderemo in esame – per forza di cose brevemente – la questione più generale se certi aspetti dell’arte di Beuron (sintetismo, ruolo delle forme geometriche e delle regole matematiche, canone delle proporzioni, tendenza all’astrazione) siano all’origine di altri movimenti artistici, come il cubismo. Daremo poi un’occhiata alla fortuna di Jan Verkade in Germania, Francia, Italia ed Austria-Ungheria. 


Beuron e il Cubismo

Chi più ha studiato l’impatto dell’arte di Beuron sui movimenti delle avanguardie è stato Peter Brooke. Brooke ha preso in esame gli scritti di estetica di Peter Lenz, così come il loro impatto sul movimento cubista e in particolare su Gino Severini e Albert Gleizes. In una postfazione a “Peter Lenz e il ventesimo secolo” (pubblicato a Londra nel 2002), Brooke ricorda che Paul Sérusier parlava di se stesso come del padre del Cubismo, facendo riferimento ai suoi “principi dogmatici” sull’estetica, basati su geometria ed aritmetica. Come già detto, Sérusier era stato influenzato, da parte sua, dalla teoria di Peter Lenz sulle “forme geometriche elementari: il quadrato, il triangolo, il cerchio, i rettangoli, la ‘Sezione aurea’.

“Né Serusier né Lenz – continua Brooke – sono ancora pronti a distaccarsi da una pittura basata sulla rappresentazione di un soggetto, ma entrambi sostengono che, piuttosto che essere copiato sulla base di apparenze esterne, il soggetto dovrebbe essere costruito a partire da una base essenzialmente astratta. […] Il meccanismo della prospettiva è visto con grande sospetto come un ostacolo all’espressione della ‘geometria estetica’. La pittura dovrebbe, finché possibile, essere piatta.” Questi temi, che Lenz aveva elaborato negli anni ’70 dell’800 sono molto vicini al cuore dei cubisti.



Fig. 11) Cartolina sull'arte di Beuron alla Mostra di Vienna sulla Secessione (1905)
(copyright André M. Winter, pubblicata dietro sua cortese autorizzazione)

Brooke ha studiato l’impatto di queste idee su due artisti cubisti, entrambi ispirati in maniera evidente da sentimenti di natura spirituale. Uno è Gino Severini (1883-1966), il più classico degli artisti cubisti, che corrispose per tutta la vita con il teologo Jacques Maritain (si veda Radin). L’altro è il teorico del cubismo, Albert Gleizes (1881-1953), che era interessato alla teologia, conosceva il lavoro di Verkade e le teorie di Lenz. Brooke ha tradotto gli scritti teorici di entrambi i pittori (si veda: Severini). Entrambi, per molti aspetti, non erano d’accordo con le teorie di Lenz, ma le conoscevano, le citarono nei loro scritti e riconobbero la loro valenza per il cubismo.


Beuron e la Germania (tramite Verkade)

Verkade entrò in contatto con tutte queste scuole artistiche durante un lungo periodo di permanenza a Monaco fra il 1906 e il 1908, dove si trattenne per motivi di studio. Le sue memorie non chiariscono quali fossero esattamente questi motivi di studio. Definiscono tuttavia il periodo di Monaco come una seconda “fase della mia vita vissuta all’insegna dello Sturm-und-Drang”. Ciò che si vuol dire, qui, è che Verkade rivisse a Monaco la stessa, estremamente intensa fase di contatto col mondo artistico che aveva già sperimentato a Parigi e in Bretagna fra il 1891 e il 1892. A quell’epoca, Monaco era una delle capitali dell’arte moderna e molte correnti artistiche che vi si incontravano (prima di tutte, il gruppo del Cavaliere azzurro) avevano motivazioni di ordine religioso e spirituale. 

Tuttavia l’espressione “Sturm-und-Drang” se da un lato esprime la frenesia dei contatti monacensi con altre scuole artistiche, probabilmente non ha, per Verkade, una connotazione positiva.  Le memorie di Verkade ci restituiscono l’impressione che la permanenza a Monaco sia stata un lasso di tempo poco fortunato per lui: da un lato egli ci fornisce pochissime informazioni sulla sua vita artistica in città, dall’altro ci racconta che quel periodo coincise per lui con una crisi creativa, in quanto divenne chiaro che non si sentiva più in grado di produrre un tipo di pittura ‘tradizionale’ di buona qualità. Verkade riferisce dei suoi contatti con Hugo Troendle (1882-1955), un pittore tedesco secessionista che più tardi si trasferì a Parigi, dove lavorò con Sérusier e Denis. Ci racconta inoltre della sua ammirazione per un pittore tedesco del secolo precedente, Hans Marées (1837-1887), affermando che era il primo pittore tedesco ad aver catturato la sua attenzione e la sua approvazione.

Le memorie non contengono invece alcuna informazione sostanziale sull’amicizia e la frequentazione intellettuale col pittore russo Jawlensky. Verkade lo incontrò durante la sua permanenza a Monaco; dipinse con lui nello stesso atelier per un anno a partire dal 1907 e gli insegnò i principi dell’arte sintetista. Inoltre ebbe con lui scambi epistolari per i successivi trent’anni. Per Jawlensky, che sarebbe entrato nel 1911 nel gruppo del Cavaliere azzurro (con Kandinsky, Macke, Marc e Klee) si trattò di un incontro importante. I due rimasero in stretto contatto. Trent’anni dopo, nel 1938, Jawlensky scrisse a Verkade una lettera sulle proporzioni e lo spiritualismo nell’arte: “Per qualche anno ho dipinto seguendo queste varianti, e ho capito poi che era necessario identificare una forma conveniente per il viso, perché mi son reso conto che la grande arte dovrebbe essere dipinta solo con sentimento religioso. E un simile sentimento io lo avrei potuto esprimere solo nel volto umano. Ho capito che l’artista deve raccontare con la sua arte, attraverso forme e colori, ciò che dell'artista è divino. Perciò, l’opera d’arte è un  Dio visibile, e l’arte è aspirazione a Dio”. 

Sono proprio le memorie di Jawlensky (dettate nel 1937, quando egli era ormai infermo da tempo, tanto da non riuscire a scrivere) ad aiutarci a capire quanto difficile debba essere stato quel periodo per Verkade (si veda: Jawlenskky, 1995). Dopo aver raccontato del loro incontro, e che il monaco era "bravo pittore, una persona interessante e molto colta" Jawlensky aggiunge: "Nel mio atelier Willibrord dipinse anche dei nudi splendidi e quando più tardi prese i voti [n.d.r. un'incongruenza: Verkade era già a Beuron da dieci anni] fece presente al padre superiore della loro esistenza e come penitenza fu costretto a recarsi a Gerusalemme per dipingere una chiesa" (pp. 122-123). Il periodo di Berlino non fu caratterizzato quindi solo da una crisi artistica, ma anche da una crisi spirituale, che probabilmente Verkade non ricorda volentieri nelle sue memorie.



Fig. 12) Cartolina sull'arte di Beuron alla Mostra di Vienna sulla Secessione (1905)
(copyright André M. Winter, pubblicata dietro sua cortese autorizzazione)

Nel 1911 Wassily Kandinsky (1866-1944) scrisse a Monaco un saggio intitolato “Sull’Arte Spirituale” (Fig. 40), pubblicato l’anno dopo. Kandinsky, quale co-fondatore del gruppo del Cavaliere azzurro, era in contatto permanente e molto stretto con Jawlensky. Alla base dell’interesse del gruppo del Cavaliere azzurro per la spiritualità vi fu la precedente frequentazione di Jawlensky con Verkade nel 1906-1908? O fu invece l’interazione con il mondo russo ortodosso di questi pittori con base a Monaco ad accrescere l’interesse spirituale di Verkade? Difficile a dirsi. Nelle memorie di Verkade non c’è alcun riferimento a Kandinsky. Allo stesso modo, non c’è alcun riferimento diretto al sintetismo e ai Nabis, né all’arte di Beuron nel saggio di Kandinsky, che fu tradotto in diverse lingue e divenne uno dei manifesti dell’arte astratta. Molto probabilmente Verkade e Kandinsky non s’incontrarono mai, dal momento che il primo lasciò Monaco (primavera 1908) esattamente quando Kandinsky si trasferiva dalla Costa azzurra al villaggio bavarese di Murnau, vicino a Monaco.


Ad ogni modo, la lettura del manifesto di Kandinsky rivela che qualche elemento in comune esiste: l’attenzione allo spiritualismo, il ruolo della religione, il ruolo delle forme geometriche nella composizione, l’importanza delle linee e dei colori, il riferimento ad un’arte pura ed eterna (“che è costante tra tutti i popoli, le nazioni e le epoche”) e la ricerca di “un’arte monumentale”. Ma i messaggi più importanti sono molto differenti: “Ogni periodo culturale” scrive il pittore russo, quasi respingendo implicitamente le tesi dell’arte Beuronese “crea una propria arte, che non più essere ripetuta nuovamente. Lo sforzo di far rivivere principi artistici del passato può, ben che vada, sfociare in opere d’arte che ricordano un infante nato morto” […] “L’artista dovrebbe avere sempre un messaggio da trasmettere: non la mera padronanza della forma, ma piuttosto l’adattamento della stessa a un appagamento interiore dovrebbe essere il suo obiettivo.” 


Altre reazioni tedesche

Gli ammiratori dell’arte di Beuron in Germania, come il critico d’arte e gesuita anti-modernista Josef Kreitmaier espressero il parere che l’arte Beuronese fosse del tutto incompatibile con ogni altra forma d’arte contemporanea e coltivarono l’aspettativa che nuovi stili artistici si sarebbero sviluppati in futuro ponendo le fondamenta per una nuova arte sacra, basata sull’inevitabile evoluzione della dottrina estetica di Peter Lenz. Rifiutarono con fermezza ogni dialogo con qualsiasi altra corrente artistica, comprese quelle che avevano esplicitamente o implicitamente un richiamo religioso.

Bernd Feiler spiega che, subito dopo la Prima Guerra mondiale, a Monaco vennero alla luce diversi movimenti artistici con un’identità spirituale Cristiana (oltre al già menzionato Cavaliere azzurro). Questi movimenti trovavano la loro ragion d’essere nel desiderio di assicurare il rinnovamento della religiosità nell’arte (in parallelo a simili movimenti, già citati, per il rinnovamento della liturgia). La Chiesa cattolica non comprese quanto sarebbe stato importante, per lo sviluppo dell’arte sacra, supportare questi movimenti riformatori, piuttosto che tenerli a distanza. Fu anche contro questi movimenti che le locali gerarchie ecclesiastiche cercarono di promuovere una nuova ‘arte monumentale’ basata sugli affreschi, i cui artisti (Johannes Becker-Gundahl, Martin Feuerstein, Gebhard Fugel, Franz Reiter, Josef Eberz e Josef Bergmann) sono oggi quasi dimenticati, anche tra gli specialisti.

Tutto sommato, col senno di poi, è chiaro che la scelta dell’isolamento operata dalla Chiesa ufficiale non fu premiante. Nella monografia di Roger Lipsey su “La spiritualità nell’arte del ventesimo secolo” l’arte di Beuron non è citata nemmeno una volta.


Beuron in Francia (tramite Verkade)

La fortuna dell’arte di Beuron in Francia fu relativamente importante. Maurice Denis e Paul Sérusier – come studiato ampiamente da Annegret Kehrbaum – interpretarono l’arte Beuronese come un movimento simbolista e fino al 1906-1907 anche la loro produzione artistica sembrò essere influenzata da Lenz e Verkade. Entrambi videro la rappresentazione lineare e piatta delle immagini come una forma di “sintesi”, sulla scia di Gauguin. Gli elementi di somiglianza comprendevano: l’uso di ‘figure immediatamente significative’, la pratica della prospettiva bidimensionale, l’utilizzo ridotto dei colori, l’interesse per l’antica arte primitiva come ‘arte cerebrale pura’, la predominanza della decorazione, l’idea di un’armonia universale e di regole matematiche generali applicabili all’arte in tutti i tempi e le regioni, l’idea del rinnovamento dell’arte sacra. L’articolo di Maurice Denis “Note sull’arte sacra” (pubblicato in Denis, 1912) è dedicato a Jan Verkade e offre un’estesa discussione sul parallelismo fra arte cristiana antica (in particolare arte bizantina) e simbolismo francese. Verkade rispose che l’arte di Beuron s’ispirava all’antico Egitto e all’arte greca, non a quella bizantina. Come già detto, il libro di Lenz fu tradotto in francese da Paul Sérusier, con un’introduzione di Maurice Denis (quest’ultima fu pubblicata anche separatamente in Denis, 1912). 

I contatti fra Denis e Sérusier da un lato e la scuola di Beuron dall’altro divennero meno frequenti negli anni ‘10, quando cominciarono a divenire evidenti importanti differenze. Annegret Kehrbaum ci fornisce un’analisi meticolosa e completissima del graduale distacco tra i due pittori e la scuola di Beuron. In particolare, Denis e Sérusier osservarono come l’ambiente di Beuron fosse divenuto man mano sempre più caratterizzato da schemi collettivi che limitavano la capacità degli artisti (compreso Verkade) di esprimere la loro personale individualità. A partire dalla seconda parte del secondo  decennio del secolo, poi, Maurice Denis cambiò i suoi orientamenti stilistici, muovendosi verso uno stile più classico, influenzato da Cezanne.

Al di fuori della coppia Sérusier-Denis, vi sono poche tracce della fortuna dell’arte beuronese in Francia. Come detto più avanti, il paese, in termini religiosi, era spaccato a metà. Paul Gaugain, maestro di Verkade, stilò un manoscritto fra il 1897 e il 1898 (intitolato “Lo spirito moderno e il cattolicesimo”) (Fig. 44) che poneva l’accento sulla necessità di spiritualismo, ma che era sostanzialmente anti-clericale. Diversi pittori Nabis (con l’eccezione forse di Pissarro e Anquetin) consideravano l’estetica di Lenz con sostanziale indifferenza. 



Beuron in Italia: il parere di Giuseppe Prezzolini e un articolo del futuro Papa Paolo VI

Le principali reazioni all’arte Beuronese in Italia sono di diversa origine: da un lato è interessante il giudizio che Giuseppe Prezzolini diede di Verkade (che conobbe personalmente) e dell’arte Beuronese. Molto posteriore è l’analisi stilistica (1929) di Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che tuttavia testimonia da un lato l’attenzione del mondo cattolico verso l’esperienza di Beuron (in Italia vivificata dagli affreschi di Montecassino) e dall’altro, più in particolare,  il particolare interesse di Papa Montini per ogni forma di manifestazione artistica. Esaminiamo brevemente entrambi gli scritti.

Giuseppe Prezzolini (1882-1982) era uno dei responsabili della rivista filosofica e letteraria anti-positivista Leonardo, fondata nel 1903. Verkade incontrò anche l’altro responsabile del Leonardo, Giovanni Papini (1881-1956). Verkade fece la conoscenza di Prezzolini nel 1905, e quest’ultimo visitò Beuron nel 1906. Due anni dopo, Prezzolini firmò un saggio su Verkade e sull’arte di Beuron, distinguendo fra due aspetti, quello teorico e quello artistico. Sulla teoria si mostrò in disaccordo; sull’arte diede un giudizio fortemente a sostegno (Fig. 45).

Fig. 13) Giuseppe Prezzolini, La teoria e l'arte di Beuron
in Vita d'arte (aprile 1908)

Sugli aspetti teorici, Prezzolini mise tre punti fermi. Primo: notò che, con la partecipazione alla mostra delle Secessioni nel 1905 (tenutasi a Vienna; si veda oltre) – l’arte di Beuron aveva dimostrato capacità di dialogo con molte altre culture. In secondo luogo: affermò che, anche se Lenz aveva imparato a dipingere coi Nazareni, la sua scuola andava giudicata in piena autonomia, perché aveva radicalmente rifiutato ogni eredità dell’arte gotica (a differenza degli artisti secessionisti). Come terzo punto, ritenne che le premesse estetiche del movimento artistico, basato sull’uso delle ‘caratteristiche tipiche’ in contrapposizione alla ‘caratteristiche individuali’, fossero radicalmente sbagliate, dal momento che “un’arte che ricerca meccanicamente il tipico e non l’individuale finisce per essere meccanica. La capacità visiva del pittore, come ogni espressione artistica, non fa altro che estrapolare l’individuale dal caos in cui vive l’uomo coi suoi sensi; e spesso circoscrive ciò che è individuale in una forma eterna (come una statua di Fidia, un verso di Dante, una melodia di Wagner), ma in una forma unica ed individuale che è separata e caratterizzata dal resto del mondo. (… Se l’arte consistesse nella ricerca di un prototipo, una volta che avessimo trovato il prototipo di un ragazzo o di un adulto, di un albero o di una nuvola, di un’onda o di una cascata, non dovremmo far altro che ripeterlo sempre meccanicamente, come una macchina per la stampa ripete le sue stampe. Sì, questa sarebbe arte meccanica.)”

Sull’aspetto artistico, Prezzolini dice invece che, nonostante gli sforzi volti a battersi per uno stile uniforme, le pitture della scuola di Beuron sono differenti, rivelando sia la personalità sia il gusto individuali sia l’evoluzione tra i primi lavori a Beuron e le opere di Cassino, Praga e Stoccarda. Prezzolini giudica le opere come “risultati di visioni artistiche”, non come conseguenze del canone di Lenz. “Gli artisti credevano in questa teoria perché la teoria si combinava con la loro volontà artistica e permetteva loro di seguire facilmente la loro specifica immaginazione”. Tra tutti gli artisti di Beuron Prezzolini preferisce Padre Krug. In conclusione, è del parere che ‘l’opera della Scuola di Beuron sia teologia cattolica in forma di pittura’. Rifiuta l’idea che l’opera della Scuola di Beuron sia arte primitiva: “E’ molto sofisticata, altamente elaborata. Un’arte, oserei dire, come quelle che nascono alla fine di una civiltà, non di quelle che sono la prima espressione di una nuova.”

Prezzolini provò a presentare Verkade ad altri rappresentanti della cultura italiana, come Ardengo Soffici (1879-1964). Lo descrisse a Soffici come un amico di Maurice Denis e il rappresentante di uno stile sacro innovativo e non convenzionale. Come prevedibile, il suo tentativo fallì: Soffici era anti-clericale (si veda: Margherita D’Ayala Valva). Per un giudizio complessivo sulla fortuna dell’arte di Beuron in Italia si veda la monografia di 600 pagine di Mariano Apa. Il recente restauro della cripta di Montecassino (2013) ha fatto nascere un nuovo interesse per questo tipo di arte in Italia.

In un articolo esattamente del 1929, Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI (1897-1978) faceva riferimento all’arte Beuronese come ad “una delle correnti meglio definite nel panorama dell’arte sacra contemporanea, e sino ad ora, una di quelle che più si è diffusa”. La popolarità dell’arte di Beuron era diventata mondiale con i lavori all’abbazia di Montecassino, dove Verkade fu attivo per due anni. L’abbazia fu in gran parte rasa al suolo durante la Seconda guerra mondiale, ma la cripta, affrescata dagli artisti di Beuron, compreso Verkade, è stata di recente restaurata e riaperta, cent’anni dopo la sua inaugurazione ad opera di Papa Pio X, nel 1913.

L’articolo di Montini su Beuron, non privo di argomenti critici, merita senza dubbio di essere letto. Egli concentrò i suoi commenti sul nesso tra il tentativo degli artisti di Beuron di rinnovare l’arte cristiana e la rivitalizzazione della liturgia cristiana, sul loro sentimento spirituale di riferimento diretto all’arte antica (compresa l’antica arte cristiana, ma soprattutto in riferimento all’arte dell’antico Egitto e della Grecia), sull’importanza simbolica dell’assenza di un qualsiasi nesso all’arte gotica e rinascimentale (l’arte del peccato) e sul valore iconico delle immagini basata su numeri e proporzioni matematiche. Dal lato delle critiche, invece, s’interrogò sul rischio di trasformare alcune di queste icone in idoli. 


Beuron e l’Austria-Ungheria

Di eguale intensità furono le relazioni dell’arte Beuronese in Austria-Ungheria. Per motivi di semplicità abbiamo omesso di dire – lo facciamo ora -  che i Benedettini di Beuron erano stati costretti a trasferirsi a Praga, nell’abbazia di san Gabriele, nel corso degli anni della cosiddetta Kulturkampf (la ‘battaglia della cultura’  di Bismarck contro la chiesa cattolica attorno al 1870). Quindi, in realtà, il primo impatto dell’arte di Beuron all’estero avvenne in Austria-Ungheria, e ben prima del noviziato di Verkade. San Gabriele rimase uno dei centri della diffusione dell’arte Beuronese in Europa centrale (Verkade vi lavorò a partire dal 1896).

Molto probabilmente tramite la presenza a San Gabriele gli artisti di Beuron – e sicuramente anche Verkade -  impattarono i movimenti delle Secessioni di Praga e Vienna. Risulta che Gustav Klimt abbia letto l’Estetica di Lenz e che l’abbia apprezzata. La Scuola di Beuron espose a Vienna nel 1905 nella Mostra sulla Secessione (Verkade organizzò la sala dedicata a Beuron, dove furono esposte anche pitture realizzate per l'occasione). Più tardi Verkade lavorò a Döbling nella Chiesa dei Carmelitani, subito prima della Prima Guerra mondiale e nel 1924 (fig. 37).

Fig. 14) Cartolina sull'arte di Beuron alla Mostra di Vienna sulla Secessione (1905)
(copyright André M. Winter, pubblicata dietro sua cortese autorizzazione)

A Vienna, Jan Verkade ebbe due amici e collaboratori: Hermann Bahr e Jože Plečnik. Verkade aveva conosciuto Bahr sin dalla sua permanenza a Parigi nel 1891. Bahr, importante intellettuale e critico letterario, era legato al simbolismo viennese e amico di molti autori dell’epoca, come Arthur Schnitzler, Stefan Zweig, Karl Kraus (si veda: Oost). Si convertì al Cattolicesimo nel 1916 e, da allora, visitò diverse volte Beuron. L’architetto secessionista Plečnik fu il direttore della mostra Viennese del 1905 a cui la Scuola di Beuron partecipò e collaboratore di Verkade nei suoi lavori alla Chiesa dei Carmelitani a Döbling.

In quanto autore di una traduzione in lingua tedesca di Cennino Cennini, Jan Verkade doveva essere conosciuto anche in Ungheria, dove Cennini ebbe grande influenza nello sviluppo dell’arte per vari decenni, fra il 1900 e il 1940, prima con la colonia di Gödöllő, fondata nel 1901 da Aladár Körösfői-Kriesch (1863-1920), poi con la Cennini Society fondata da Sándor Nagy (1869-1950) nell’immediato dopoguerra (1920) e infine con gli “Artisti spirituali” di Jenõ Remsey (1885-1980) e Aurél Náray (1883 - 1948) negli anni ’30. Tuttavia non vi sono prove di contatti diretti. 


Cennino Cennini come riferimento originario di differenti correnti dello spiritualismo

Abbiamo iniziato il nostro viaggio nell’arte spirituale con Cennino Cennini e finiremo con Cennino Cennini. Quasi tutto quello di cui abbiamo parlato sin qui, in un modo o nell’altro, riguarda la relazione tra arte e religione. E peraltro è evidente che la figura di Cennino Cennini, che pure era un laico, è stata interpretata come quella di un pittore mistico, che ha attratto l’attenzione di quella parte dei movimenti artistici più vicina alla Chiesa Cattolica. Va detto, tuttavia, che Cennino finì per essere un riferimento cultuale per correnti del pensiero religioso a volte molto differenti fra loro. L’ultima sezione di questo saggio cerca di approfondire proprio questo punto, con particolare riferimento alla Francia (e considerando Verkade in questo ambito come autore ‘francese’ – posto che il suo interesse per Cennino derivò da Maurice Denis).

Se analizziamo l’interesse del mondo cattolico francese per Cennino Cennini dovremmo distinguere diverse fasi. 

Dopo la Restaurazione e nel corso dell’Impero di Napoleone III, il Cattolicesimo fu ristabilito come religione ufficiale della nazione, che si considerava ‘la figlia maggiore della Chiesa’. Gli italiani ricorderanno che le truppe francesi debellarono i tentativi di Mazzini e di Garibaldi di fondare la Repubblica Romana nel 1849 e prevennero l’occupazione di Roma da parte delle truppe italiane fino a quando non si ritirarono nel 1870. Questa fu la fase del revival degli affreschi religiosi nelle chiese del paese, fase caratterizzata dai modelli didattici, naturalistici e sentimentali della Chiesa di San Sulpizio a Parigi. Fu anche l’epoca della prima traduzione di Cennino Cennini ad opera di Victor Mottez nel 1858; Mottez fu uno principali rappresentanti dell’arte religiosa in quei decenni. Mottez era stata a lungo in Gran Bretagna, dove aveva visto l’arte Pre-Raffaellita e fece parte della scuola Pre-Raffaellita di Lione. Come già detto, fu discepolo del Nazareno Johann Friedrich Overbeck e lavorò assieme a Peter Cornelius.

Gli eventi del 1870-1871 modificarono profondamente il quadro complessivo in cui il Cattolicesimo si andò sviluppando in Francia. La Comune di Parigi lo espose all’incubo di una nuova rivoluzione anticattolica nel paese. Per rendere grazie a Dio dello scampato pericolo, le autorità decisero di far erigere la Basilica del Sacro Cuore di Parigi sulla collina di Montmartre, per essere sicuri che potesse essere vista da ogni angolo della città. Intenzionalmente lo stile della basilica si ispirò all’antico stile bizantino.

Nel 1905, poi, la legge sulla separazione tra Stato e Chiesa (principio di laicità dello Stato) segna la marginalizzazione politica del Cattolicesimo, a dispetto della reazione del Vaticano.

Il mondo cattolico reagisce radicalizzandosi. Questo è il mondo in cui Victor Mottez pubblica la seconda traduzione di Cennino Cennini nel 1911, sotto l’impulso di Maurice Denis e con l’importante partecipazione di Auguste Renoir e di altri studiosi. 

Auguste Renoir non era certo un cattolico progressista. Nella sua lettera ad Henri Mottez (e nelle altre bozze che preparò per la prefazione al testo di Cennini) manifestò un sentimento fortemente anti-modernista, che è stato richiamato proprio all’inizio di questo saggio. Robert L. Herbert ha studiato il conservatorismo di Renoir, scoprendo (in una sezione del suo libro, sezione intitolata “Renoir e Cennino Cennini nel 1910”) che già attorno al 1880 Renoir si era espresso contro i movimenti sindacali, affermando che “il concetto di divinità fra esseri intelligenti ha sempre portato con sé le idee di ordine, gerarchia e tradizione”. Tutto ciò era in linea con il conservatorismo politico e religioso del periodico “L’Occident”, di cui Maurice Denis fu il critico d’arte. Herbert spiega che “L’Occident”, fu parte della risposta della destra al caso Dreyfus. Non solo: Denis era membro, all’epoca, del movimento di destra Action Française, che il Vaticano più tardi condannò negli anni ’20 per le sue argomentazioni fortemente anti-semitiche e anti-democratiche. Herbert scopre che, oltre a Denis, due altri studiosi assistettero Renoir nella preparazione del testo su Cennino: il critico d’arte Georges Rivière (1855-1943), autore di una biografia su Renoir intitolata “Renoir e i suoi amici” e il critico letterario Adrien Mithouard (1864-1919). Entrambi sono descritti non solo come appassionati difensori della religione cattolica, ma anche come anti-semiti e partigiani contro Dreyfus. Lo stesso si potrebbe dire di Camille Mauclair, che abbiamo già incontrato (con il suo commento molto forte contro la qualità del libro Cennino, quando lo vide nelle mani di Renoir) e che finì per essere uno dei sostenitori, in ambito culturale, della Repubblica di Vichy con il suo libro “La crisi dell’arte moderna”, edito nel 1944 (Fig. 53).


Fig. 15) Camille Mauclair, La crisi dell'arte moderna, 1944

Ma Cennino Cennini fu visto come il mentore antico dell’arte pura anche dal critico letterario Elémir Bourges (1852-1925), che aveva fondato, assieme al pittore Armand Point (1860-1932) un circolo artistico simbolista a Marlotte, vicino a Fontainbleu, chiamato Haute Claire.  Bourges, molto vicino al filosofo Sorel, fece conoscere al gruppo il trattato di Cennino. Il giornale “L’Indépendence”, estremamente conservatore, fondato da Georges Sorel (una sorta di manifesto reazionario per il tradizionalismo politico, sociale ed estetico) diffuse le opere del gruppo, che ebbe un orientamento fortemente nazionalista e in ultima analisi filo-fascista (si veda: Antliff).

Sembrerebbe dunque che Cennino sia stato il ‘mito originale’ solo di un cattolicesimo retrogrado. A compensare queste considerazioni giunge proprio la figura di Jan Verkade. Le esperienza estetiche di Verkade furono sempre orientate a conseguire una sintesi spirituale tra modernità e classicismo. Si confrontò in maniera aperta con altre correnti dell’arte moderna, desiderando contribuire al rinnovamento dell’arte sacra. Lo fece incrociando diverse culture, collegando la Francia e la Germania, l’Olanda e l’Italia, mostrando grande curiosità per artisti di altri paesi. Tutto sommato Jan Verkade è il simbolo di un’aspirazione progressista e aperta al futuro dello spiritualismo. Avrebbe potuto, probabilmente, rifiutare questa definizione, ma fu parte integrante della modernità.

Chiaramente, la sua ambizione di aprire una strada verso la pittura spirituale fu una delle missioni della sua vita. Lo fece in un’epoca tremendamente difficile, prima e dopo la Prima guerra mondiale, in un tempo di disordine sociale e politico. Morì nel 1946, a 78 anni. Per lui – che aveva sperato di contribuire a una nuova direzione dell’arte, orientata a combinare bellezza terrena e sublimazione celeste, arte del passato ed arte del futuro come segno di arte eterna al servizio del Supremo – dovette essere terribile sperimentare gli orrori che accaddero durante gli ultimi decenni della sua vita e scoprire, proprio alla fine, che l’umanità era stata capace di produrre Auschwitz. All’età di 23 anni aveva aderito ad un gruppo artistico di pittori che si chiamavano, usando un termine ebraico, i Nabis (i profeti): una parola cruciale, dal momento che, come noto, l’Ebraismo è la religione dei profeti. Alla fine della sua vita dovette fare i conti con il termine Shoah.

Questo fu, in ultima istanza, il motivo per cui l’esperimento di Beuron e tutti gli altri tentativi di stabilire un’arte spirituale su basi religiose rimase un episodio isolato nella storia dell’arte. Furono tutti sconfitti dalla storia. La Prima guerra mondiale ruppe i contatti tra Verkade, Sérusier e Denis, il trio inseparabile con comuni opinioni su arte e religione. Gli anni successivi furono segnati da una catastrofica sequenza di errori, in tutt’Europa, che portò alla Seconda guerra mondiale. In fondo, il mondo non era pronto a recepire il messaggio di Verkade. Ed anche la traduzione di Cennino Cennini, terminata nel corso di una guerra che fu denominata per la prima volta per aver coinvolto tutto il mondo e solo a poche centinaia di chilometri dalle trincee, rimase un semplice contributo alle tecniche artistiche, invece di un passo verso il raggiungimento di una nuova arte spirituale. 


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Verkade, Willibrord - Die Unruhe zu Gott, Freiburg im Breisgau, Herder & Co. GmbH Verlagsbuchhandlung, 1920, pp. 252 - posseduto da questa biblioteca
Verkade, Willibrord - Spuren des Daseins, Mainz, Matthias-Grünewald-Verlag, 1938 - posseduto da questa biblioteca
Vismara, Silvio M - La nuova arte di Beuron, Roma, Santa Maria Nuova, 1913
Von Bonsdorff, Anna-Maria – Colour Ascetism and Synthetist Colour. Colour Concepts in turn-of-the-20th-century Finnish and European art, Helsinki, 2002 (See: https://helda.helsinki.fi/bitstream/handle/10138/33523/Colouras.pdf?sequence=1)
Zappia, Caterina – Maurice Denis e l’Italia, Università degli studi di Perugia, 2001



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