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lunedì 31 marzo 2014

Paul Wescher. I furti d'arte. Napoleone e la nascita del Louvre. Einaudi, 1988


Paul Wescher
I furti d'arte. Napoleone e la nascita del Louvre.

Einaudi, 1988

Venezia, 1797: i Cavalli bronzei di San Marco vengono inviati in Francia
Stampa di autore anonimo


[1] L’opera uscì in Germania nel 1976, due anni dopo la morte dell’autore, che vi si stava pazientemente dedicando da oltre un decennio.

[2] Molto è stato detto e molto è stato scritto circa questo volume. Non vi è dubbio, ad esempio, che qua e là qualche infortunio e qualche imprecisione, determinata anche dalla mole dei dati da controllare, affiorino. Ma l’opera ha senz’altro il merito di ricostruire con una visione complessiva quel fenomeno straordinario e irripetibile che è stata la requisizione delle opere d’arte operata in Europa, ma anche in Egitto, dai Francesi fra il 1794 ed il 1814. Trattandosi di avvenimenti collegati a fenomeni bellici è chiaro che non sempre i fatti sono limpidi e a volte sconfinano in comportamenti certo non cristallini e moralmente condannabili. Di nuovo, rispetto a saccheggi e furti legati a precedenti epoche storiche, ci fu che i Francesi, e Napoleone in particolare, vollero (con un gesto di grande valore politico) che le requisizioni di opere d’arte rientrassero fra le clausole degli armistizi e dei trattati di pace. I quadri, le sculture, i tesori, passavano in mano alla nazione francese non per furto o per saccheggio (e in questo senso non è felice la resa del titolo) ma in seguito ad un accordo di diritto internazionale. L’altro grande merito di quest’opera è quella di essere citata ripetutamente in tutti i lavori che l’hanno temporalmente seguita e che ne hanno sviluppato questo o quell’aspetto. Si tratta dunque di un volume che ha aperto strade nuove, battute in seguito con maggiore dovizia di mezzi da altri.

[3] Wescher ci fa conoscere più di un personaggio legato a quegli avvenimenti straordinari. Ma uno in particolare spicca sugli altri: Dominique-Vivant Denon, ovvero l’uomo che, nominato nel novembre 1802 direttore dell’allora Museo Centrale delle Arti (il Louvre), poi semplicemente Museo Napoléon, tale rimase fino al 1817, ovvero fin dopo la caduta di Napoleone stesso; l’uomo che personalmente selezionò nel corso dei suoi viaggi le opere d’arte da requisire a vantaggio del Louvre, o degli altri musei provinciali di nuova istituzione; l’uomo che organizzò il materiale una volta giunto in Francia: insomma, l’uomo del Louvre. Sul personaggio l’opera di riferimento è oggi Dominique-Vivant Denon. L’œil de Napoléon, catalogo (a cura di Marie-Anne Dupuy) dell’omonima mostra tenutasi al Louvre dal 20 ottobre 1999 al 17 gennaio 2000. In contemporanea con la pubblicazione del catalogo è stata inoltre edita la fondamentale corrispondenza amministrativa di Denon negli anni che vanno dal 1802 al 1815. Si tratta di oltre 4.000 lettere, oggi fortunatamente consultabili su Internet sul sito www.napoleonica.org.

Dominique Vivant-Denon
Ritratto di Robert Levèfre (1808)

[4] La ricostruzione storica degli eventi si conclude con la restituzione della maggior parte delle opere d’arte agli stati di origine. Fra il 1814 (in minima parte) ed il 1815 il Museo Napoléon venne smantellato (anche se, lo si ripete, non pochi tesori vi rimasero, intenzionalmente o dimenticati). Anche qui, tuttavia, è merito di Wescher aver colto (senza poi svilupparne le conseguenze, perché argomento ulteriore rispetto allo scopo del volume) ciò che rimase di quell’esperienza. Scrive l’autore a p. 154: “Il grande Museo di Napoleone non finì tuttavia con la dispersione materiale dei suoi capolavori. Il suo esempio stimolante gli sopravvisse a lungo, contribuendo in modo decisivo alla formazione di tutti i musei europei. Il Louvre, museo nazionale di Francia, aveva dimostrato per la prima volta che le opere d’arte del passato, anche se raccolte dai principi, appartenevano in realtà ai loro popoli, e fu questo principio (con l’eccezione della collezione reale britannica) a ispirare i grandi musei pubblici dell’800.” E poco più in là (p. 155): “Il ritorno delle opere d’arte trafugate ebbe poi, di per se stesso, un effetto notevole e inatteso.... Esso contribuì a creare la coscienza di un patrimonio artistico nazionale, coscienza che nel ‘700 non esisteva.”

[5] Per quanto riguarda le vicende legate alle requisizioni di opere d’arte nei Paesi Bassi e nelle attuali Austria e Germania, alla restituzione delle medesime, agli effetti successivi alla vicenda, non solo da un punto di vista artistico, ma anche ai fini della propaganda politica legata ai conflitti del 1870, del 1914-1918 e del 1939-1945, non si può oggi non rimandare alla consultazione dell’eccellente lavoro di Bénédicte Savoy, Patrimoine annexé. Les biens culturels saisis par la France en Allemagne autour de 1800. Manca, purtroppo, in Italia un’opera di analogo respiro. Intendiamoci, esistono pregevoli lavori dedicati al fenomeno delle requisizioni in questa o quella regione del nostro Paese (soprattutto nei territori dell’ex Stato Pontificio, che fu senza dubbio il più colpito). Ne citiamo alcuni: Daniela Camurri: L’arte perduta. Le requisizioni di opere d’arte a Bologna in età napoleonica (1796-1815); B. Cleri, C. Giardini: L’arte conquistata. Spoliazioni napoleoniche dalle chiese della legazione di Urbino e Pesaro (Modena, Artioli, 2003); Cristina Galassi: Il tesoro perduto. Le requisizioni napoleoniche a Perugia e la fortuna della “scuola” umbra in Francia tra 1797 e 1815; Napoleone e il Piemonte. Capolavori ritrovati; Chiara Pasquinelli, I Furti d’Arte in Toscana durante gli anni del dominio francese; Gabriele Paolini “Simulacri spiranti, imagin vive”. Il recupero delle opere d’arte toscane nel 1815. Molto recente, poi, ed eccellente è il numero 111 (novembre 2013) della rivista online Engramma, dedicata alle spoliazioni francesi a Venezia. Ma l’impressione, come si diceva, è che manchi ancora un’opera con visione d’insieme e capacità di sintesi pari a quella della Savoy. 

[6] Un passo avanti in questo senso è stato compiuto con la pubblicazione nel 2009 di Veronica Gabbrielli, Patrimoni contesi. Gli Stati italiani e il recupero delle opere d’arte trafugate in Francia. Storia e fonti (1814-1818).

[7] Si riporta il testo della recensione all’opera, a firma Francesco Frangi, apparsa sul Domenicale del Sole 24 Ore l’8.1.1989 (l’articolo è tratto da Biblioteca Multimediale del Sole 24 Ore – Cd Rom Domenica 1983-2003 Vent’anni di idee).

DOMENICA – Rivoluzione. La pittura

Sulle ceneri dei re
Il più grande sacco della storia

di Francesco Frangi

L’abate Gregoire fu tra i primi a rendersi conto del disastro che s’andava compiendo. Nell’agosto del 1894, davanti all’auditorio gremito dell’Assemblea Nazionale parigina, l’abate-deputato prese la parola per discutere i suoi “Rapporti sulle distruzioni operate dal vandalismo e sui mezzi per impedirle”. L’orazione toccò alti livelli di retorica tentando di resuscitare negli ascoltatori l’elementare concetto dell’inseparabilità tra la virtù repubblicana e l’apprezzamento per le arti.

Il nemico contro cui Gregoire si scagliava non era una particolare fazione dell’Assemblea ma un atteggiamento diffuso, quasi generale. Travolti e inebriati dal vento dell’insurrezione i rivoluzionari parigini avevano preso fin dal ‘92 a infierire, incontrando solo timide opposizioni, contro i monumenti della città e contro i grandi patrimoni artistici del clero (nazionalizzati già dal ‘90) e della nobiltà. Era il risvolto, probabilmente inevitabile, dell’esplosione d’odio anticlericale e antimonarchico che aveva alimentato il fuoco della rivoluzione. Per le grandi strade di Parigi i monumenti non facevano che celebrare gli antichi e i recenti monarchi, richiamando contro di sé la furia iconoclasta della borghesia. Tra i primi a subirne le conseguenze fu la grande statua equestre di Enrico IV, che svettava nei pressi del Pont Neuf, superba fatica di Pietro Tacca e Pietro Francavilla. Abbattuto, il monumento fu portato in fonderia per cavarne bronzo per i cannoni. Gli eventi più disastrosi si verificarono però quando l’esasperazione degli ideali antirealisti portò a prendere di mira anche i Re biblici romanici e gotici che ornavano le grandi cattedrali. Le 28 statue che vegliavano sui tre portali principali di Notre Dame furono staccate a colpi di piccone e gettate nel vuoto. La medesima sorte toccò all’Abbazia di Saint Denis. In Saint Germain des Prés le tombe dei Re Merovingi furono distrutte e la chiesa trasformata in arsenale. Poco dopo l’architetto Varin fu incaricato di “ripulire” anche l’interno di Notre Dame che fu privata di 90 statue e vide andare in rovina 24 dei suoi 25 monumenti sepolcrali. Erano gli anni ‘93-94, gli stessi in cui in Place de la Concorde venivano bandite aste permanenti nelle quali si disperdevano gli stupefacenti mobili sequestrati nelle residenze nobiliari abbandonate dagli “emigrés”. Il Principe di Galles non esitò a mandare il proprio maggiordomo francese ad acquistare i magnifici arredi che tuttora si vedono a Windsor e a Buckingham Palace. 

Le parole dell’Abate Gregoire giungevano dunque provvidenziali e nonostante s’indirizzassero contro un atteggiamento fattosi ormai norma, riuscirono a porre le basi per una decisiva inversione di tendenza. Un’inversione che tuttavia poté realizzarsi a pieno solo con l’avvento di Napoleone e che anzi si configurò come specchio fedele della svolta impressa allo scenario storico politico dal futuro imperatore. Il passaggio della lotta rivoluzionaria all’ideale imperialistico, mutò radicalmente l’atteggiamento nei confronti delle arti e la volontà distruttiva nei confronti dei propri tesori lasciò il posto al desiderio di conquistare quelli delle nazioni assoggettate. Avviene così che anche chi ignora le vicende della storia può facilmente ricostruire le vicende delle campagne napoleoniche solo osservando il mutare della provenienza delle centinaia di opere che, anno dopo anno, fino al 1814, giunsero al Louvre dai vari centri in cui Bonaparte si era insediato.

È proprio attorno alle complesse e incredibili vicende degli immani espropri fortemente voluti da Napoleone e alla conseguente nascita del Museo Nazionale di Parigi, allora chiamato non per niente Musee Napoleon, che trova le sue pagine più brillanti (pur tra qualche svista, a esempio laddove confonde per un generale francese il collezionista bresciano Lechi, antico proprietario dello Sposalizio della Vergine di Raffaello ora a Brera) il volume di Paul Wescher recentemente tradotto da Einaudi “I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre”.

È noto come l’operazione napoleonica, che causò probabilmente il più vasto movimento di opere d’arte mai verificatosi nella storia, trovasse un continuo stimolo e insieme una copertura legale nell’introduzione tra le clausole di pace e tra i contributi per le spese di guerra della requisizione delle opere d’arte. Sono forse meno note però la programmatica puntigliosità e la solerzia inderogabile, ben documentate dal Wescher (che dedicò all’argomento gli ultimi anni di lavoro, prima di scomparire nel 1974), con cui il generale assolse quest’impegno, aiutato ovviamente da speciali commissioni, non solo nelle campagne d’Italia ma anche in quelle in Germania, in Spagna e a Vienna. Stupisce a esempio sapere che solo due giorni dopo essere entrato a Bologna, il 21 giugno 1796, egli scriveva al Direttorio informando che i quadri di Modena erano già partiti e che il cittadino Berthélemy si stava occupando di scegliere quelli di Bologna: “Conta di prenderne una cinquantina, tra i quali la Santa Cecilia, che si dice il capolavoro di Raffaello”.

A monte di questa volontà di possesso c’era, non v’è dubbio, il grande sogno di un museo pubblico insuperabile (e di fatto insuperato) che celebrasse eternamente a Parigi le sue imprese. Un sogno che Bonaparte aveva affidato a un grande ed eclettico conoscitore: Dominique Vivant Denon, soprintendente generale del Museo Napoleon dal 1802 e unico direttore di museo al mondo che poté onorare il suo incarico con la possibilità di scegliere in giro per l’Europa i dipinti più preziosi. Tra di essi il colto Denon si trovò a possedere (e a ordinare in intelligenti catalogazioni) alcuni dei capolavori che tuttora si possono ammirare al Louvre come le Nozze di Cana di Veronese o l’Incoronazione di Spine di Tiziano, tolta dalla chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie. Ma anche un altro sterminato gruppo di opere, di valore ancor più grande, come i Raffaello (tra cui la Deposizione Borghese e la Madonna di Foligno), i Correggio, la Deposizione di Caravaggio, i Van Eyck. Dipinti grazie ai quali, per alcuni movimentatissimi anni (gli stessi in cui gli inglesi portavano a Londra i fregi del Partenone), il sogno museale di Napoleone trovò la propria trionfale realizzazione.

Con la sconfitta venne poi il tempo delle restituzioni, parziali, certo, ma cospicue. Il 24 ottobre 1815, 41 carri trascinati da 200 cavalli trasportavano in Italia le opere concordate per il risarcimento. Tra di essi non c’erano i primitivi italiani che tuttora splendono nella prima sala del Louvre: a essi il commissario Alessandri preferì sciaguratamente le tavole di pietre dure del Duca di Toscana. A Dominique Denon intanto, che vedeva sbriciolarsi tra le mani la propria irripetibile creazione, non restava che adoperare la propria erudizione nel dettare a Napoleone l’elenco dei libri da portare con sé in esilio.

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