Jacopo Bassano. Autoritratto |
English Version
Il Libro secondo di Francesco e Jacopo Dal Ponte
A cura di Michelangelo Muraro
Commento e note di Daniela Puppulin
G.B. Verci Editrice, 1992
[1] Il nome del curatore, Michelangelo Muraro, appare in testa al frontespizio al posto dell’autore. Va comunque messo subito nel giusto rilievo che se oggi possiamo disporre e consultare il Libro secondo il merito esclusivo è del Muraro, che riuscì a reperirlo con tenacia e determinazione, che lo ha studiato per decenni e che lo ha infine donato al Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa. Sicché è veramente un peccato che questa splendida edizione esca pochi mesi dopo la morte del Muraro e che quindi egli non abbia potuto vedere completato il proprio lavoro.
[2] Testo della bandella:
“La pubblicazione di questo volume, frutto di molti anni di ricerche di Michelangelo Muraro e di una équipe di collaboratori, avviene in occasione dell’anno Dapontiano, in cui si celebra il quarto centenario della morte di uno dei massimi esponenti della pittura veneta del Cinquecento, Jacopo Dal Ponte detto il Bassano.
Il Libro secondo di dare e avere della famiglia Dal Ponte con diversi per pitture fatte è uno dei “mastri” compilati, in forma di rubricario e secondo il sistema della partita doppia, dai Bassano nella loro bottega, il secondo di una serie di quattro, l’unico che sia giunto sino a noi. Il manoscritto contiene annotazioni che si riferiscono ad un arco di tempo compreso tra il 1511 e il 1580, ma permette di ricostruire in modo più completo soprattutto il trentennio che va dal 1520 al 1550 circa, un periodo contrassegnato da mutamenti significativi, in cui la conduzione della bottega passa da Francesco al figlio Jacopo.
Con le loro annotazioni Francesco, prevalentemente fino al 1539, e successivamente Jacopo, hanno registrato gli introiti e le spese, il dare e l’avere relativo alle «pitture fatte». A sottolinearne l’importanza, basti ricordare che il documento, oltre a numerosissimi lavori di vario artigianato, menziona, fra pale, gonfaloni, quadri, affreschi, sculture, disegni, oltre 160 opere.
Sulle tracce del manoscritto Michelangelo Muraro ha potuto così ritrovare e valorizzare pitture, affreschi, sculture di Jacopo considerati perduti.
Ma il libro, che è lo specchio fedele del funzionamento di un’antica bottega di pittori, ed anzi rappresenta il testo più completo di questo genere che ci sia pervenuto, viene ad assumere l’importanza di una fonte storica, ben oltre i limiti ristretti della più tradizionale storia dell’arte. Essendo il manoscritto particolarmente ricco di notizie relative ai fatti della vita quotidiana, dai prezzi, alle misure, al valore delle varie monete, esso potrà infatti costituire un interessante documento anche per ricerche di “cultura materiale”. E non solo: esso consente, sotto l’apparente aridità di una fila di nomi e di cifre, di venire a conoscenza di un gran numero di dati relativi alla committenza dei Bassano, al tipo di contratti che venivano stipulati, alla collaborazione coi vari artigiani, ai pagamenti in danaro, oppure in natura, in beni di consumo o in prestazioni d’opera. Riprende così vita la realtà economica e spirituale di un particolare mondo provinciale, ben diverso da quello veneziano.
Jacopo Bassano. La Cena in Emmaus |
Traendo lo spunto dai molteplici temi offerti dal manoscritto, nel suo ampio saggio introduttivo Michelangelo Muraro dà un ritratto a tutto tondo di Jacopo Bassano e del suo ambiente, analizzando la vita di bottega, le opere documentate nel manoscritto, la provincia in cui i Dal Ponte operarono, durante un periodo così ricco di tensioni politiche e religiose; infine, partendo dalla vastità del quadro proposto, Muraro giunge al segreto più intimo dell’arte di Jacopo, quella “pittura di tocco” nella quale l’artista «supera ogni fatto disegnativo e plastico, fino a penetrare nell’anima stessa delle cose».
Il volume è corredato dalle note sul manoscritto, dalle notizie storiche sui personaggi, da vari apparati, numerosi indici, e da un ricco corredo di illustrazioni, che rendono più agevole e completa la lettura del Libro secondo dei Bassano.”
[3] Si riporta il testo della recensione all’opera, a firma Flavio Caroli, apparsa sul Domenicale del Sole 24 Ore il 26.7.1992 (l’articolo è tratto da Biblioteca Multimediale del Sole 24 Ore – Cd Rom Domenica 1983-2003 Vent’anni di idee). La recensione è preceduta da un breve scritto di Marina Mojana.
DOMENICA – Ritrovato il “Libro dei conti” di Jacopo Bassano, che dalla provincia veneta fondò la “pittura di genere”.
Il bilancio di un “figuriere”
L’erede di Tiziano per un ritratto guadagnava sette volte meno del maestro. e ancor meno per un affresco.
di Flavio Caroli
Nel corso del XVI secolo Bassano del Grappa dona i natali a una modesta famiglia di pittori e artigiani. Il laboratorio sorge a due passi dal Brenta e la casa dove vive e lavora il capostipite Francesco con i figli Jacopo, Giambattista e Girolamo è subito detta “dal ponte” per la passatoia che unisce le due sponde. È questa la genesi dei Dal Ponte, numerosi e fecondi pittori di provincia oggi noti grazie a Jacopo, detto Bassano, che un libro e una mostra consacreranno nell’Olimpo dei grandi pittori veneti.
Del libro scritto da Michelangelo Muraro e presto in libreria per i tipi della Verci Editrice si parla diffusamente in questa pagina. Quanto alla mostra, dedicata a Jacopo Bassano nel IV centenario della morte (1510-1592), aprirà i battenti nel Museo civico di Bassano del Grappa il 5 settembre per chiudere soltanto il 6 dicembre. È la prima esposizione completa sull’artista dal 1957 e presenta 68 dipinti e 35 disegni, molti dei quali in delicati gessi colorati. Curata dalla Soprintendenza del Veneto, in collaborazione con il Museo civico di Bassano e il Kimbell Art Museum di Fort Worth, la mostra sarà il punto di partenza per una nuova comprensione e valutazione della lunga e multiforme carriera di Jacopo. In contemporanea si svolgerà presso l’Archivio di Stato di Bassano la mostra La famiglia di Jacopo. L’origine, la parentela, la casa, il patrimonio, la vita civile e religiosa e a Palazzo Agostinelli l’esposizione Jacopo Bassano e l'incisione. La fortuna dell’arte bassanesca nell’incisione di riproduzione dal XVI al XIX secolo [n.d.r. Il testo sopra riportato è di Marina Mojana. Segue la recensione di Flavio Caroli].
Tiziano 7, Jacopo Bassano 1. È questo il rapporto fra i prezzi che vengono pagati per ritratti dei due maestri veneti, nel corso della loro vita. Jacopo, il quale rivoluziona le tradizioni di famiglia dedicandosi a questo specifico genere, trascurato, o semplicemente non “capito”, dal padre Francesco, riceve 18 lire per l’effigie di “Zuanne di Tommaso fornaio”, e tocca il cielo con un dito quando il “magnifico misier Bernardo Moresin podestà de Bassan”, nel 1542, gli corrisponde 31 lire. È il suo apice. Calcoliamo una media di 25 lire per ritratto. Tiziano, pittore ufficiale della Serenissima, oltre ai 100 ducati annui riscossi dalla senseria del Fondaco dei Tedeschi, pretende 25 ducati, pari a 155 lire, per ogni ritratto di Doge.
Ben consapevoli di rischiare rampogne proprio da parte dei collaboratori di questo giornale finanziario, tenteremo, con le nostre risibili cognizioni economiche e con la certezza che simili confronti non hanno alcuna attendibilità scientifica, di sciogliere queste cifre in termini a noi contemporanei. Qualche suggestione sarà possibile ricavarla. Intorno al 1540, le paghe giornaliere di un maestro muratore, di un falegname o di un fabbro, a Bassano come a Venezia, sono di 16 -20 soldi, diciamo all’incirca di una lira (per una lira occorrono appunto 20 soldi). Poniamo che il compenso dello stesso artigiano sia oggi di 150mila lire al giorno; e parifichiamo dunque una lira veneta di metà Cinquecento con lire 150mila odierne. Un ritratto “medio” del pittore bassanese verrebbe pagato 3 milioni 750mila. Per il ritratto dogale, Tiziano percepirebbe 23 milioni 250mila lire, da aggiungere alla rendita annua di 93 milioni per la senseria del Fondaco.
Soldo più soldo meno, siamo nella credibilità. La vita è agra e provinciale, a Bassano. Ma Jacopo, una delle più elette e tormentate menti del XVI secolo, dopo un fuggevole assaggio giovanile degli splendori lagunari, rifiuterà sempre di allontanarsene. Lavora in bottega col padre, dignitoso pittore-artigiano di desueta maniera protocinquecentesca, e coi fratelli. Nelle fresche mattine di primavera, butta uno sguardo al Brenta (il laboratorio è proprio lì, a due passi dal celebre ponte), accarezza la striatura azzurrata delle Prealpi, e si accontenta. Valuta esplicitamente la sua giornata 2 lire (il doppio di un falegname), 300mila lire di oggi. Poi si mette al lavoro. E il lavoro non è certo quello di un maestro veneziano, città nella quale il sindacato, l’“Arte dei Depentori”, vigila affinché ciascun iscritto operi soltanto nell’ambito della propria qualificazione: c’è il “colonnello” dei “figurieri” (cioè dei pittori), ben differenziato da quello dei miniatori, dei disegnatori, dei doratori, dei cuoridoro, dei cartolari, dei mascherieri e dei targheri.
Nella bottega sul ponte di Bassano, si fa di tutto, e lo si fa bene, con esperienza e capacità ancora medioevali. Pale d’altare, cicli di affreschi, ma anche gonfaloni, statue, e, in aggiunta, la decorazione di una quantità di cose per le quali a chi dovrebbe rivolgersi la gente comune, se non al “pittore” del luogo? Armi e insegne, cornici e coltrine, ceri e candelieri, casse e calamai, culle e lettiere, perfino una “banderola di marzapan” e due “carte de zugar”. L’impegno più severo è però l’intaglio e la doratura delle cornici, compito nel quale si è specializzato Giambattista, fratello di Jacopo. E ogni tanto bisogna mettersi per i campi, perché i Dal Ponte (è questo l’appellativo della famiglia, per colpa sempre della famigerata passatoia sul fiume, progettata dal Palladio) esercitano anche la funzione di periti agrimensori, rilevando, su commissione pubblica o privata, il “mudelo” dei luoghi, ossia le mappe cartografiche necessarie per dirimere controversie di confine, mappe che vengono poi trasmesse al competente ufficio veneziano. Il lavoro non manca. Il cespite più importante è naturalmente costituito dalle opere sacre. La bottega dei Dal Ponte detiene una specie di monopolio su tutto l’altopiano di Asiago e nel Feltrino, giù giù verso la pianura che si stende lungo le rive del Brenta: territorio vasto e amministrativamente discontinuo, che comprende parte delle odierne province di Vicenza, Padova, Treviso, Venezia, Belluno, e che, per la gerarchia ecclesiastica, si accorpa, come oggi, in sei diocesi (quelle indicate, più Feltre).
Ma che i Bassano approfittino del loro prestigio, non è davvero lecito dire. Per la pala dell’altar maggiore nella chiesa del monastero di Santa Maria di Camposanto, a Cittadella, il prezzo è 70 lire (poco più di 10 milioni odierni). Quando il compenso si alza vertiginosamente, fino a 409 lire (più di 61 milioni), come accade
per la pala realizzata da Jacopo nel 1541 per la confraternita dell’Immacolata Concezione di Asolo, ciò accade perché la bottega si impegna anche nella realizzazione della cornice (“adornamento” o ”caxamento”). Per un’opera completa di cornice, il prezzo varia dalle 186 alle 620 lire (dai 28 ai 93 milioni); cinque volte il costo del solo dipinto. La riprova è facile. Le pale di Oriago e di Onara raffigurano lo stesso soggetto, il Noli me tangere, hanno dimensioni simili, e vengono eseguite nello stesso giro di anni. La prima, con la cornice, costa 620 lire (appunto 93 milioni); la seconda, tela, pittura e nient’altro, 100 lire, una quindicina di milioni in tutto. Perché stupirsi? L’intaglio e la doratura sono impegni lunghi, che richiedono molte ore di lavoro, e il lavoro, nel mondo artigianale, va conteggiato a tempo. Gli affreschi sono cosa veloce, e quindi il prezzo è contenuto. Vanno realizzati “a fresco”, appunto, finché l’intonaco è umido. Dieci colpi di pennello e via. Se l’impresa non è enorme, qualche giornata di lavoro. Le “pale in muro” (così si definisce a Bassano la tecnica che Michelangelo ha usato nella Cappella Sistina), risultano valutate mediamente sulle 25 lire (meno di 4 milioni). Accade perfino che Jacopo venga chiamato per aggiungere una figura a un affresco, e torni a casa con non più di 2 lire e 8 soldi, 400mila lire all’incirca.
Tiriamo le somme. Esclusi gli scambi in natura (vino, grano, abiti e scarpe), la produzione artistica rende ai Bassano circa 1.080 lire annue. 162 milioni. Ai quali va aggiunto il ricavato dell’attività artigianale (perfino un “rabesco sopra una fassa da putin”). Ma bisogna sottrarre le cospicue spese per materiali, garzoni e lavoranti.
Non è la ricchezza. Infatti, in famiglia, tutti si ingegnano come possono. Francesca, la madre di Jacopo, “tira seda” (fila la seta) per i Guadagnin, e Gerolamo, il fratello sacerdote, mette via qualche soldo con le lezioni di grammatica. Non ci si può permettere un cavallo; così, quando Jacopo deve andare a Castelfranco, Cittadella e Asolo, ne prende a nolo uno. Per un ritratto, deve chiedere a prestito un giubbone (“zipon”), ma lo rovina e deve poi rifondere il danno. Infine, c’è la grande avventura: la casa. Ha più di quarant’anni, l’artista, quando compra un rudere per 118 lire (meno di 18 milioni), e tuttavia si direbbe che l’impresa superi le sue forze. Segue i lavori giorno per giorno, controlla personalmente gli operai, centellina la mano d’opera finché i restauri non giungono al tetto, annota l’acquisto e il costo della calce. Poi tira un sospiro di sollievo; e lì, in quella casa, nella camera che guarda “a sera”, molti anni dopo, detterà le sue ultime volontà.
Dove annota tutto, Jacopo Bassano? Nei “libri dei conti” di famiglia, quattro in tutto, dei quali è miracolosamente sopravvissuto il secondo, che sta per essere dato alle stampe (Michelangelo Muraro, Il libro secondo di Francesco e Jacopo Dal Ponte), per i tipi della Verci Editrice, sotto l’alto patronato della Fondazione Cini; con una mirabile trascrizione dal manoscritto di Daniela Puppulin, ed eccelsi apparati storico-linguistici di Franco Signori e Antonio Trevisan. Non avremmo oggi il più completo e affascinante spaccato di una bottega pittorica nell’Italia del Cinquecento, se il Muraro, scomparso poco prima di veder concretizzate le fatiche di una vita, e alle soglie della grande mostra sui Bassano, che si inaugurerà nei primi giorni di settembre, non avesse adocchiato lontani riferimenti a questo asciutto ma eloquentissimo diario, non lo avesse rintracciato nell’immediato dopoguerra presso una famiglia privata, e non fosse poi stato generoso nella cessione al Museo di Bassano.
Nulla a che vedere con l’altro grande diario cinquecentesco, il sublime Libro dei Conti di Lorenzo Lotto, che è la cronaca desolata e “filosofica” di un vinto, randagio per le vie periferiche dell’arte italiana. Qui tutto parla di concretezza, il sistema impaginativo è quello della partita doppia (con grandissima attenzione per le entrate, e minore esattezza per le spese, non senza insofferenza per le tasse, la “colta reale”, “la colta per Padoa”), annoverando gli accordi in ordine alfabetico, non tanto dei cognomi, che sono in fase di formazione, ma dei nomi di battesimo dei committenti, siano essi nobilotti locali o “massari” di qualche collettività.
Le annotazioni comprendono un arco di tempo lunghissimo, dal 1511 (Jacopo, del quale non conosciamo l’esatta data di nascita, ha probabilmente appena visto la luce) al 1580. Il trentennio cruciale è però quello fra il 1520 e il 1550, periodo nel quale la conduzione della bottega passa dal vecchio Francesco al suo principale erede. Si menzionano oltre 160 opere d’arte (è merito impagabile del Muraro avere scoperto anche uno Jacopo scultore), molte delle quali sono state identificate e - acquisizione ancor più succulenta per gli storici dell’arte - datate. Valga l’esempio di quel capolavoro assoluto della pittura cinquecentesca che è la “Decollazione del Battista” di Copenaghen, sulla quale si sono accese risse per decenni, e che può essere ora definitivamente ancorata al 1550.
Jacopo da Ponte. Decollazione del Battista (1550) |
E valga la gustosa cronaca di Jacopo nemmeno trentenne che comincia a scalare, con malcelato orgoglio, i gusti dell’aristocrazia bassanese. Nel 1539, riceve da Marco Pizzamano, rampollo della famiglia di Pietro, che sarà il 115° podestà del borgo, l’incarico di eseguire un dipinto, ritrovato oggi all’Ashmolean Museum di Oxford: “Il sugeto del quadro sie la Disputa de Christo de dodice anni tra dotori”. Sennonché, “finito che fu il quadro, li piacque et io el pregai che m’il volese conceder per darlo a un altro zentilomo che m’el domandò come lo viste; m’el concedete; lo mesurò nella camera et era tropo picolo; il volsi dar al dito mesier Marcho et li domandai il resto; mi proferse un scudo et mio fradelo Zambatista lo vendé; et così è restato le cose”. La concorrenza è l’anima del commercio...
Talché, possiamo ficcare il naso anche nei rapporti del pittore con i suoi concittadini, cogliendo l’istante in cui si affacciano alla sua mente intuizioni fondamentali. Il 19 marzo dello stesso ‘39, fra i lavori per Zaneto dal Corno “salarolo in Basan” il “libro dei conti” annota: “Depenzerli la sua caxa, la faxa dinanzi, al pozo de comun, fata a istorie”. Il 27 marzo, il fratello Giambattista, che è evidentemente il cassiere di famiglia, riceve un primo pagamento. Nell’agosto, vengono dipinti di bianco e azzurro i sette balconi della facciata, e l’11 dello stesso mese di agosto è annotato il “compido pagamento della fazada et la arma de legno dorada e arzentada”. La decorazione ad affresco nella facciata nel piazzotto del Sale a Bassano, è dunque ultimata in meno di sette mesi. Ma c’è di più. Nel secondo registro, Jacopo dà prova della sua già eccelsa perizia nel dipingere animali. Ne sono raffigurati molti: pecore, capre, cervi, oche, anitre, un asino, una scimmia, un leone e un’aquila. Ora, poiché non c’è delibatore di pittura che non porti negli occhi i suoi amorevoli cortei di creature di Dio, val la pena di svolgere indagini accurate. Sulle risolutive aperture bassanesche (superiori probabilmente a quelle del Veronese e del Tintoretto), rinviamo l’entusiasmo critico alla mostra settembrina. Scopriremo che, prima del Grechetto, di Giuseppe Bazzani e di Géricault, Jacopo è il più sottile interprete di psicologie animalesche dell’intero corso dell’arte. Ma che egli sia un fondatore della pittura di “genere”, è verità fin troppo nota. Infatti, eccola identificata, con tanto di giorno, mese e anno, la scintilla dei suoi pensieri.
Il 5 ottobre 1548, il Bassano si trova a Cittadella, per concludere con Nicola da Pesaro l’accordo per un dipinto commissionato dal nobile veneziano Antonio Zentani. Il quadro “Va longo braza uno al più, et alto quarti 3” (pressappoco cm 70 x 50), sarà pagato 15 lire (2 milioni 250mila lire attuali), e avrà per tema “Due brachi (bracchi), cioè cani solom”. Nel “libro dei conti”, non è citato alcun altro soggetto di questo tipo. L’originaria incrinatura del compiuto universo rinascimentale, si produce qui.
Jacopo Bassano, Due cani da caccia |
Michelangelo Muraro ha l’intelligenza di dimostrare che la “scena di genere” nasce dal mondo mutevole della povera gente, un mondo che nega implicitamente l’ideale classico, e negli squarci di una vita anonima e senza volto, negli eterni cicli dell’umanità agricola e delle stagioni, trova improvvisa, folgorante dignità letteraria. Col Ruzante, si affacciano all’arte i tuguri di paglia e sterco, la fame atavica, la sciagura e l’orrore del contadino veneto, il quale riesce pur sempre a cavarsela fra le maledizioni del “roerso mondo”. In Trentino, divampa la “guerra bifolca”. I Bassano si legano a confraternite pauperistiche e di cristianesimo originario come quella di San Paolo, che invita, per accordo statutario, alla mutua assistenza, e dispone che si provveda alla cura degli infermi e all’assistenza degli infelici: “Ancora volemo e ordenemo che li nomi di cumfrati e suore debian sia scriti solamente semplicemente, e no sia scrito denanzi: Mis., o maistro, né madona o maistra, perché Cristo è misier e maistro de tuti”.
Per Jacopo Bassano, il passaggio dall’opera sacra alla scena di genere non conosce, poeticamente e intellettualmente, soluzione di continuità. I committenti di tele che hanno per protagonisti pecore e buoi, appartengono alle stesse confraternite per le quali l’artista ha lavorato dipingendo gonfaloni e pale d’altare; confraternite che accolgono con favore alcune istanze della Riforma protestante, dilagata rapidamente lungo le vie della Valsugana. Siamo in un universo spirituale non lontano dal cattolicesimo riformato che costringe all’esilio Lorenzo Lotto (ma “sono di fede et religion cristiana, e chi si ingana, suo dano”, protesta il veneziano); l’universo dei “pittori viandanti”, che induce alcuni di loro a lasciare cicli fondamentali in località moralmente incontaminate, o nelle quali è lecito sfuggire l’ufficialità di cui è perfetto interprete Tiziano: lo stesso Lotto a Trescore Balneario, Paris Bordone a San Simon Vallada, Jacopo Bassano a Marostica, Enego, Tezze e Castigliano.
Non va preso alla leggera, il suo diario. Dietro a queste pagine che trasudano modestia di vita, dovremo leggere la parabola impressionante di un uomo che, in campagna, fa i conti col Manierismo negli stessi anni di Tiziano, partecipa al travaglio spirituale di una civiltà largamente occultata dalla storia, e da quel ricco humus di civiltà cava, per pura forza di fantasia, soluzioni espressive che verranno infinitamente apprezzate e decurtate dalla cultura a venire. È, questo, il tardo Rinascimento del dubbio e dell’umiltà, che sarà trascinato a Roma dal Caravaggio. È l’Italia di sempre, oscura e geniale sotto la cupola gattopardesca di chi la governa.
[4] Il volume, composto in carattere Bembo e stampato nelle officine Bertoncello su carta «Tintoretto», è distribuito in esclusiva da Leo S. Olschki editore in Firenze.
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