Antonio Bonfini
La latinizzazione del Trattato d'architettura
di Filarete (1488-1489)
A cura di Maria Beltramini
Scuola Normale Superiore di Pisa, 2000
A cura di Maria Beltramini
Scuola Normale Superiore di Pisa, 2000
La traduzione latina del Trattato di architettura di Filarete ad opera di Antonio Bonfini Carta 5r |
[1] Si può dire che esistono due Trattati di architettura filaretiani? In qualche modo sì. Il primo è quello redatto in volgare, secondo una precisa scelta programmatica, da Filarete stesso e stampato integralmente per la prima volta da il Polifilo nel 1972 (Trattato di architettura, a cura di Anna Maria Finoli, con traduzione e commento di Liliana Grassi). Il secondo testo è la traduzione latina che il sovrano ungherese Mattia Corvino fece eseguire fra il 1488 ed il 1489 al suo scriptorium reale, ed in particolare ad Antonio Bonfini.
La traduzione latina del Trattato di architettura di Filarete ad opera di Antonio Bonfini Carta 5r (particolare) |
[2] Perché il Corvino fece tradurre in latino il Trattato di Filarete? È noto che Corvino era un bibliofilo accanito e che leggeva correntemente il latino; un ruolo deve aver dunque giocato l’interesse per un testo che si voleva divenisse finalmente accessibile per la lettura. Non è tuttavia da escludersi (anzi, la curatrice prende in seria considerazione la cosa) che alle basi della traduzione vi siano anche motivi di prestigio. Siamo a pochissimi anni dalla pubblicazione postuma del De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, avvenuta per volontà di Lorenzo il Magnifico, per questo celebrato dal Poliziano nella dedicatoria dell’opera. La circostanza è nota al Corvino, che possedeva due copie manoscritte del De re aedificatoria nella sua magnifica biblioteca (una precedente ed una successiva all’editio princeps del 1485). Che il sovrano ungherese puntasse a percorrere un tragitto simile è tutt’altro che improbabile.
[3] La traduzione del Trattato di Filarete fu condotta in breve tempo (tre mesi, secondo lo stesso traduttore, ma forse qualcosa in più nella realtà) da Antonio Bonfini, ascolano, trasferitosi presso la corte ungherese nel 1486. Bonfini era professore di latino, greco, grammatica, poetica e retorica; insomma, non era un architetto e l’impresa non si annunciava certo facile. Probabilmente per l’occasione si preparò consultando una copia del De Architectura vitruviano, ma fu senz’altro aiutato dal fatto che lo scritto di Filarete non presentava per precisa scelta tecnicismi esasperati, avendo una connotazione originalmente didattica. Bonfini era cioè in possesso di un bagaglio classico generale in grado di metterlo di fronte al testo dell’Averlino (pur con le difficoltà del caso). Quello che è certo è che il Trattato, così come risulta in versione latina, è cosa ben diversa da quello del Filarete. E non parliamo qui soltanto del fatto che Averlino aveva intenzionalmente utilizzato la lingua volgare per la stesura dello scritto proprio allo scopo di renderlo fruibile al maggior numero possibile di conterranei e che quindi la traduzione in latino costituisce in qualche modo un “tradimento” dello spirito insito nell’opera (Bonfini ne è cosciente e ne scrive all’interno del suo elogium al sovrano ungherese). Parliamo anche (o piuttosto) del netto ridimensionamento quantitativo subito dal Trattato nelle mani del Bonfini. “La contrazione complessiva del testo latino rispetto a quello volgare, che investe l’opera nella sua totalità e che può essere quantificata in via preliminare con un calcolo numerico, è infatti in media del cinquanta per cento, o addirittura leggermente superiore” (p. XXI). Da un punto di vista dei contenuti è evidente che Bonfini si orienta “verso la sintetizzazione, se non verso l’eliminazione tout court, delle parti aneddotiche e degli inserti cronachistici del Trattato, evidentemente considerati troppo connessi all’originale committenza sforzesca e riproponibili con difficoltà nel nuovo contesto” (p. XXII). “È tuttavia notevole che i tagli e le modifiche, per quanto rilevanti, non arrivino mai a recidere la connessione tra testo e figure: in nessun caso vennero infatti espunti brani esplicitamente abbinati alle immagini e il corredo illustrativo del Trattato in lingua volgare si mantenne nella versione latina quantitativamente intatto. Il ruolo dei disegni... risultò automaticamente valorizzato, man mano che le parti scritte si riducevano in sostanza a didascalie descrittive di quelli” (pp. XXIII-XXIV).
La città medievale di Buda nelle 'Cronache di Norimberga' (1493) |
[4] La morte di Mattia Corvino, avvenuta nel 1490, diede il via alla dispersione, sempre più rapida, della sua ricchissima biblioteca. Solo due anni dopo “il Filarete corviniano venne infatti acquistato da Gioacchino Torriani, domenicano del monastero dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia, nonché raffinato erudito ed ellenista, che lo mise al sicuro nella libraria del proprio convento” (p. IX). Qui il manoscritto rimase fino al termine del Settecento, fino a quando cioè non fu trasportato presso la Biblioteca Marciana, dove è attualmente conservato con collocazione Manoscritto Latino VIII, 2° = 2796. Ma nella sua sede del monastero veneziano il manoscritto non passò certo inosservato ed ebbe una sua fortuna autonoma rispetto all’opera in volgare, già dalla fine del Quattrocento e per tutto il Cinquecento. Ne rende conto la Beltramini nelle pagine IX-XIX. Particolarmente suggestiva è l’ipotesi di una conoscenza diretta dell’opera da parte di Alvise Cornaro, che spiegherebbe meglio alcuni passi del Trattato di architettura di quest’ultimo.
[5] Su analogo argomento si legga anche il saggio Il Trattato d’architettura di Filarete tra volgare e latino, sempre della Beltramini, pubblicato in Il volgare come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento. Sugli aspetti iconografici legati al trattato si veda un ulteriore saggio della Beltramini, ovvero Le illustrazioni del Trattato d’architettura di Filarete: storia, analisi e fortuna.
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