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Daniela Lamberini
Il Sanmarino. Giovan Battista Belluzzi architetto militare e trattatista del Cinquecento
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Giovan Battista Belluzzi. Manoscritto Riccardiano 2587 |
Leo S. Olschki, 2007
Isbn 978-88-2225660-7
Isbn 978-88-2225660-7
N.B. SU DANIELA LAMBERINI SI VEDA ANCHE: Cosimo Bartoli, A cura di Francesco Paolo Fiore e Daniela Lamberini (Parte prima e seconda)
[1] Dalla Premessa dell’autrice (p. XI): “Il libro è diviso in due volumi complementari. Nel primo [n.d.r. intitolato La vita e le opere] sono ripercorse le vicende biografiche del protagonista, è esaminata la produzione architettonica e viene analizzato il pensiero tecnico-scientifico del Sanmarino, contestualizzando e mettendo in relazione la teoria e la pratica del suo operato con la cultura e la prassi architettonica e ingegneristica del suo tempo. Il secondo volume [n.d.r Gli scritti] raccoglie l’edizione – o in un paio di casi la ri-edizione – integrale di tutti gli scritti noti del Belluzzi [n.d.r. l’affermazione non è del tutto corretta: spiegheremo meglio più avanti]: il Diario giovanile, i trattati di architettura militare e delle fortificazioni di terra e il corpus delle lettere che documentano al dettaglio la sua attività professionale come primo architetto militare del Duca di Firenze.”
[2] Il lavoro della Lamberini merita veramente ogni elogio, perché restituisce all’attenzione del pubblico e della critica la figura troppo a lungo dimenticata di Giovan Battista Belluzzi, detto il Sanmarino – terra di origine - per oltre un decennio al servizio di Cosimo I dei Medici in quel di Firenze, fino alla tragica scomparsa avvenuta durante la guerra con Siena nel 1554. È vero che la biografia del Belluzzi (o del Bellucci, come usarono chiamarlo in Toscana e come lui stesso prese a firmarsi) è comunque tratteggiata da Vasari nelle Vite (nell’edizione giuntina) assieme a quelle del suocero Girolamo e del cognato Bartolomeo Genga, ma la testimonianza dell’artista aretino non fu certo sufficiente a garantire nei secoli la dovuta rilevanza alle opere e agli scritti (spesso oggetto di plagio o rimasti inediti) del Sanmarino. In realtà, Giovan Battista approdò all’attività architettonica in età relativamente avanzata; possiamo far risalire la nascita dell’interesse di Giovan Battista per questo mondo all’epoca del secondo matrimonio, contratto con la figlia del pittore e architetto pesarese Girolamo Genga nel 1535. Conosciamo con buona precisione i risvolti di quegli anni grazie al Diario, redatto dal Belluzzi e a noi giunto, Diario che copre il periodo dal 1535 al 1541. In precedenza il Sanmarino aveva compiuto studi di contabilità e partita doppia ed era stato avviato all’arte della mercatura, attività a cui i Belluzzi dovevano la loro ascesa al rango di patrizi della piccola repubblica del Titano. Fra il 1535 ed il 1541 – sia chiaro – Belluzzi continua a dedicarsi al commercio (ma in linea di massima con scarso successo); tuttavia l’incontro con Girolamo è decisivo da un lato perché gli permette di essere introdotto alla corte dei duchi di Urbino ed a iniziare un’attività diplomatica particolarmente utile per il piccolo mondo sanmarinese, dall’altro perché lo avvia all’amministrazione dei cantieri pesaresi in cui è impegnato il suocero (in particolare nel complesso pesarese della villa Imperiale). Ma se da un lato le conoscenze contabili di Giovan Battista consentono una miglior tenuta dei libri dei conti, dall’altro “il grande e complesso edificio... divenne per il giovane provveditore una palestra straordinaria per imparare dal vivo l’architettura. Le tecniche ingegneristiche applicate all’Imperiale implicavano conoscenze analoghe a quelle necessarie all’architetto militare e per le stesse funzioni di provveditore, il complesso cantiere lo obbligava a seguire tutte le fasi costruttive. Il Belluzzi era tenuto infatti ad occuparsi non solo dell’amministrazione contabile, ma anche dell’organizzazione del lavoro, sovrintendendo con l’architetto alla scelta dei materiali e coordinando tempi e modi di costruzione, dall’approvvigionamento e messa in opera delle materie prime, fino alla taratura conclusiva dei lavori eseguiti” (p. 33). Giungono dunque anni di formazione pratica e di studio teorico (appare fuori di dubbio che Belluzzi lesse Vitruvio ), in cui il Sanmarino si applica con particolare interesse alle nuove regole dell’architettura militare, imposte dall’uso sistematico dell’artiglieria negli eventi bellici e basate sul ricorso al fronte bastionato. “L’architettura militare del Cinquecento fonda la progettazione del fronte bastionato sul disegno e sul rigore scientifico del calcolo matematico, e l’esecuzione sull’impeccabile, militaresca, organizzazione del cantiere, argomenti particolarmente cari al nostro aspirante costruttore. Questa disciplina... non poteva non attrarre uno spirito razionale, appassionato, ambizioso e al passo coi tempi com’era il gentiluomo sanmarinese” (p. 36). E tuttavia, sino al 1543, il Belluzzi continuò comunque a occuparsi di mercatura e a svolgere attività diplomatica per la sua piccola patria.
[3] Il 1543, come si diceva, è l’anno della svolta. A Firenze, Cosimo I de Medici ha inaugurato dal 1537 una serie di riforme volte al rafforzamento politico, amministrativo e militare del ducato; parte integrante di queste riforme è il rinnovamento ed il potenziamento complessivo delle fortificazioni dello Stato. Nel luglio del 1543 il Belluzzi si reca a Firenze in ambasceria per conto della sua piccola repubblica; la missione diplomatica si conclude con un successo, ma anche con un colpo di scena. Cosimo assume Belluzzi come architetto militare (per essere più precisi, come primo ingegnere militare) del ducato. Può sembrare una scelta avventata. Se lo fu, Cosimo ci vide bene. Di fronte all’esigenza di ristrutturare “alla moderna” le fortezze del ducato, di farlo rispettando fin che possibile le preesistenze per ridurre i costi e di farlo rapidamente, Belluzzi (da ora in poi per i fiorentini Bellucci o semplicemente il Sanmarino) si rivelò la persona adatta, finalmente potendo applicare sul campo le conoscenze acquisite in ambiente pesarese-urbinate (a loro volta riflesso di sviluppi veneziani). In pochi anni Belluzzi, “rivoluzionando i metodi tradizionali in uso nei cantieri appena aperti e da aprire, sarebbe stato capace di mettere in sicurezza lo Stato con celerità e competenza, applicando le regole del fronte bastionato [n.d.r. per tali dettami si vedano in particolare le pp. 297-302] con rigore e imparzialità usando, dov’era il caso, un doveroso rispetto per vincoli e preesistenze, ma anche utilizzando senza troppi scrupoli la mano pesante e ricorrendo al guasto [n.d.r. alla distruzione e abbattimento di preesistenze cittadine], qualora le esigenze strategiche (e soprattutto la volontà del Principe) lo esigessero; il tutto senza richieste esorbitanti sul piano economico, né pretese di magnificenza per l’estetica e l’ornato delle sue fortificazioni” (pp. 50-51). L’attività del Sanmarino fu frenetica e l’esame analitico proposto dalla Lamberini la documenta con estrema precisione (anche nelle occasioni meno fortunate, come quella di Portoferraio). Vi pose bruscamente termine solo la drammatica scomparsa di Belluzzi, colpito da un’archibugiata nel corso dell’assedio di Siena, il 22 marzo del 1554.
[4] Questa collezione si caratterizza principalmente come raccolta di fonti per la storia dell’arte; è evidente che gli scritti del Belluzzi assumono in questo contesto particolare importanza. Lo stesso Vasari ricorda che il Sanmarino aveva approntato un’“operetta del modo di fortificare”. In realtà “da una lettera inviata al suo ambasciatore presso la Santa Sede il 29 dicembre 1550, veniamo a conoscenza che Cosimo I aveva commissionato al Sanmarino la redazione di un trattato di fortificazioni nel quale voleva che fossero rappresentate «le piante delle città che sono hoggi forti, così in Italia come in altre parti del mondo» (p. 125). Seguendo l’esposizione dell’autrice, parleremo più avanti del trattato. “Le piante di città e fortezze ordinate dal duca Cosimo I al Belluzzi sono giunte fino a noi: sono rilegate in un album in folio conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, segnato Fondo nazionale II.I.280, studiato e attribuito nuovamente nel 1988, del quale per la prima volta pubblichiamo l’edizione integrale delle sessantadue tavole spettanti al Belluzzi”. L’autrice ritiene che le carte siano state redatte fra il 1549-50 ed il 1551-52; appare chiaro come il lavoro in realtà non fosse completato. Molto probabilmente Sanmarino si vide costretto a sospenderlo nell’impellenza degli eventi bellici senesi e la morte gli impedì poi di portarlo a compimento. L’autrice individua fra le sessantadue mappe due gruppi distinti: da un lato i centri fortificati del ducato fiorentino, dall’altro altre piante di città non appartenenti alle terre governate da Cosimo; la distinzione ha una sua rilevanza perché il secondo gruppo appare fornire rilevazioni cronologicamente meno aggiornate rispetto al primo e potrebbe essere frutto di copie da disegni di altra mano. “Il Belluzzi utilizza i colori per mettere in risalto il vecchio dal nuovo, una tecnica adottata ampiamente nel Cinquecento per i disegni di architettura militare, soprattutto da Antonio da Sangallo il Giovane, ben noto e apprezzato dal Sanmarino. Sono infatti colorate in rosso le antiche cinte urbane, le fortezze medievali e primo-rinascimentali e le varie preesistenze difensive quattro e cinquecentesche già consolidate. In giallo (o in ciclamino) sono invece disegnati i nuovi interventi, sia progettati che in via d’esecuzione... Tutti questi interventi mettono drammaticamente in evidenza quanto radicale e violenta fu la rivoluzione del fronte bastionato cinquecentesco sulla forma e il tessuto urbanistico di città consolidate da secoli” (p. 130).
[5] Ma, come già detto, il progetto principale a cui il Sanmarino attendeva nei (pochi) momenti liberi era la redazione di un grande trattato di fortificazioni. Oggi, a testimonianza di quel progetto (che non giunse mai a pieno compimento) abbiamo tre differenti tipologie di documenti (cfr. p. 288):
A. un manoscritto conservato presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro con segnatura Ms. oliveriano 196, intitolato Trattato delle fortificazioni / di Giambattista Belluzzi / Patrizio Pesarese e di San Marino; si tratta di una copia cinquecentesca a più mani del progetto di trattato elaborato dal Belluzzi, nella sua versione più estesa;
B. un trattato di fortificazioni che costituisce un nucleo del più ampio progetto oliveriano. Il trattato è testimoniato da due manoscritti (una stesura originale che si trova presso l’archivio storico del Comune di Anghiari (segnatura ms. 1624) ed una copia reperita presso l’Archivio di Stato di Torino (codice Z.II.24));
C. un trattato di fortificazioni di terra, redatto attorno al 1545, che costituisce un ulteriore compendio (o “ristretto”) rispetto alla tipologia B appena citata e che è conservato presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze (segnatura Riccardiano 2587).
È bene chiarire subito che nel secondo volume non viene proposta l’edizione del trattato dell’Oliveriana. In questo senso l’affermazione dell’autrice contenuta della Premessa (ovvero che la presente opera comprende l’edizione integrale degli scritti del Belluzzi) non è del tutto corretta. Peraltro le parti più significative del trattato nella sua versione maior (tipologia A) sono presenti e addirittura trattate in maniera più analitica nelle versioni B) e C). Qui ci permettiamo invece di riprendere ampi stralci della Lamberini in merito alla versione “allargata” del trattato. Il manoscritto (si tratta di un esemplare cinquecentesco in cui si distinguono le mani di almeno quattro distinti copisti) “è composto da una cinquantina di capitoli che avrebbero dovuto strutturarsi in almeno quattro libri, ma che male si collegano l’un l’altro; alcuni sono semplici abbozzi di studio; gli ultimi... si ripetono per errore due volte” (p. 289). La scansione dell’opera prevedeva, dopo una sezione introduttiva, una parte dedicata alle tecniche di attacco (le “offese”), seguita da altre pagine in cui si illustravano quelle difensive. “Qui... Belluzzi affronta l’argomento che più lo coinvolge: il problema della difesa dei siti in relazione al restauro delle antiche mura. Lo fa classificando e descrivendo con grande competenza e cognizione di causa le città italiane forti per natura o per arte in base alle loro peculiarità geo-morfologiche. Divide pertanto i siti per categorie, fra quelli di “acqua” e quelli di “terra”, ovvero fra città rese forti dalla presenza del mare, di laghi, di paludi o di fiumi, e quelle costruite su monti «altissimi» o più bassi, fino ai colli, alle pianure e alle valli” (pp. 290-291). È evidentissima la corrispondenza fra l’elencazione delle città in questione e le piante disegnate dal Belluzzi conservate presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (vedi supra), anche se non è del tutto scontato presumere che le mappe dovessero essere pubblicate nel trattato (la mappa, tanto più se ben tracciata, ha una valenza militare che non è il caso di rendere nota al potenziale nemico). Ad ogni modo la Lamberini in diverse occasioni affianca all’analisi della mappa la descrizione della città contenuta proprio nel manoscritto oliveriano. La sezione centrale del trattato si occupa della fortificazione vera e propria (aspetto ampiamente ripreso negli scritti di tipologia B). “Alla spiegazione delle ragioni balistiche per l’avvenuto passaggio dalle torri tonde al moderno bastione angolare, Belluzzi fa seguire l’analisi dei «fianchi», trattando estesamente una per una le figure del fronte bastionato moderno. Baluardo, piattaforma, cavalieri, forbice, denti, stelle e casematte sono illustrati nei dettagli in relazione all’orografia del sito... In queste pagine è evidente che l’interesse del trattatista è rivolto maggiormente alle modifiche da apportare alle antiche mura, per adeguarle ai canoni della fortificazione moderna, piuttosto che al geometrico tracciamento di piante e modelli di città e fortezze ideali. Il fine ultimo è in ogni caso sempre quello d’intervenire pensando in grande, “alla reale”, costruendo cioè bastioni spaziosi provvisti di ampie piazze per l’artiglieria... La fortificazione reale è... quella costruita per essere difesa da artiglieria reale, ossia da armi che tirano palle di ferro da otto libbre in su” (pp. 292-293). Belluzzi invita, fin dove possibile a realizzare fortificazioni “alla reale”, ricorrendo ad altre di dimensioni inferiori solo in caso di necessità. Infine, “nella parte finale del trattato dell’Oliveriana, dove l’autore in un lungo capitolo sulle fortificazioni di terra affronta il problema del cantiere, indicando tempi e modi per la scelta dei materiali da costruzione e delle maestranze, emergono il carattere fermo, le qualità morali e le capacità tecniche e organizzative dell’ingegnere, doti che avevano favorito la sua ascesa professionale in Toscana all’ombra di Cosimo de’ Medici” (p. 293). Sul significato dell’espressione “fortificazioni di terra” rimandiamo alle note sul ristretto della Biblioteca Riccardiana.
[6] Resta da affrontare il problema (tutt’altro che semplice) della fortuna dei trattati, dei plagi e delle rivisitazioni di cui essi furono oggetto e che se da un lato contribuirono a diffondere i precetti del Sanmarino, dall’altro finirono per attribuire ad altri il merito della loro introduzione, facendo dimenticare o sminuendo il nome del Belluzzi. È circostanza nota che, alla morte del Sanmarino, i suoi manoscritti passarono nella mani dell’unico allievo, Bernardo Puccini (1521-1575), suo successore anche nell’organigramma mediceo come primo ingegnere di Cosimo. Compito di Puccini era quello di arrivare finalmente alla pubblicazione di un trattato di fortificazioni completo che rendesse onore alla memoria del Belluzzi (e vanificasse i tentativi di plagio di terzi). Fatto sta che anche Puccini non riuscì nell’impresa, da un lato pressato da impegni operativi al servizio dei Medici, dall’altro probabilmente più attento cogli anni ad altri indirizzi di studio. Bernardo fu in grado solamente di produrre l’ennesimo “ristretto” di fortificazioni in forma manoscritta (siamo nel 1558), lasciando invece incompiuto il più ampio trattato sino alla morte improvvisa (la storia si ripete) che lo colse mentre lavorava alle fortificazioni di Portoferraio nel 1575. I manoscritti pucciniani, comunque non privi di apporti personali, ebbero ad ogni modo una loro circolazione che li rese oggetto di plagio da parte di molti ingegneri e architetti. Vi è quindi un primo filone di plagi dell’opera belluzziana che passa attraverso la mediazione dell’opera del Puccini. In merito si vedano le pp. 309-313 e soprattutto Daniela Lamberini, Il principe difeso. Vita e opere di Bernardo Puccini.
C’è poi da ricordare che, se i manoscritti di Belluzzi passarono al Puccini, essi molto probabilmente non costituivano l’unica copia prodotta dal Sanmarino (è più che logico pensare a redazioni manoscritte approntate in fasi diverse e rispecchianti diversi livelli di avanzamento dei lavori). Una copia (molto scorretta) del trattato di fortificazioni nella tipologia B) giunse ad esempio in mano del bergamasco Tommaso Baglioni che, nel 1598, ovvero mezzo secolo dopo la redazione, la diede alle stampe a Venezia. L’operazione editoriale del Baglioni non fu certo delle più felici, a cominciare dal lungo titolo (Nuova inventione di fabricar fortezze di varie forme, in qualunque sito di piano, di monte, in acqua, con diversi disegni, et un trattato del modo, che si hà da osservare in esse, con le sue misure, et ordine di levar le piante, tanto in fortezze reali, quanto non reali), per arrivare alla storpiatura del nome dell’autore in Giovan Battista Belici e soprattutto all’imperdonabile inserimento – senza alcun avvertimento -, all’interno dell’opera, dello scritto di un altro autore, un anonimo sostanzialmente contemporaneo al Sanmarino, che sostiene tesi assai poco coerenti col testo belluzziano (la Lamberini ritiene che si possa trattare di Giovan Tommaso Scala, mercenario veneziano di metà Cinquecento). Insomma, il pasticcio è di quelli grossi e spinge molti lettori prima a ritenere che il Belici non possa essere il Belluzzi, poi a far viaggiare il Sanmarino in paesi stranieri in cui non si era mai recato, attribuendogli esperienze militari a lui del tutto estranee; solo da metà Ottocento si comincia ad intuire che in realtà la pubblicazione di Baglioni è l’arbitraria fusione degli scritti di due autori diversi, ma il dato non è ancora del tutto acquisito se lo Schlosser (uno che a queste cose ci faceva caso) non ricorda la circostanza al momento di citare l’opera nella sua Letteratura artistica (p. 424). Va ricordato inoltre che un originale del trattato (sempre di tipologia B) finì fra le carte del cavaliere Girolamo Magi (meglio noto come Maggi). Si tratta proprio della copia conservata nell’Archivio storico del Comune di Anghiari (cfr. supra), di cui sicuramente il Maggi si servì nella redazione del suo Della fortificazione della città, pubblicato a Venezia nel 1564 (e scritto insieme al Castriotto). Neppure il ristretto delle fortificazioni di terra (tipologia C) fu naturalmente privo di plagi più o meno evidenti. Il più riuscito è quello del bresciano Giacomo Lanteri e del suo trattato Duo libri del modo di fare le fortificazioni di terra, pubblicato a Venezia nel 1559, in cui il primo libro è, di fatto, il lavoro del Belluzzi trasposto “in bella copia”. Meno fortunato (perché non giunto a compimento) fu il plagio del bolognese Francesco De Marchi (cfr. vol. II pp. 399-401) che ricopiò il ristretto di fortificazioni e lo inserì (a suo nome) in un manoscritto destinato ad una mancata pubblicazione. Da ricordare che il De Marchi era entrato in possesso anche delle 62 piante disegnate dal Belluzzi (cfr. supra) e le aveva senza troppi scrupoli inserite nella propria collezione di città e fortezze come opera della propria mano (p. 127).
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