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sabato 11 gennaio 2014

Alexander Cozens, A New Method of Assisting the Invention in Drawing Original Compositions of Landscape (1785) con una recensione del 1981 di Mario Praz



Alexander Cozens
A New Method of Assisting the Invention 

in Drawing Original Compositions of Landscape
(1785)


A cura di Paola Lavezzari

Canova editore, 1981

Alexander Cozens, Landscape with Mountain and Lake (1750s)

[1] Tiratura limitata a 700 esemplari.

[2] Il volume è diviso in due parti. La prima è composta secondo normali criteri tipografici. Per quanto riguarda la seconda, “il testo dell’edizione originale è una ripresa anastatica stampata in offset” (p. VI).

[3] Il presente volume è stato ampiamente recensito da Mario Praz in un elzeviro apparso sul quotidiano romano Il Tempo il 17 maggio 1981. Si provvede a trascrivere il testo della recensione qui di seguito. L’articolo originale è allegato all’opera.


Quando le macchie ispiravano i pittori
di Mario Praz

Per tutto questo secolo la tendenza dominante in arte è stata l’astrattismo, si è voluto cioè seguire il processo opposto a quello dell’uomo naturale, convalidato da una tradizione che va da Filostrato, Plinio, Leon Battista Alberti, Leonardo, Vasari, la pittura cinese del secolo XI, la olandese del XVII, gli «sceglitori di macchie» dell’opificio fiorentino delle pietre dure. Anziché vedere nelle macchie teste di uomini, diversi animali, battaglie, scogli e via dicendo, nei profili dei monti e dei continenti motivi antropomorfici, si son voluti vedere soltanto macchie e schemi privi di contenuto oggettivo nelle teste di uomini, nei diversi animali, nei paesaggi. Le teste sono diventate uova nei quadri metafisici di De Chirico, come lo erano già nei portaparrucche, e come lo sono oramai nei magazzini d’abbigliamento e nei musei di costumi. Ci si potrà meravigliare che il gusto sia rimasto orientato per secoli sulla scultura greco-romana, che l’Apollo del Belvedere e la Venere dei Medici abbiano riscosso tanta ammirazione quanta è stata registrata nel volume Taste and the Antique di Francis Haskell e Nicholas Penny (Yale University Press 1980), ma che diranno i secoli futuri dei nostri musei di scultura moderna, dove passano per opere d’arte memorabili meri aggregati di forme inorganiche e addirittura di fili, luminosi e mobili, o dei nostri musei di pittura dove vanno sotto il nome di paesaggi composizioni prive d’ogni contenuto oggettivo, che suggeriscono tutt’al più il caos? 


Un cartografo

Nella bizzarra cartografia di Opicinus de Canistris, un chierico italiano impiegato alla corte papale di Avignone le linee costiere del bacino del Mediterraneo erano trasformate in un incontro erotico tra una mulier il cui capo e il naso eran formati dal Marocco, il promontorio di Tangeri puntato come un naso contro l’orecchio del vir, il cui capo era formato dalla Spagna e le cui braccia erano le penisole italica e greca. La donna (Africa) dice: «Venite, comunicamini nobiscum». Una iscrizione reca: vir animus bestialis, femina caro corrupta. Di questa cartografia antropomorfica non parla Jurgis Baltrusaitis nel volume Aberrations, Légendes des formes (Parigi, Perrin, 1957), dove in quattro monografie esplora alcuni bizzarri vicoli del gusto: la fisiognomia animale, le pietre figurate, la favola dell’architettura gotica, i giardini e paesi d’illusione. 

Sono argomenti che avrebbero mandato in sollucchero il nostro Lorenzo Magalotti, che pure cercava d’impostare su simili temi certe elucubrazioni metafisiche che oggi ci fanno sorridere. Si rimpiange che di lui non si conoscano che pochi accenni a quell’apprezzamento che dovette esserci proprio per quelle rappresentazioni d’esseri animati e di luoghi che l’opera delle pietre dure, ai suoi giorni, inventava per mezzo dei suoi «sceglitori». In una delle sue Lettere familiari contro l’ateismo dice di aver veduto moltissime pietre, e soprattutto moltissime agate orientali, macchiate in figure di fiori, di alberi, di volti e di membra umane «notevoli per squisitezza di disegno». 

Quei suggerimenti che Leonardo trovava nelle macchie dei vecchi muri, gli sceglitori li trovavano nei marmi semipreziosi che andavano sotto il nome di pietre dure. Le maschere della realtà vengono imposte al caso e la sostituiscono. Si vedeva nei minerali, soprattutto nelle agate, l’incendio di Troia, il passaggio del Mar Rosso, e perfino Cristo crocifisso completo di chiodi, le piaghe e le gocce di sangue. I pagani (ché già ne parlava Plinio) vedevano dèi e semidei, Sileni e Pani, in simili figurazioni; i cristiani ci vedevano santi, frati ed eremiti, gl’Italiani scene dell’epoca antica, i Nordici, episodi della Bibbia; da noi si facevano risalire tali prodigi dall’Oriente, nel Nord si facevano risalire all’Italia e si chiamavano pietre fiorentine. Nel Settecento un pittore inglese, Alexander Cozens, che sosteneva d’aver veduto solo più tardi il passo di Leonardo, basò addirittura sulla deliberata produzione di macchie un nuovo metodo per aiutare l’invenzione; il curioso trattatello che non reca data (ma è del 1785) A new Method of Assisting the Invention, in Drawing Original Compositions of Landscape, è stato ristampato con le figure da A.P. Oppé alla fine della sua dotta ed esauriente monografia su Alexander and John Robert Cozens (Londra, Black, 1952), e ora in Italia nella collana «Fonti per la Storia dell’Arte» diretta da Luigi Grassi, pubblicata a cura dell’Istituto di Storia dell’Arte della Facoltà di Magistero dell’Università di Roma (con introduzione, commento e traduzione di Paola Lavezzari, Libreria Editrice Canova, 1981, tiratura limitata a 700 copie). I due Cozens, che sono tra i più grandi acquerellisti inglesi, derivarono ispirazione e perfezionamento tecnico dallo studio dei nostri paesaggi e dei nostri cieli; era l’epoca aurea dei Castelli Romani, quando (nel 1773) il quarto conte di Bristol, vescovo di Derry, proclamava che al mondo non esisteva veduta più «romantica» di quella che godeva dalla sua casa di Albano; e Roma e la Campagna formano il tema dominante dell’opera di Alexander Cozens (1717-1786) e di suo figlio John Robert (1752-1797), ma non è per questo che essi son celebri (quanti pittori non si sono ispirati al paesaggio italico!), bensì per i loro effetti di cieli e di nuvole e per la loro tecnica, soprattutto il padre per il suo modo di schizzare paesaggi in bianco e nero, con una visione sintetica e magica che ha qualche affinità con gli schizzi di Claude Lorraine, ma trovano [nd.r. sic] un più calzante parallelo coi paesaggi monocromi cinesi. Venne definito blotmaster general to the town per la diffusione del suo facile metodo che si rivolgeva soprattutto ai gentlemen dilettanti di pittura. 

Consigliava Alexander Cozens ai giovani pittori questo metodo per stimolare la loro invenzione anche nel caso che possedessero quella rara qualità che si chiamava genio: «Preparate la carta e i materiali. 1) Fissatevi bene in mente un tema. 2) Prendete un pennello di peli di cammello, grande quanto può essere usato convenientemente; intingetelo in una mescolanza d’inchiostro da disegno e d’acqua, che sarà del grado di densità che meglio gioverà al vostro intento, e colla massima prestezza fate ogni possibile varietà di forme e di segni sulla vostra carta, disponendo il tutto in conformità del tema che avete in mente. 3) Non limitatevi a fare una o due macchie, ma fatene una quantità su vari fogli in modo da avere una scelta quando vorrete servirvi di una di esse per la composizione del paesaggio». Riteneva il Cozens che le idee preconcette assistono l’immaginazione nel far le macchie e che d’altronde l’esercizio di farle rinforza e migliora le idee che languiscono se non sono mandate ad effetto. Quell’aggregato di forme accidentali che è la macchia «dà un’idea delle masse di luce ed ombra come pure degli oggetti che costituiranno la composizione finale». L’apparenza è quella d’un disegno finito collocato ad una certa distanza dall’occhio, ovvero, collocando a una certa distanza la macchia, questa avrà l’aspetto di un disegno finito eseguito con brio eccezionale. Allorché verrà il momento di trasformare la macchia in uno schizzo, si potrà lasciar fuori qualunque segno che non sembri «naturale», ma non si dovrà aggiungere nulla che non sia suggerito dalla macchia stessa. Con questo metodo la mente eviterà di venir distratta dai particolari insignificanti come accade quando copia direttamente dal vero. Che idee generali dovessero soprattutto ricevere rilievo, e non peculiarità come nei ritratti, era un concetto che trovava largo consenso nel Settecento, e che era tenuto in considerazione da pittori come il Gainsborough, del quale scriveva un critico del tempo, a proposito della sua produzione paesistica: «Nelle sue opere più tarde il suo intento sembrava essere stato di ottenere effetti generali, fugaci accenni di forme a cui l’occhio dello spettatore deve dare un nome; insomma, per dirlo in due parole, di fare macchie eleganti». 

La Lavezzari non ritiene di poter considerare il Cozens un epigono della tradizione della macchia che risale a Leonardo e oltre. La critica prima di Oppé, essa dice, aderendo a questa genealogia «ha privato di qualsiasi quoziente teorico che giustificasse o rivelasse appunto non gratuita la proposta di quel motivo [della macchia] in quella determinata situazione culturale, e ne spiegasse l’attualità in rapporto a quella situazione». 


Ottimismo

Nella lunga introduzione la Lavezzari si è proposta un sovrabbondante inquadramento del metodo del Cozens nella cultura settecentesca. Essa cita una quantità di testi nell’originale, soprattutto il saggio sul genio del Gerard, e passi di T. Reid, A. Alison, W. Gilpin, R. Payne Knight, Reynolds, e altri, tutti vòlti a illustrare una concezione ottimistica della Natura che «s’industria a render la Terra gaia e deliziosa», «un universo quale teatro pieno di oggetti che suscitano in noi piacere, divertimento e ammirazione», tra cui «il filosofo può cogliere il carattere di una perfetta serenità quale modello d’una virtù perfetta», concetto di cui poi nel nostro secolo Aldous Huxley ci mostrerà la fallacia nel suo saggio su «Wordsworth in the Tropic», mentre una più esatta conoscenza del canto degli uccelli ci dimostrerà che anziché esprimere la loro gioia nel creato, è una forma di monito difensivo contro la minaccia ai loro nidi. La Lavezzari s’indugia pure a passare in rassegna testi sulla natura del genio, sulla funzione della memoria nell’invenzione, secondo Locke (un tema che ho cercato di aggiornare in Mnemosine), sul giardinaggio che conferisce alla scena rurale quel che un comportamento nobile e pieno di grazia conferisce alla sagoma dell’uomo; sul concetto di grazia e su quello di piacevole negligenza, che l’Addison additava come estremamente di moda. La grazia del paesaggio è codificata dal Cozens esattamente come quella della grazia gestuale, nei noti criteri della linea ondulata del Hogarth. Per Gilpin le opere di aratura erano una spettacolo di delizia: si guarda alle fatiche dei contadini con benevolenza e piacere pensando alla loro vita di pace, agio e innocenza (George Crabbe presenterà la vita dei contadini ben diversa dall’idealizzazione pastorale). Insomma: «Cozens riflette ragioni che risalgono certamente a una lunga tradizione, ma viste attraverso l’angolazione specifica secondo la quale quelle ragioni erano state riproposte dagli ambienti culturali del suo tempo, mediate, cioè, da argomentazioni non solo di Reynolds, ma più specificamente di Gerard, il cui Essay on Genius precede di circa un decennio il New Method». Un’osservazione del Discorso XIV del Reynolds (1788) merita di essere ricordata perché potrebbe fornire lo spunto a un più lungo dibattito sulla pittura: «Degna d’imitazione è un’altra tecnica del Gainsborough, cioè la sua maniera di formare tutte insieme le parti di un quadro: l’insieme procedeva contemporaneamente, proprio come la Natura crea le sue opere. Che questo non sia l’uso universale è provato dalla pratica di Pompeo Batoni, che rifiniva i suoi quadri di storia una parte dopo l’altra, e nei suoi ritratti finiva completamente un particolare prima di passare a un altro, col risultato che l’aspetto non era mai bene espresso, e il quadro non era ben combinato insieme». Reynolds, e lo stesso Cozens, sottolineano come non sia processo naturale della mente ricordare in modo analitico gli aspetti particolari degli oggetti. Era un principio, oggi portato alle estreme conseguenze di azzeramento.

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