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martedì 14 gennaio 2014

1951: la recensione di Emilio Cecchi a Il Trecento di Pietro Toesca



Pietro Toesca
IL TRECENTO
U.T.E.T editore, 1951
Storia dell'arte Italiana; II


[1] Si riporta recensione all’opera apparsa in data 3 aprile 1951 a firma Emilio Cecchi sul quotidiano Corriere della Sera. L’originale dell’articolo è custodito all’interno di Raccolta di articoli e altri ritagli di giornale di Luciano Mazzaferro, conservata presso la Biblioteca Comunale Giulio Cesare Croce di San Giovanni in Persiceto.

CORRIERE DELLA SERA
Il Trecento
di Emilio Cecchi

Su quella Storia dell’Arte Italiana nel Medioevo che, apparsa nel 1927, era rimasta fino ad oggi l’opera principale di Pietro Toesca, una intiera generazione di studiosi affilò le proprie erudizioni ed irrobustì il proprio senso critico. Dopo quasi venticinque anni di nuove ricerche, un altro libro monumentale dello stesso autore: Il Trecento (Edit. «Utet», Torino), riprende la storia dell’arte italiana dal punto dove la precedente trattazione l’aveva lasciata, alla giovinezza di Giotto e di Duccio. La pubblicazione avviene al momento in cui, per limiti di età, il Toesca scende dalla sua cattedra nell’Università di Roma. Ma in realtà, col nuovo libro, il suo insegnamento non fa che trasportarsi e proseguire in un’aula più vasta; non soltanto frequentata dagli specialisti di storia dell’arte, ma da ogni qualità di persone veramente colte.

È un’amabile regola, nei nostri migliori giornali, onorare d’almeno un accenno il romanzetto o la raccolta di novelle che appena escono dall’ordinario, la commediola che forse non vedrà più di due sere il naso del suggeritore. Soprattutto nei confronti dell’impegno intellettuale e del sostanzioso contributo della cultura ch’esse rappresentano, è doloroso che per le opere di alta critica e di ricerca erudita, le segnalazioni della stampa quotidiana siano forse meno laute che per quei lievi prodotti della letteratura amena. Ma sarebbe impossibile passare sotto silenzio una pubblicazione come Il Trecento. E se il nome del Toesca e la qualità e la mole del lavoro sono di per sé argomenti che impongono, una autorità anche più imperiosa emana direttamente dalla materia del volume.

Non manca di certo, in noi italiani, il sentimento delle glorie artistiche nazionali. Ma è da temere che, generalmente parlando, si sia più ammirati e orgogliosi che veramente consapevoli. Proprio in questi giorni, Roberto Longhi ha riproposto la questione se «in un Paese come il nostro, la maggior «gloria della lingua» spetti, nei secoli, alla poesia, o non piuttosto all’arte figurativa» (Paragone, n. 13). In Inghilterra, in Germania, nella Francia stessa, siffatta domanda sarebbe inconcepibile. In Italia essa ha la sua ragion d’essere, almeno quanto avrebbe potuto averla nella Grecia antica. E prescindiamo dal fondamentale valore di scoperta e invenzione di nuove qualità di linguaggio figurativo, per cui, a dirne una... a nessuno verrà neanche in mente che le origini e gli essenziali principi di tutta la pittura moderna possano ricercarsi altrove che in Giotto. In un corso durato quasi cinque secoli, da Giotto appunto al tramonto della scuola veneziana, quale favoloso e ininterrotto corteggio di geni di prima grandezza. Che successione di trionfali dinastie, le quali si trasmettono le loro fulgide conquiste, insieme ai diplomi della più rigorosa legittimità.

Di tutto questo, sempre generalmente parlando, si ha un entusiastico, ma confuso sentore. Ed anche la gente meglio provveduta, e capace di sinceramente esaltarsi davanti alla Madonna in trono di Giotto, all’Adamo ed Eva di Masaccio, alla Sant’Anna e la Vergine di Leonardo, alle sculture di Michelangelo nella Sacrestia nuova, all’Europa o all’Ecce homo di Tiziano, non sa poi articolare e chiarire la propria emozione se appena voglia rendersi conto dei significati lirici di cotesti formidabili capolavori, e dei valori formali in cui tali significati presero corpo e furono espressi: significati, ripetiamo, che per originalità e gravità nulla hanno da invidiare a quelli della nostra massima poesia. 

La questione è che la critica figurativa, nel vero senso del termine, è un acquisto relativamente recente. I nostri vecchi scrittori, soprattutto ubbidivano a un criterio biografico o strettamente tecnico e artigiano. Ed è probabile che il tentativo di penetrare più addentro in un’opera, si effettuasse meglio nel vivo discorso fra gente del mestiere, mecenati e patiti di pittura e scultura; in quei modi e quei toni di cui forse si sorprende qualche eco in certe lettere dell’Aretino o nel Dialogo del Dolce. Né bisognerà poi dimenticarsi che la grandissima parte del lavoro critico, organicamente intrapreso, a partire dalla seconda metà dello scorso secolo, venne consumata innanzi tutto a vagliare e ricostituire, pezzo per pezzo, il repertorio dei singoli artefici: repertorio quanto mai imbrogliato, misto di attribuzioni insostenibili, e pur spesso apparentemente fornite dei più bei crismi tradizionali. Lavoro addirittura gigantesco, ancora tutt’altro che compiuto: ed a cui (tanta è l’ideale forza d’irradiazione e d’incanto di questa arte) collaborarono ingegni d’ogni terra più remota: basti citare il giapponese Yashiro con i suoi tre volumi sul Botticelli.

In Italia, i due veri archimandriti, in successione di tempo, furono il gran Cavalcaselle, di cui ogni tanto torna ad imporsi qualche opinione che sembrava scaduta, ed il vecchio Venturi. Questi, nelle sue Memorie, lasciò appunti e schizzi per un ritratto del barbuto Cavalcaselle [n.d.r. si veda anche il testo della conferenza tenuta da Adolfo Venturi il 14 luglio 1907 a Legnago, in memoria di Giovan Battista Cavalcaselle]: intrepido patriota, «consule» della Repubblica Romana; impiccato in effigie dall’Austria, eppoi decorato da Francesco Giuseppe per certe critiche e stime di dipinti delle gallerie imperiali; riscopritore dell’antica arte italiana, ma incapace a scrivere in un italiano accettabile; e fra tante e tante altre cose, emerito ghiottone di lumache in tutte le salse; e ostinato, come Sarah Bernhardt, a voler dormire con la propria cassa da morto sotto il letto. Un profilo del vecchio Venturi non presenterebbe tratti di romanticismo così svariato ed eccessivo; benché a sua volta il Venturi di bizzarrie ne avesse la sua parte. Mentre il suo occhio acutissimo pareva sempre che sonnecchiasse dietro lenti massicce come quelle d’una batisfera, le anticipazioni critiche, le intuizioni, sorprendenti talvolta rivoluzionarie, andavano nei suoi libri ad accagliarsi in una prosa sciropposa, con dolciastri aggettivi messi a vanvera. Forte ingegno e carattere (e perfino acre, come mostrano le Memorie), gli piaceva darsi un’aria un po’ belante; fra il papà Natale ed il Nilus septemfluus con intorno il formicaio dei puttini. Frattanto la massa del lavoro da lui abbozzato è incalcolabile, e così l’impulso impresso a due generazioni.

Nonostante le altissime tradizioni estetiche e storiche d’altre zone del territorio nazionale, il terzo archimandrita od evangelista: il Toesca, anche lui proviene dall’Italia del nord (di Modena era il Venturi, il Cavalcaselle di Legnago). E con lui subito si sente che siamo fuori dell’epoca pioniera. Lo giudicano alcuni scrittore freddo, smorto, quasi evasivo. In realtà, mai alza la voce. Mai o quasi mai introduce affermazioni teoriche. Non è di suo gusto tentare sintesi liriche di questa o di quella personalità. Ed i luoghi nei quali il corso della storia figurativa eloquentemente si riflette in quello della poesia, della letteratura, del costume o del sentimento religioso, anche in un libro delle dimensioni del Trecento, si riducono a scarsissime pagine, come d’indispensabile incorniciatura. 

Ma chi porti, leggendo, una pratica quanto più stagionata e consumata delle diverse opere d’arte, e dei caratteri quanto più intrinseci d’uno o d’un altro stile, ha tutto l’agio di accorgersi come nell’apparente povertà e frigidezza, la scrittura del Toesca sia invece internamente sensibile; e in un inciso, nel risvolto d’una frase, sappia evocare, precisare e graduare, con minime increspature e inflessioni. La qualità del gusto è severamente italica; e rifugge da contaminazioni più brillanti che proficue: come quelle in cui di frequente si scapriccia l’estetismo francese e soprattutto anglosassone. Al medesimo tempo, sui singoli argomenti, la letteratura critica migliore d’ogni paese è chiamata ad intervenire nel dibattito (la critica, dice il Croce, è sempre critica della critica); in ben altro modo che non fosse ad esempio nel Venturi, rimasto per tale riguardo ad una informazione più approssimativa e casuale.

Per coloro che s’interessano di questi argomenti, è ovvio che nel Trecento siano capitoli che il loro occhio ricercherà con sollecitudine particolare. Non crediamo che tale sollecitudine corra pericolo di restare delusa. Pur limitandosi alla parte dedicata alla pittura: da Giotto a Lorenzo Monaco e da Duccio a Taddeo Bartoli, ci sarebbe da riempire qualche colonna, a voler dare soltanto un ragionevole sommario delle questioni più rilevanti e dibattute; e di altre credute risolte, e qui riattizzate e di nuovo fatte divampare, magari con l’innesco di una semplice nota a piè di pagina. Lo svolgimento dell’arte di Pietro Lorenzetti è, ad esempio, una di coteste questioni fondamentali, intorno a cui da un trentennio più serratamente i critici contrastano, urtandosi in dubbi stilistici e cronologici che nel Trecento, se non una soluzione compiuta, trovano almeno certe notevoli chiarificazioni. Altro problema di anche maggior risalto, per la enorme importanza delle opere coinvolte, è quello dell’anonimo «Maestro del Trionfo della Morte» al camposanto di Pisa: artista non senese, né fiorentino, né emiliano, né confondibile con il pisano Traini.

E proprio su questo giornale, nel 1943, si era scritto circa una nuova idea che, da par suo, il Longhi veniva illustrando, della più valida pittura fiorentina succeduta a Giotto, e che, nel gruppo di artisti tradizionalmente indicato con i nomi di Maso, Stefano, Giottino si innalza a ben altri fastigi che nella stanca pratica dei Gaddi e nel secco simbolismo del Bonaiuti. Solo oggi (Paragone, n. 13) il Longhi pubblica il suo studio del 1943. Insieme alle belle pagine del Trecento sulla medesima questione, esso mostrerà al lettore quanto da questi autori sia da attendere, anche se non soprattutto nei campi che potrebbero sembrare più mietuti. E si metta a confronto il Trecento del Toesca con trattazioni analoghe, nostrane e straniere, di venti o trenta anni addietro. Ognuno vedrà come per vastità di esperienze, per rigore di metodo, concretezza di stile, ed equilibrio e raffinatezza di risultati, la critica italiana di arte figurativa non abbia davvero perso il suo tempo.

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