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lunedì 28 novembre 2016

'David Sylvester'. Di James Finch (2016). Parte Seconda



David Sylvester 

di James Finch 
Parte Seconda

Traduzione di Giovanni Mazzaferro

Fig. 7) Francis Bacon, Figura con carne, 1954, Art Institute of Chicago
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Francis_Bacon_(artist)#/media/File:Figura_con_la_carne.jpeg



Interviste d'artista

L’importanza della conversazione orale nell’opera di Sylvester, come detto prima, si è manifestata soprattutto per mezzo delle sue tante interviste ad artisti, un format per il quale il critico è annoverato fra i maestri indiscussi, sia per l’incisività delle sue domande, sia per la sensibilità con cui le ha curate. Hans Ulrich Obrist (delle cui Lives of the Artists, Lives of the Architects abbiamo parlato di recente su questo sito) ha ripetutamente riconosciuto l’influenza formativa che Sylvester ha esercitato sulla sua pratica ed è ben difficile immaginare libri di interviste a singoli artisti come le ‘Conversation Series’ di Obrist senza l’esempio precedente delle leggendarie interviste di Sylvester a Francis Bacon [22]. Tali interviste furono importanti non solo perché permisero a un artista ‘che non scriveva’, come Bacon, di trasmettere le sue idee al pubblico (tramite appunto l’allora moderno genere dell’’intervista d’artista), ma anche perché diedero prestigio a Sylvester, che apparve interlocutore privilegiato dell’artista (l’ 'amico fidato di Bacon' come recitava la sovraccoperta del più tardo Looking Back at Francis Bacon) [23].



Fig. 8) Francis Bacon, Tre studi per un ritratto a  Henrietta Moraes, 1963, Moma Collections
Fonte: http://www.moma.org/collection/works/83362?locale=en MoMA tramite Wikimedia Commons

Le interviste di Sylvester con gli artisti e la dinamica del genere dell’‘intervista d’artista’ nel corso degli anni ’50 e ’60 sono state oggetto di particolare attenzione nella mia ricerca. Nel caso di Sylvester, l’intervista può essere fondamentalmente di due tipi. Il primo consente di raccogliere e divulgare maggiori informazioni su artisti coi quali prima aveva avuto poca dimestichezza. È il caso, ad esempio, degli espressionisti astratti che intervistò in occasione della sua prima visita negli Stati Uniti, nel 1960 (sono state poi raccolte nel volume Interviews with American Artists); o, ancora, di artisti più giovani, come Rachel Whiteread e Douglas Gordon di cui si interessò da quel momento fino alla fine della sua vita). Contemporaneamente, il secondo tipo era un modo per investigare, davvero andando a fondo come non mai, l’opera di un’artista come Bacon, che già conosceva molto bene. Le interviste con Bacon servono non solo all’artista per parlare in maniera elegante delle intenzioni che hanno animato la sua opera (anche se questa è chiaramente una parte della loro funzione), ma sono anche una tecnica esplorativa capace di offrire nuove spunti di riflessione man mano vanno avanti [24].

Fig. 9) Rachel Whiteread, Senza titolo (Ventiquattro interruttori), Tate Liverpool
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Untitled_(Twenty_Four_Switches),_Tate_Liverpool.jpg

La presenza nell’archivio di Sylvester delle trascrizioni originali per molte di queste interviste (comprese quelle con Bacon) mi ha permesso di analizzare nel dettaglio il modo con Sylvester assemblò le sue conversazioni con il grande artista irlandese, di considerare i motivi per cui alcuni materiali furono tralasciati e di capire quale ruolo l’intervistatore giocò nel dar forma a un documento che ha avuto enorme influenza sul modo in cui Bacon è considerato [25]. Il fascino perdurante di queste interviste è stato dimostrato ancora una volta quando, proprio mentre stavo completando la mia tesi, Sotheby’s ha pubblicato un video in cui l’attore Jeremy Irons legge estratti da esse: https://www.youtube.com/watch?v=I8K2_-MQ43s) Sono divenute addirittura testi da interpretare (si metta a confronto il tono solenne usato da Irons con la presenza più vivace di Bacon in questa intervista televisiva con Sylvester: http://www.bbc.co.uk/iplayer/episode/p02t7ck5/francis-bacon-fragments-of-a-portrait). Quando furono pubblicate, Sylvester sapeva che era il nome di Bacon a far vendere il libro; ciò non di meno sentiva fortemente le interviste soprattutto come sue creature. Per questo motivo fu molto contrariato quando l’editore della traduzione francese, Gaëtan Picon, pianificò di mettere il nome di Bacon sopra al titolo del libro. In quell’occasione Sylvester asserì che ‘nella misura in cui il libro è un’opera letteraria si tratta di una mia creazione. Io ne sono l’autore allo stesso modo in cui lo è il direttore di un documentario’ [26].


Le monografie

Questa citazione è una delle diverse occasioni in cui Sylvester fa riferimento alla sua opera in termini letterari, anche se, inevitabilmente, ha scritto secondo modelli più tipici della critica artistica (monografie, saggi su cataloghi, recensioni, interviste etc) che delle opere letterarie. Scrisse ad esempio quattro monografie, e tuttavia declinò questo genere del tutto convenzionale in forme abbastanza diverse, che rispecchiavano le sue idee sui modi differenti in cui ogni artista andrebbe presentato. Più in generale, questa sua preferenza, volta a concentrarsi su un solo artista per presentarlo al meglio, è parte integrante di un’idea che si rispecchia nel suo lavoro di curatore, il più delle volte dedicato all’allestimento di mostre di singoli. 

Il libro su Moore, che accompagnava la mostra a lui dedicata nel 1968 e curata appunto da Sylvester (ancora una volta alla Tate Gallery) ne è un tipico esempio. Sia il libro sia la mostra enfatizzavano il ruolo dell’inconscio e dell’immaginario sessuale nell’opera di Moore in un momento in cui le sculture monumentali prodotte dall’artista per i grandi spazi pubblici americani minacciavano di far passare in secondo piano la dimensione più intima del suo lavoro (Sylvester dedicò il libro a Adrian Stokes, uno dei suoi critici d’arte preferiti, i cui scritti avevano similarmente molto a che fare con questi argomenti) [27]. Il libro presentava una serie di saggi brevi su aspetti diversi dell’opera di Moore (‘interno/esterno, ‘duro e morbido’, ‘buchi e vuoti’) che gli permisero di tracciare l’importanza persistente di queste categorie nel lavoro dell’artista, invece di segmentare la sua opera in periodi successivi o di individuare semplicisticamente un percorso d’avanzamento come altre monografie su Moore avevano mirato a fare. Nell’analizzare il lavoro dell’artista attraverso una serie di incursioni incisive invece che secondo un ponderoso percorso di sviluppo cronologico, Sylvester riuscì a trovare un modo per presentare in maniera non convenzionale la sua opera.

Fig. 10) Henry Moore, Figura reclinata divisa in tre pezzi N. 1, 1961, Yorkshire Sculpture Park
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/Henry_Moore#/media/File:Moore_ThreePieceRecliningFigureNo1_1961.jpg

Quando uscì la monografia su Moore, Sylvester stava già lavorando da diversi anni a quello che probabilmente fu il suo lavoro migliore (e sicuramente quello con maggiori qualità letterarie). Si trattava di Looking at Giacometti, che alla fine fu pubblicato nel 1994 e rappresentò il culmine del suo rapporto di critico con l’artista. In questo volume Sylvester raccolse testi scritti lungo un periodo di quasi quarant’anni, spesso tornando indietro a punti precedentemente sviluppati secondo una diversa angolazione per mostrare come il suo pensiero sull’artista fosse andato sviluppandosi. Di cruciale importanza, nelle vicende che portarono alla scrittura del libro, fu la morte di Giacometti, intervenuta nel 1966, quando Sylvester era prossimo a terminarne la stesura in una prima versione. Scrive l’autore: 

La maggior parte del libro era ancora in lavorazione quando Giacometti morì, nel gennaio del 1966. Andai avanti e lo consegnai a un editore [Weidenfeld e Nicolson], e dopo aver lavorato qualche tempo sulle bozze finali non le rispedii mai indietro. Era divenuto chiaro che un testo scritto come studio di un’attività artistica ancora in corso non poteva improvvisamente essere convertito in un altro che avesse ad oggetto l’opera completa di un artista’ [28].

Fig. 11) Paolo Monti, Servizio fotografico Biennale Venezia 1962 - Giacometti al lavoro

Nella misura in cui ricominciò a scriverlo più di una volta (c’è un incredibile numero di bozze del volume nell’archivio di Sylvester) il libro tende consapevolmente ad emulare il celebre perfezionismo che era associato a Giacometti (o, piuttosto, il suo rifiuto di ogni facile scorciatoia). Contemporaneamente, tuttavia, l’opera smitizza l’aura sacra che circondava l’artista già quand’era ancora vivente (e continua anche oggi ad alimentare molti dei discorsi a lui dedicati). Il capitolo finale del libro, ‘A Sort of Silence’ mostra un Sylvester che rivaluta in termini sostanziali l’opera e il significato di Giacometti, e deriva la sua forza dall’austerità con cui questo cambiamento è descritto. In una recensione al volume, il critico Tom Lubbock ha sostenuto che, avendo cambiato il suo modo di intendere Giacometti, Sylvester avrebbe dovuto riscrivere l’opera a partire da questa nuova prospettiva. Io credo che la forza della parte conclusiva del libro derivi proprio da ciò che è stato detto prima. Per questo motivo, come testimonianza del modo di guardare all’arte in maniera intensa e sincera per un lungo periodo di tempo, Looking at Giacometti ha pochi eguali. 

Fra l’inizio e il completamento del libro su Giacometti Sylvester aveva curato il catalogo ragionato di Magritte, il progetto più importante della parte finale della sua carriera. Il fatto che il critico si sia cimentato con Magritte fu sorprendente perché gli inespressivi giochi semantici dell’artista e la tenacia con cui sosteneva che le riproduzioni delle sue immagini avevano lo stesso valore degli originali andavano contro l’amore di Sylvester per i dipinti come oggetti e contro il suo disprezzo nei confronti dell’arte concettuale (una tipica dimostrazione di tale disprezzo fu la sua tesi secondo cui Duchamp non era ‘un vero artista, come Picasso e Matisse, ma un genio che giocava a o con l’arte, un po’ come Leonardo nei confronti di Michelangelo e Raffaello’) [29].

Fig. 12) René Magritte, Il figlio dell'uomo, 1964, collezione privata

Il lavoro di Sylvester su Magritte dimostra due aspetti cruciali in merito alla sua carriera. Innanzi tutto la sua abilità, nonostante la mancanza di una qualsiasi formazione universitaria come storico dell’arte, nel sovraintendere a un catalogo ragionato superbamente completo (e di aspetto amichevole); soprattutto se si pensa che Magritte era un artista che, amando dipingere varie versioni delle sue immagini ed essendo incline a mentire sulle date delle opere che aveva prodotto, rappresentava una sfida formidabile per gli studiosi della sua opera. In secondo luogo l’approccio di Sylvester a Magritte dimostra la sostanziale continuità del suo modo di rapportarsi agli artisti. In maniera semplicistica si potrebbe descrivere Sylvester come un formalista (e c’è chi l’ha fatto, forse implicitamente ponendolo in dicotomia con approcci più sensibili al sociale) [30]. Un termine migliore (ma poco felice) per descrivere il suo modo di scrivere è ‘individualista’. Detta semplicemente, gli scritti di Sylvester cercavano di comprendere la relazione tra l’opera d’arte e chi l’aveva fatta e il modo in cui l’opera risolveva le sfide poste dalle circostanze in cui veniva creata o le contraddizioni della personalità del suo artefice. In breve, il modo con cui un artista si mostrava attraverso la sua opera d’arte, qualcosa riassunto da Jasper John col termine ‘idea della pittura’ e ripreso in termini positivi da Sylvester come ‘non una dichiarazione deliberata, ma più forte di te… ciò che non puoi evitare di dire’. Tutto questo spiega perché Sylvester preferisse scrivere di artisti che conosceva e anche l’esiguità dei suoi testi relativi ad artefici del passato. Come il critico spiegò in una delle sue poche dichiarazioni sul suo approccio agli artisti:

Credo che se vi è un metodo nel mio lavoro, sia quello di tirar fuori le relazioni che esistono fra le intenzioni consapevoli e l’inconscio di un artista… Per natura non sono un grande storico, non sono bravo a proiettarmi nel passato. Penso di avere una maggiore capacità di comprendere come pensano le persone mie contemporanee. O almeno quelle che sono vissute dall’invenzione dello sciacquone dell’acqua in poi’ [31]

Magritte, secondo la visione proposta da Sylvester, è un esteta, un pittore di talento e una figura malinconica stressata dalle difficoltà che lo limitarono nella parte finale della sua vita [32]. Il critico ammise di aver enfatizzato le ‘frustrazioni, le difficoltà, le delusioni’ nella biografia di Magritte, specialmente il modo in cui, negli ultimi anni, fu costretto a dipingere diverse versioni dei suoi soggetti più noti, invece di sviluppare nuove idee. Sylvester voleva correggere quella che considerava essere una tendenza errata negli scritti sull’artista, che lo dipingeva come un ‘carattere abbastanza snob’, sul modello di Duchamp. Aveva invece intenzione di mettere in luce la relazione che esisteva fra le ‘intenzioni consce ed inconsce’ di Magritte come via per avvicinarsi a ciò che percepiva come gli impulsi che ne sostanziavano la pittura. Non lo vedeva lavorare per qualche motivo privato, ma come forma di gratitudine al potere trascendentale dell’arte (come faceva lo stesso Sylvester) e pensava che ‘lavorasse all’oscuro come ogni espressionista astratto finisce per fare’ [33].


Ulteriori ricerche

Ho studiato l’opera di Sylvester nel corso degli ultimi tre anni e scritto la prima monografia che copre complessivamente la sua produzione. Credo che le ricerche successive che indagheranno la sua carriera e il suo significato più in profondità e con maggior attenzione specifica dovrebbero seguire almeno uno fra due obiettivi. Il primo è la relazione che esiste fra Sylvester (e i suoi contemporanei) e lo sviluppo del mercato dell’arte con le sue strutture più importanti (collezionisti, gallerie, istituzioni). Si tratta di un aspetto che richiederebbe di essere indagato molto di più, posti i suoi stretti contatti con l’Arts Council ed altre istituzioni, con commercianti come Anthony d’Offay, con numerosi collezionisti (è stato definito ‘il più plutocratico arbitro del gusto dai tempi di Bernard Berenson’); senza tralasciare la sua stessa attività di collezionista (la sua collezione, quando fu messa all’asta nel 2002, realizzò più di 2,7 milioni di sterline) [34]. Penso che, mettendo da parte per un momento l’analisi delle idee e dello stile di pochi critici considerati di particolare interesse, e guardando invece alla funzione e all’impatto effettivi della critica d’arte in maniera più complessiva, si potrebbe arrivare a una comprensione più ampia e meno rigida di quest’ultima e si potrebbero avere grossi vantaggi impiegando i metodi delle digital humanities per porre in relazione grandi quantità di scritti di critica con molti altri dati (vendite di opere, affluenze alle mostre etc). Resto convinto, peraltro, che la migliore critica artistica, pur legata inevitabilmente al contesto immediato che la genera, vada oltre l’interesse puramente documentario perché in un certo senso supera il momento e il soggetto per cui è stata elaborata. 

La seconda area che considero meritevole di ulteriori approfondimenti è l’approccio di Sylvester alla scrittura d’arte, profondamente ancorato alle sue esperienze personali in tutta la loro imprevedibilità e con la ricchezza delle loro variazioni. Sono rimasto colpito, nel corso della mia ricerca, dalle somiglianze tra Sylvester e altri critici di periodi differenti e gusti chiaramente diversi, che, pure, condividono una particolare abilità e interesse nello scrivere, soprattutto, di esperienze estetiche. Questa potrebbe sembrare un’ovvietà, ma, per tornare a un punto già toccato in questo post, la letteratura sulla critica d’arte del XX secolo con cui mi sono relazionato pone complessivamente poca attenzione al modo con cui i critici hanno approcciato quest’obiettivo e ai risultati totalmente differenti che inevitabilmente derivano da due critici che raccontano cos’hanno visto. 

Per varie ragioni la mia tesi non ha fatto nessuna delle due cose, benché presenti elementi di entrambe. Guardando avanti, spero di poterne sviluppare una, o tutte e due, in successive ricerche. 


NOTE

[22] Varrebbe la pena fare anche un interessante confronto fra il recente libro di interviste di Jeff Koons con Norman Rosenthal (anch’esso presentato su questo blog) e le ultime interviste di Sylvester con Koons. 

[23] [N.d.t.: nell’originale ‘Bacon’s Boswell’. James Boswell (1740-1795), scrittore scozzese, è noto nel mondo inglese per la proverbiale amicizia che lo legò a Samuel Johnson, tanto che il suo nome è divenuto proverbialmente, nella lingua inglese, sinonimo di ‘fedele compagno’.] 

[24] Questo è l’aspetto del genere che la prassi delle interviste di Obrist, esaurienti e anticonvenzionali (ad esempio quando vengono rilasciate in luoghi strani) ha ulteriormente sviluppato.

[25] Alcuni stralci delle interviste non pubblicate nel libro sono apparsi successivamente in Looking Back at Francis Bacon (2000). Sylvester, in quell’occasione, fece un paragone con la preparazione di un film, scrivendo che, nel curare la veste finale delle interviste, aveva lasciato ‘una gran quantità di materiale buono sul pavimento della sala di montaggio’ (Looking Back at Francis Bacon, p. 8).

[26] ‘En tant qu’œuvre littéraire, cet ouvrage est ma création. J’en suis l’auteur au même titre que le cinéaste qui dirige un documentaire en est l’auteur’ (traduzione dell’autore). Lettera di Sylvester a Leiris, 3 April 1975, Ms 45172, Fonds Michel Leiris, Bibliothèque littéraire Jacques Doucet.

[27] In quel periodo Sylvester era rimasto fortemente impressionato dalle morbide sculture di Claes Oldenburg, che, in diversi punti del libro sembra mettere implicitamente a confronto con l’opera di Moore. 

[28] Sylvester, Looking at Giacometti, p. 9.

[29] TGA 200816/7/2/4.

[30] Si veda ad esempio la commemorazione funebre di Sylvester ad opera di Richard Shone, Burlington Magazine, Novembre 2001, pp. 695-6

[31] Intervista con Kustow, p.11. 

[32] Lettera di Sylvester a Harry Torczyner, 30 maggio 1992, TGA 200816/2/1/1137.

[33] TGA 200816/5/5/10.

[34] David Cohen, ‘The Golden Lion of English Artwriting: David Sylvester 1924-2001’, artcritical.com, 8 July 2001, http://www.artcritical.com/2001/07/08/david-sylvester/ [ultimo accesso 14 November 2016].

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