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lunedì 2 dicembre 2019

Dore Ashton. [Artisti del XX secolo che scrivono d'arte]. Parte Prima


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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Dore Ashton
Twentieth-Century Artists on Art 
[Artisti del XX secolo che scrivono d’arte]

New York, Pantheon Books, 1985, 302 pagine

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima


Fig. 1) La copertina della prima edizione inglese dell’antologia di Dore Ashton 

L’antologia di Dore Ashton e la letteratura artistica contemporanea negli Stati Uniti

Continuiamo la rassegna delle antologie di letteratura artistica con la recensione di un volume pubblicato dalla critica e storica d’arte americana Dore Ashton (1928-2017). È una raccolta di testi dedicata esclusivamente agli scritti di artisti del XX secolo [1]. L’opera uscì nel 1985 con un titolo (Twentieth-Century Artists on Art) intenzionalmente molto simile a quello della precedente antologia di Robert Goldwater (1907-1973) e Marco Treves (1902-1990), sempre pubblicata dall’editore Pantheon con l’intestazione Artists on Art, from the XIV to the XX century. Il risvolto di copertina colloca esplicitamente il lavoro in sostanziale continuità con il volume pubblicato quarant’anni prima.

Ashton era una delle studiose statunitensi più famose del modernismo in generale (il suo The Unknown Shore: A View of Contemporary Art comparve nel 1962) e, in particolare, dell’arte americana del dopoguerra. Fu autrice di fortunate monografie sulla New York School (The New York School: A Cultural Reckoning, 1973) e su molti esponenti dell’espressionismo astratto (Robert Motherwell, Mark Rothko, Philip Guston, Joseph Cornell e molti altri).

Fig. 2) Dore Ashton, La Scuola di New York: un giudizio critico. Da sinistra a destra: l’edizione del 1972 e del 1979, quella spagnola del 1988 e quella russa del 2016. L’edizione statunitense è stata oggetto di continue ristampe fino ad oggi. Non esiste una traduzione italiana.

La Ashton iniziò il suo lavoro nel 1955 come giornalista nella redazione artistica del New York Times. Sul maggior quotidiano della metropoli americana si schierò a favore degli artisti che vivevano l’avanguardia come espressione radicale di ribellione. Al termine di uno scontro con il nuovo direttore della sezione del giornale, John Canaday (1907-1985), che aveva invece avviato nel 1959 una campagna estremamente critica verso l’espressionismo astratto, la Ashton fu allontanata. Paradossalmente il suo licenziamento la legittimò come uno dei punti di riferimento per molti artisti newyorkesi di quegli anni. Da allora Ashton iniziò un’intensa attività di pubblicista su varie testate, insegnò presso scuole private d’arte di New York e pubblicò numerosi saggi e monografie. Nel campo della letteratura artistica, oltre alla presente antologia, la Ashton curò la pubblicazione di una raccolta di testi ricollegabili a Picasso (Picasso on Art: a selection of views, 1972).

Come si colloca l’antologia di fonti di storia dell’arte della Ashton nella storia di questo genere letterario? Come già sappiamo, è soprattutto negli Stati Uniti che questo tipo di pubblicazioni, avviato in Germania da studiosi che seguivano l’impostazione dello storicismo idealista, conobbe una nuova fortuna dopo la fuga dal vecchio continente di molti studiosi europei per sfuggire alle persecuzioni politiche e razziali.

Fig. 3) A sinistra: l’antologia Literary Sources of Art History. An Anthology of Texts from Theophile to Goethe di Elizabeth Gilmore Holt del 1947. Al centro: l’antologia Theories of Modern Art. A source Book of Artists and Critics di Herschel B. Chipp del 1968. Segue l’antologia Theories and Documents of Contemporary Art. A Source Book of Artists’ Writings di Kristine Stiles e Peter Selz, nella seconda edizione del 2012. Infine, a destra l’antologia Art in Theory 1900-1990. An Anthology of Changing Ideas, a cura di Charles Harrison e Paul Wood, qui nella prima versione del 1993 (la seconda edizione del 2002 è estesa al periodo 1990-2000).

Negli Stati Uniti si andarono in realtà dispiegando due differenti tradizioni antologiche.

La prima aveva origine nel lavoro di Elizabeth Gilmore Holt (1905-1987) intitolato Literary Sources of Art History. Si tratta un’opera di chiaro impianto filologico, basata sulla citazione di brani lunghi e relativamente poco numerosi, dove ogni artista (da Cennino Cennini a Goethe) viene sempre messo nel contesto di una scuola di pensiero. Per la Holt l’antologia era uno strumento per documentare lo sviluppo della teoria dell’arte. Quella linea fu proseguita a Berkeley da Herschel B. Chipp (1913-1992) con il suo Theories of Modern Art: A Source Book by Artists and Critics del 1968 e da ultimo da Kristine Stiles (1947-) e Peter Selz (1919-2019) con il loro Theories and documents of contemporary art: a sourcebook of artists' writings del 1995. Segnaliamo anche (sempre in ambito anglosassone) la pubblicazione nel 1992 di Art in Theory 1900-1990: An Anthology of Changing Ideas, a cura degli storici dell’arte britannici Charles Harrison (1942-2009) e Paul Wood (1949-).

Fig. 4) A sinistra: L’antologia Artists on Art di Goldwater e Treves nella prima edizione del 1945. A destra: L’antologia Painters on Painting di Eric Protter del 1963.

Dore Ashton aderì invece alla seconda tipologia antologica, quella inaugurata da Goldwater e Treves, basata sulla citazione di brani brevi e molto numerosi. I due autori in questione erano interessati a proporre stralci meno teorici, che descrivevano i meccanismi della creazione artistica, soprattutto dal punto di vista degli individui. Si collocò in questa tradizione anche Painters on Painting di Eric Protter (1927-) .

Chi seguiva la prima linea di pensiero era interessato al concetto di “art in context”, ovvero vedeva l’arte come l’espressione di una cultura che era espressione della società, dell’economia, della politica, come pure dei grandi movimenti di pensiero filosofico (ed estetico in particolare). Quel che ne derivava è spesso l’idea che gli artisti si differenzino tra di loro perché espressione di un contesto differente. Chi invece partecipava della seconda linea di pensiero voleva testimoniare come artisti assai simili in stile potessero essere molto diversi nelle loro motivazioni e, viceversa, artisti del tutto diversi nello stile potessero essere mossi da ragioni creative assai simili.

Un semplice paragone tra le due antologie di Chipp e della Ashton (ovvero tra le due raccolte di testi che compaiono tra 1969 e 1985 parlando entrambe di letteratura artistica contemporanea) rivela le differenze metodologiche. Chipp colloca i testi degli artisti all’interno di ampi capitoli dedicati a scuole e stili differenti e li contestualizza nella cultura della loro epoca. Inoltre studia i testi preoccupandosi di raccontarne la storia, di verificare l’esistenza di differenze tra diverse versioni e, infine, di analizzarne la fortuna critica. A tal fine egli prepara una bibliografia analitica che ricorda il manuale di Letteratura artistica di Julius von Schlosser (1866-1938). La Ashton colloca invece gli artisti in stile alfabetico, distinguendoli semplicemente per paese d’attività e periodo (in tre capitoli dedicati al 1900-1920, al 1920-1940 e al 1940 fino alla data di pubblicazione). Di regola, un solo, breve, stralcio è proposto per ognuno degli artisti. L’origine dei testi è menzionata, ma non è oggetto di commento.

Nell’antologia di Chipp sono inclusi soprattutto artisti americani e europei occidentali. Il critico tiene molto a spiegare la differenza d’impostazione tra le due rive dell’atlantico. Gli europei sono legati a teorie filosofiche (l’esistenzialismo) e politiche (il marxismo), gli americani invece sono fondamentalmente artisti che vivono in gruppo, nell’East Side di New York, ma non per questo hanno indirizzi comuni, né legami precisi con il mondo delle idee. La Ashton non sottolinea invece questi elementi di diversità (e, anzi, tratta Americani ed Europei come parte di un’unica comunità creatrice). In compenso, inserisce anche artisti sudamericani e dei paesi del blocco di Varsavia.

Ho notato che l’antologia di Chipp non è citata nella bibliografia della Ashton, né il nome compare nell’indice dei nomi. Ovviamente vi sono testi già inclusi nell’antologia di Chipp, ma la Ashton non lo dice mai. Insomma, vi sono tutti gli indizi per pensare a due opere ‘rivali’ e, in qualche modo, ‘alternative’.

A conclusione di questa sezione introduttiva, va aggiunto che tutto quanto detto non implica affatto che il testo della Ashton sia una raccolta disordinata che vuol soprattutto evidenziare atteggiamenti spontanei e istintivi. Cercheremo di evidenziare temi comuni nella raccolta dei testi. Uno degli aspetti più sorprendenti è comunque l’assenza nell’antologia di un qualsiasi riferimento ad Andy Warhol (1928-1987), che proprio negli anni in cui l’opera era in lavorazione era al culmine dalle propria popolarità. Non si può trattare di una semplice dimenticanza. Evidentemente vi era qualcosa nell’arte o nella personalità dell’artista che a Dore Ashton non piaceva. Vedremo che, in generale, la critica considera la pop art come una forma di decadenza rispetto alle esperienze precedenti.


I cinque maestri all’origine della letteratura artistica contemporanea

La Ashton spiega di non aver voluto inserire nella sua antologia artisti già compresi in quella di Goldwater e Treves per evitare inutili sovrapposizioni. Tuttavia fa un’eccezione per cinque artisti maggiori (Picasso, Matisse, Miró, Mondrian e Léger), a cui riserva un breve capitolo iniziale, slegato dalla struttura generale dell’antologia (lo intitola A Preliminary Section: Early Modern Masters in Statements after 1940) [2]. Di tutti e cinque propone scritti o dichiarazioni successive agli anni Quaranta. In questo modo questi ‘grandi’ non appaiono più come antenati sia pur prossimi, ma popolano la stessa scena degli artisti più giovani, accompagnandoli nel loro percorso.

Fig. 5) Tre edizioni di Picasso on Art di Dore Ashton (rispettivamente del 1972, 1977 e 1988)

Uno dei temi immediatamente presenti in questa sezione è quello della difficoltà, e forse dell’impossibilità, per un creatore d’arte, di comunicare in termini razionali la sua attività. “Io considero un’opera d’arte – scrive Pablo Picasso (1881-1973) nel 1955 – come il prodotto di calcoli, calcoli che sono spesso sconosciuti all’autore stesso. È esattamente il caso di un piccione viaggiatore, che calcola il suo ritorno in soffitta. Il calcolo che precede l’intelligenza. Ed è vero che abbiamo inventato la bussola e il radar, che permettono anche ad uno stupido di ritornare al loro punto di partenza… Altrimenti dobbiamo supporre, come disse Rimbaud, che sia il nostro doppio in noi che calcola[3]. La citazione è tratta dall’antologia Picasso on Art, curata (come si è già detto) dalla stessa Ashton.

Lungo la stessa linea è Henri Matisse (1896-1954). “Non posso dire nulla delle mie sensazioni sullo spazio che non sia già espresso nei miei quadri [4]. Sono parole del 1951. Matisse aggiunge: “Il segno con cui io creo un’immagine … vede la luce nel momento in cui lo uso e solamente per l’oggetto di cui deve formare una parte. Per questa ragione io non posso fissare in anticipo segni che non cambino mai, e che siano come scrivere: tutto ciò paralizzerebbe la libertà della mia invenzione” [5].

Le parole di Joan Miró (1893-1983) (si tratta della trascrizione di una sua intervista comparsa in un catalogo del 1963) hanno una fortissima carica emozionale : “Lo spettacolo del cielo ha su di me un effetto grandioso. Io sono sopraffatto quando vedo, in un cielo immenso, la luna  o il sole crescere. Vi sono, nei miei quadri, forme piccolissime in enormi spazi vuoti. Spazi vuoti, orizzonti vuoti, piani vuoti – ogni cosa che è spoglia ha sempre avuto un grande impatto su di me . (…) L’immobilità mi colpisce. Questa bottiglia, questo bicchiere, una grande pietra in una spiaggia deserta – queste sono cose che non si muovono, ma scatenano grandi movimenti nella mia mente. Io non provo le stesse sensazioni quando vedo un essere umano cambiare posizione continuamente in modo stupido” [6].

Un secondo tema, ovviamente differente, è quello della necessità per altri artisti di concepire la creazione come una costruzione razionale. Sarebbe però erroneo pensare che qui si faccia semplicemente riferimento alla differenza tra romantici figurativi e razionali costruttivisti. È Piet Mondrian (1872–1944) a spiegare come, a suo parere, quel che conta sia sempre capire se la nascita di un’opera d’arte avviene come risultato di un’intenzione compositiva sistematica oppure no. In altre parole, un quadro figurativo che risulti ben costruito è sempre migliore di una pittura astratta che non sia in grado di esprimere un’idea coerente. “La consapevolezza della necessità dell’astrazione nell’arte plastica si è sviluppata lentamente. In origine era praticata per effetto dell’intuito. Solamente dopo secoli di trasformazione sempre maggiore dell’aspetto naturale, l’astrazione è venuta alla luce in modo più chiaro, fino a quando infine le belle arti si sono liberate dalle caratteristiche particolari del soggetto e dell’oggetto. Questa liberazione è della massima importanza. Per le belle arti rivela che caratteristiche particolari contraddistinguono la pura espressione di forma, colore e dei loro rapporti. Nelle belle arti, forme e colore sono gli strumenti espressivi essenziali. Le loro proprietà e il loro rapporto reciproco determinano l’espressione generale di un’opera. L’astrazione non solamente stabilisce forma e colore in modo più oggettivo, ma rivela anche le loro proprietà in modo più chiaro. Possiamo dunque vedere che l’arte astratta, come pure l’arte figurativa, deve creare l’espressione generale attraverso la composizione. Grazie alla composizione e ad altri fattori plastici è possibile per un’opera d’arte figurativa avere un’espressione più universale di un’opera d’arte astratta che sia carente nell’uso rigoroso di tali fattori” [7].  Sono parole tratte da un catalogo newyorchese del 1941.

Fig. 6) A sinistra: la versione originale di Funzioni della pittura di Fernand Léger, pubblicata da Denoël et Gonthier nel 1975. Al centro, il testo statunitense pubblicato nel 1973 nella raccolta The Documents of 20th Century Art dalla Viking Press. A destra, l’edizione italiana pubblicata da Abscondita nel 2005.

È invece più forte l’avversione al figurativo in Fernand Léger (1881-1955): “L'impresa di imitare superbamente un muscolo, come ha fatto Michelangelo, o il volto, come Raffaello, non ha creato né progresso né gerarchia nell’arte. Questi artisti del sedicesimo secolo, per il semplice fatto di imitare forme umane, non erano superiori agli artisti dei periodi d’oro dell’arte egiziana, caldea, indocinese, romana e gotica che interpretavano e stilizzavano la forma, ma non la imitavano. Al contrario, l’arte consiste nell’inventare e non nel copiare. Il rinascimento italiano è un periodo di decadenza artistica. Questi uomini, privi dell’inventiva dei loro predecessori, pensavano di essere più forti degli imitatori – ma è falso. L’arte deve essere libera nella sua inventiva, ci deve elevare sopra ogni eccesso di realtà. È questo il suo fine, sia essa poesia o pittura” [8]. È una citazione del 1950 tratta dalla raccolta postuma di scritti Fonctions de la peinture del 1965, pubblicata negli Stati Uniti nel 1973. Questo è uno dei casi in cui l’antologizzatrice preferisce rifarsi a pubblicazioni di scritti invece che ad articoli sciolti o interviste in cataloghi o riviste. Va detto che, quelle scelte da Ashton, sono ancor oggi fra le frasi più famose di Léger.


La letteratura artistica tra 1900 e 1920.

I primi vent’anni del secolo sono condensati nelle citazioni di diciannove artisti d’avanguardia provenienti da nove paesi: Austria, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Russia, Svizzera e Stati Uniti. Tre sono donne: le russe Natalia Sergeevna Goncharova (Наталья Сергеевна Гончарова, 1881-1962) e Olga Vladimirovna Rozanova (Ольга Владимировна Розанова, 1886- 1918), a cui si aggiunge l’americana Georgia O'Keeffe (1887-1986). Tra i diciannove artisti due sono scultori (Ernst Barlach 1870-1938 e Jacques Lipchitz (1891-1973). Se è vero che tutti gli artisti inclusi nella sezione sono attivi nella primissima parte del secolo, alcuni dei brani sono tuttavia realizzati molto dopo, tra gli anni Quaranta e i Sessanta; assolvono quindi a una visione autobiografica, ma (ovviamente) retrospettiva. A seconda delle situazioni, insomma, gli scritti assolvono la doppia funzione di documentare l’azione degli artisti nel presente e di discuterla in una prospettiva storica.

La creazione artistica è concepita da alcuni artefici come momento primario e misterioso. Egon Schiele (1890-1918) lo afferma nel 1910 in una lettera al collezionista Oskar Reichel (1869-1943), che ritrae quell’anno in un acquarello conservato a New York. “Vi è stato, vi è e sempre vi sarà uno spirito vitale vecchio o nuovo, che vuole e deve proseguire oppure vuole e deve creare, sempre a partire da qualcosa, da commistioni; è la grande e vera madre di tutto, di ogni cosa simile eppure separata, che vuole e in tal modo era, è e sarà; che sempre trae origine da questi nostri mezzi eterni, in modo da creare gli esseri umani, gli animali, le piante più diverse, e le creature viventi in generale; non appena si presenta la materia, esattamente in quel momento si rivela la volontà comune del mondo di esistere” [9].

Non molto diversa è la lettura della creazione artistica da parte del pittore statunitense Arthur Garfield Dove (1880-1946). In uno stralcio di una lettera autobiografica ‘precedente al 1920’, inviata al gallerista Samuel M. Kootz e pubblicata da costui con data (non corretta) 1930, l’artista identifica il momento creativo in questi termini: “Sentire che il «primo flash» di un’idea le conferisce la sensazione più vivida; che io adesso – in alcune delle mie pitture  –  sto cercando di rendere lo spirito dell’idea nel momento in cui emerge. Sentire «l’intonazione» di un’idea come uno sentirebbe una campana. Non è una regola né un metodo, ma lascia l’immaginazione libera di lavorare in tutte le direzioni e con tutte le dimensioni che sono o possono essere state realizzate” [10].

Fig. 7) A sinistra, l’antologia di scritti espressionisti di Victor Meisel del 1972. Al centro, l’autobiografia Ein selbsterzähltes Leben (Una vita raccontata da se stesso) di Barlach del 1928. A destra una selezione delle proprie lettere del 1947.

Il motivo mistico è molto forte anche negli scritti dello scultore Ernst Barlach del 1906. “Semplicemente dimostrare come ogni cosa sia mistica è futile, dal momento che ricorda solo al pubblico che deve continuare a vivere in questo mondo desolato. Ma quando l’artista dà una forma sensoriale all’elemento mistico in modo tale che divenga intimamente familiare egli eleva in tal modo l’osservatore al di sopra di ciò che è convenzionale e lo pone nel regno dell’infinito” [11]. Il passo dei diari dello scultore tedesco è citato da un’antologia inglese di scritti espressionisti compilata da Victor Meisel del 1972. Di Barlach esistono in tedesco un’autobiografia già dal 1928, intitolata Ernst Barlach, ein selbsterzähltes Leben (tradotta in inglese solamente nel 1990), i diari, un vasto carteggio e molti testi di prosa e teatro come drammaturgo.

Alcuni degli artisti rimangono ribelli anche in età avanzata. Oskar Kokoschka (1886-1980) ha sessantadue anni quanto scrive nel 1948 una lettera a James S. Plaut (1912-1996), critico d’arte e direttore dell’Institute of Contemporary Art (ICA) di Boston, una delle istituzioni che diffonde gli espressionisti europei oltre oceano: “Mi considero responsabile non nei confronti della società, che detta moda e gusto sulla base del proprio ambiente e del suo periodo, ma in relazione ai giovani, alle future generazioni, che sono abbandonate in un mondo intossicato, senza potersi rendere conto di come la loro anima possa tremare di paura davanti al mistero della vita” [12].

Fig. 8) A sinistra, l’antologia di testi e critiche d’arte russa d’avanguardia del 1976, pubblicata nella collana I documenti d’arte del XX secolo della Viking Press. A destra, l’ultima edizione del 2018 della Thames and Hudson

Vi sono ovviamente autori che sono dominati dall’elemento razionale, o addirittura attribuiscono agli artisti una capacità superiore di conoscenza della realtà. Michail Fëdorovič Larionov (Михаил Фёдорович Ларионов 1881-1964), teorico del raggismo, scrive nel 1914: “Tuttavia, tra quelle forme che il nostro occhio mette a fuoco, esiste un'intersezione reale e innegabile di raggi che provengono da varie forme. Queste interazioni costituiscono nuove forme immateriali che l'occhio del pittore può vedere. Quando i raggi di oggetti diversi s’incontrano, nello spazio vengono creati nuovi oggetti immateriali. Il rayonismo è la pittura di queste forme immateriali, di questi infiniti prodotti con cui l'intero spazio viene riempito.” [13]. Il brano è tratto da un’antologia inglese di scritti d’arte dei rappresentanti dell’avanguardia russa (Russian Art of the Avant-garde: Theory and Criticism, 1902-1934) a cura dello storico dell’arte britannico John E. Bowlt (1976).

Fig. 9) A sinistra: Il catalogo della Decima esibizione di Stato a Mosca (1919). Fonte: https://monoskop.org/Tenth_State_Exhibition_(1919)#/media/File:Bespredmetnoe_tvorchestvo_i_suprematizm_1919.jpg.
 A destra, la raccolta di Scritti d’arte 1915-1933 di Malevič, curata da Troels Andersen e pubblicata da Rapp and Whiting a Londra nel 1969.

Secondo Kasimir Malevič (Казимир Северинович Малевич 1878-1935) – che scrive nel 1919 nel catalogo della Decima esibizione di Stato, un importante evento nella Mosca post-rivoluzionaria che segna la divaricazione tra suprematismo e costruttivismo – la creazione artistica è al tempo stesso attività prettamente filosofica e decorativa. “Il sistema è costruito sulla base di tempo e spazio, indipendentemente da ogni criterio di bellezza e qualsiasi esperienza o atteggiamento estetici: è in realtà un sistema filosofico di colore al fine di realizzare gli ultimi risultati delle mie idee, come strumento di conoscenza. (…) In una delle sue fasi il suprematismo si è stabilito – grazie al colore – come puro movimento filosofico, e in una seconda fase – come forma che può essere applicata – ha formato un nuovo stile di decorazione suprematista” [14]. La traduzione inglese del testo è inclusa nella raccolta di Essays on art di Malevic, pubblicata nel 1969.

In altri casi quel che caratterizza l’artista è la sua capacità di distacco e apatia, come manifestazione stoica (e dunque superiore) di intelligenza delle cose. È il caso anche di artisti conosciuti per il loro atteggiamento completamente dissacrante, come Marcel Duchamp (1887-1968), qui citato da una conferenza  al MoMa di New York nel 1961. “È intorno a quest’epoca [nota dell’editore: 1915] che la parola «readymade» mi venne in mente per designare questa forma di manifestazione. Un punto che vorrei davvero chiarire è che la scelta di questi «readymade» non è mai stata dettata da una forma di piacere estetico. Questa scelta si basava su una reazione di indifferenza visiva al tempo stesso abbinata a una totale assenza di buono o cattivo gusto… in realtà una vera e propria anestesia” [15].

Fig. 10) Le memorie di Jacques Lipchitz, pubblicate a cura di Harvard H. Arnason nella collana I documenti d’arte del XX secolo della Viking Press, nella prima edizione del 1972 e nella più recente del 2019.

Appartiene al campo degli artisti che si affidano a solide categorie concettuali lo scultore cubista Jacques Lipchitz. Quest’ultimo commenta il passaggio da uno stile basato sulle curve a uno più geometrico e, infine, cubista nelle sue memorie My life in sculpture, firmate insieme allo storico dell’arte Harvard H. Arnason (1909-1986). “Forse la maggiore rivelazione che mi ha portato in questa direzione [nota dell’editore: il cubismo] è stata l’importanza della luce per la scultura. Ho improvvisamente scoperto che il volume nella scultura è creato dalla luce e dall’ombra. Il volume è luce. In una scultura uniformemente arrotondata o curvilinea la luce sfugge sulla superficie e può persino diminuire o distruggere il senso del volume, il senso della terza dimensione. Quando le forme della scultura sono angolari, quando la superficie è rotta da profonde penetrazioni e contrasti, la luce può funzionare per esaltare le qualità veramente proprie della scultura [16].


La letteratura artistica tra 1920 e 1940.

Il periodo ‘eroico’ delle prime avanguardie di inizio secolo viene seguito, nei vent’anni seguenti, da una fase particolarmente complessa, segnata da una svolta moderata subito dopo la Prima guerra mondiale in tutta Europa, ispirata al recupero di forme d’arte d’ispirazione classica (il cosiddetto ‘ritorno all’ordine’) e dall’affermarsi – negli anni seguenti – di moduli figurativi neo-imperiali tipici dei regimi totalitari, soprattutto in Italia ed in Russia. Quella del ritorno all’ordine (soprattutto la cosiddetta École de Paris in Francia, il Realismo magico e l’Arte metafisica in Italia e la Nuova oggettività in Germania) è l’arte celebrata negli scritti selezionati nelle due antologie parallele di Paul Westheim e di Florent Fels del 1925. Nella raccolta di Dore Ashton, invece, ad aver spazio sono gli scritti di 48 artisti di tredici diverse nazionalità, da cui nasce il primo impulso verso forme d’arte astratta, compresi i dada, i surrealisti e i costruttivisti. Come contraltare agli astratti viene presa in considerazione anche la seconda generazione di espressionisti e fauvisti. Ogni forma d’arte contemporanea conforme a criteri di classicità è invece ignorata.

Nell’antologia di Fels, ad esempio, si trovavano scritti di artisti come Othon Friesz (1879-1949), Moïse Kisling (1891-1953), André Lhote (1885-1962), Jules Pascin (1885-1930), Georges Rouault (1871-1958), André Dunoyer de Segonzac (1884-1974) e Maurice de Vlaminck (1876-1958). Nessuno di questi è presente in Twentieth Century Artists on Art. Quanto all’Italia, tra gli artisti citati dalla Ashton non c’è Giorgio de Chirico (1888-1978), i cui scritti teorici sono invece ampiamente riportati nell’antologia di Chipp. L’Italia è rappresentata da Osvaldo Licini (1894-1958), Alberto Magnelli (1888-1971), Marino Marini (1901-1980) e Giorgio Morandi (1890-1964). Nessuno di questi ultimi quattro artisti, viceversa, era stato inserito nell’antologia di Chipp. È insomma confermato che ogni raccolta antologica codifica un’idea diversa dell’arte contemporanea.

Quanto agli artisti scelti dalla Ashton, a fianco degli Stati Uniti emerge il ruolo dell’arte latino-americana (con Messico e Uruguay). Tra gli stati europei compaiono nuovi nomi di nazioni (Grecia, Polonia, Svezia). Oltre alla pittura, la scultura gioca un ruolo importante con scritti di nove artisti, quasi tutti astratti: Constantin Brâncuși (1876-1957), Alexander Calder (1898-1976), Joseph Cornell (1903-1972), Naum Gabo (Наум Габо 1890-1977), Alberto Giacometti (1901-1966), Julio González (1876-1942), Henry Moore (1898-1986), Vladimir Evgrafovič Tatlin (Владимир Евграфович Татлин - 1885-1953) e Georges Vantongerloo (1886-1965). Limitata a un solo caso la presenza femminile fra i 48 artisti (Käthe Kollwitz 1867-1945).

Fig. 11) A sinistra: la traduzione americana di Beyond Painting di Max Ernst (1948). A destra: l’intervista di Giacometti Perché sono scultore, pubblicata sul numero 873 di Arts (13 giugno 1962)

Uno degli aspetti contraddittori della letteratura artistica contemporanea è che essa – sia pur per ragioni diverse – spesso finisce per sancire in forma scritta l’impossibilità di spiegare razionalmente la produzione artistica. La creazione artistica è un atto passivo, secondo Max Ernst (che celebra nel suo testo teorico Beyond Painting, pubblicato negli Stati Uniti nel 1948, le implicazioni dell’impiego della tecnica del frottage): Così come il ruolo del poeta, dall’epoca della famosa lettre de voyant di Rimbaud, consiste nello scrivere secondo i dettati di ciò che in lui si articola, anche il ruolo del pittore è di intuire e progettare quel che egli vede in se stesso. Trovandomi sempre più assorto in questa attività (passiva) che è poi divenuta una ‘paranoia critica” e adattandola ai mezzi tecnici della pittura (…), sono pervenuto ad assistere come spettatore alla nascita di tutti i miei lavori (…)[17]. Con il frottage, la creazione diviene un risultato psichico automatico.

Fig. 12) A sinistra: la recente pubblicazione dei testi della serie Merz di Kurt Schwitters (quarto volume dell’edizione di tutti gli scritti pubblicati dall’editore De Gruyter a cura di Ursula Kocher edIsabel Schulz). A destra: alcuni numeri della rivista ABC Beiträge zum Bauen tra 1924 e 1928. Fonte: https://shop.berlinbook.com/images/product_images/thumbnail_images/22729ab_2.jpg

Secondo il dadaista Kurt Schwitters (1887-1948) scrivere d’arte ha una funzione esclusivamente enigmatica, evocativa, basata sull’impiego di parole inventate che appartengono esse stesse al momento della creazione. Egli attribuisce infatti casualmente alla parola merz, (un termine inventato in un tedesco ‘maccheronico’), la capacità di esprimere la natura dell’opera d’arte. "Ho chiamato il mio nuovo modo di creare con qualsiasi materiale «merz». Questa è la seconda sillaba di "Kommerz" (commercio). Il nome deriva da "Merzbild", un'immagine in cui la parola Merz compariva al centro di forme astratte" [18]. Sono parole del 1927, tratte dal catalogo “Merz 20”. Tradurre l’atto creativo in un processo verbale ha qui un valore emulativo, ma non offre certo elementi esegetici. Simile (ma più complesso) è il meccanismo attraverso il quale il suprematista russo El Lissitzky (Ла́зарь Ма́ркович Лиси́цкий – 1890-1941) decide di chiamare le proprie opere “Proun” (Проун), un’abbreviazione che di per sé non vuol dire nulla, ma a cui l’artista dà valore generale: “Il mio obiettivo - e questo non è solo il mio obiettivo, questo è il significato della nuova arte - non è quello di rappresentare, ma di formare qualcosa di indipendente da qualsiasi fattore condizionante. A questo ho dato il nome indipendente Proun. Quando la sua vita sarà compiuta e si sdraierà dolcemente nella tomba della storia dell'arte, solo allora questa idea sarà stata definita” [19].  Lo scritto di El Lissitzky compare in tedesco a Basilea nel 1925, sulla rivista ABC Beiträge zum Bauen (ABC Contributi alla costruzione), la cui completa traduzione in inglese risale al 1993.

Anche per Alberto Giacometti – in linea con la filosofia esistenzialista – la creazione non può essere tradotta in parola; essa si esaurisce nella creazione di un oggetto (l’opera d’arte) quanto più simile al soggetto (l’idea dell’artista): “Non si potrebbe esprimere a parole ciò che si prova con i propri occhi e con le proprie mani. Le parole corrompono i pensieri, la scrittura distorce le parole: non ci si riconosce più. Non credo nel problema dello spazio; lo spazio è creato esclusivamente dagli oggetti; un oggetto che si muove senza alcuna relazione con un altro oggetto non può dare l'impressione di spazio. Solamente il soggetto dell’opera. Spazio, forme, tela, gesso, bronzo... tanti mezzi. L'unica cosa importante è creare un nuovo oggetto che trasmetta un'impressione la più vicina possibile a quella ricevuta quando si contempla il soggetto” [20]. Sono parole tratte da un’intervista ad André Parinaud intitolata Perché io sono scultore e pubblicata nel 1962 in occasione di una sua importante presenza alla Biennale di Venezia, con una mostra a lui dedicata. Giacometti ci tiene a chiarire che il suo perseverare nel campo dell’arte figurativa non rende per nulla più semplice il suo processo creativo.

Fig. 13) La collezione di interviste Dialoghi sull’arte di Edouard Roditi del 1960, pubblicata da Secker and Warburg nel 1960.

Un messaggio simile trapela da un estratto di un’intervista a Giorgio Morandi (1890-1964). La pagina è tratta da Dialogues in Art (1960), una raccolta di interviste dello scrittore e critico d’arte americano Edouard Roditi (1910-1992) a dodici artisti europei. Morandi afferma: ”Nulla mi è più estraneo di un’arte che si basi sul servire altri fini di quelli implicati dall’opera d’arte in se stessa. … Io credo che nulla possa essere più astratto, più irreale di quello che in realtà vediamo. Noi sappiamo che tutto quel che vediamo del mondo degli oggetti, come esseri umani, non esiste mai come lo vediamo e intendiamo. La sostanza esiste, ovviamente, ma non ha alcun significato proprio, e nessuno dei significati che ad essa attribuiamo. Possiamo solo sapere che una tazza è una tazza, e un albero un albero” [21].

Fig. 14) Il saggio di Suzi Gablik su René Magritte, nella versione originale del 1970 (in alto a sinistra) e in numerose edizioni in inglese, francese, italiano e tedesco nei quindici anni successivi

Magritte – in uno scritto del 1959 citato da Suzi Gablik nella sua fortunata monografia statunitense sul pittore belga del 1970, poi pubblicata in varie lingue – avverte il lettore di non cercare conforto in soluzioni culturalmente troppo facili: sbaglia, ad esempio, chiunque lo consideri pittore simbolista. “Le immagini devono essere viste così come sono. Inoltre, la mia pittura non implica la supremazia dell'invisibile sul visibile. (...) La parola sogno è spesso usata in modo improprio per quanto riguarda la mia pittura. Desideriamo certamente che il regno dei sogni sia rispettabile, ma le nostre opere non sono oniriche” [22].


Fig. 15) Il primo numero della rivista polacca costruttivista Blok nel 1924, diretta da Henryk Stażewski (Fonte: https://jbc.bj.uj.edu.pl/dlibra/publication/92554/edition/85906/content?format_id=1).

La tradizione razionalista di Léger viene continuata dal pittore costruttivista franco-polacco Henryk Berlewi (1894-1967), almeno negli anni giovanili (diverrà poi pittore figurativo). Il suo testo sulla cosiddetta Meccano-struttura è del 1923 (compare in un catalogo tedesco del 1976 sul costruttivismo in Polonia): “Tuttavia, la vecchia tecnica non è più adeguata ai principi dell'arte di oggi. Essi possono essere riassunti come segue: la fine di ogni imitazione (anche la più libera) degli oggetti, l’autonomia delle forme, la disciplina nel senso più ampio del termine, la chiarezza che consente a tutti di cogliere l'intenzione dell'artista, lo schematismo, la geometria, la precisione che facilita a tutti l'ordinamento delle impressioni ottenute dall'opera in questione” [23]. Simili scritti strutturalisti sono proposti per i pittori polacchi Henryk Stażewski (1894-1988), il creatore della rivista Blok, e Władysław Strzemiński (1893-1952). Del primo viene presentata una dichiarazione molto tarda del 1982 (ha ormai ottantotto anni), del secondo una molto precoce, del 1923. I costruttivisti russi Aleksandr Michajlovič Rodčenko (Александр Михайлович Родченко – 1891-1956) e Vladimir Evgrafovič Tatlin (Владимир Евграфович Татлин,- 1885- 1953) sono presenti con testi del 1934 il primo e del 1932 il secondo.

Fig. 16) A sinistra: La rivista L’Esprit Nouveau del 1921. A destra: la traduzione americana (1947) della monografia su Gris di Daniel-Heinrich Kahnweiler, originariamente pubblicata in tedesco nel 1929.

A volta, invece, gli artisti astratti hanno un’anima più semplice e ispirata, come provano le parole dello scultore Julio Gonzalez, tratte dal catalogo della mostra itinerante Sculpture of the twentieth century a cura del critico e curatore Andrew C. Ritchie (1907-1978), tenutasi a Philadelphia, Chicago e New York nel 1952-1953: “Nell’inquietudine della notte le stelle sembrano mostrarci nel cielo punti di speranza; questa guglia immobile ce ne indica un numero infinito. Sono questi punti nell'infinito che sono i precursori della nuova arte: disegnare nello spazio” [24].  Juan Gris aggiunge: “Lavoro con gli elementi dell'intelletto, con l'immaginazione. Cerco di concretizzare ciò che è astratto. Procedo dal generale al particolare, intendendo iniziare da un'astrazione per arrivare a un fatto vero. La mia è un'arte di sintesi, di deduzione” [25].  Sono parole del 1921, pubblicate nella rivista L’Esprit Nouveau e diffuse nel mondo inglese dopo la guerra, con la traduzione in inglese della monografia su Gris di Daniel-Heinrich Kahnweiler (1884-1979). Il saggio di Kahnweiler, originariamente in tedesco (1929), compare sul mercato americano nel 1947.


Fig. 17) A sinistra: l’antologia The Painter’s Object, a cura di Myfanwy Evans (1937) A destra: il numero speciale 119-121 della rivista Cimaise dedicato a Hans Hartung (settembre-dicembre 1974)

Il pittore astratto francese Jean Hélion afferma nel 1937: “Io intendo l’arte astratta come un tentativo di nutrire l’immaginazione con un mondo creato grazie alle sensazioni di base degli occhi” [26] (è una citazione da The Painter's Object, un’antologia di scritti di venti artisti astratti a cura della critica d’arte britannica Myfanwy Evans (1911-1997). Hans Hartung (1904-1989) aggiunge: “La prima cosa, e la più importante, è rimanere liberi, liberi in ogni linea che si intraprende, nelle proprie idee, nella propria azione politica e nella propria condotta morale. L'artista in particolare deve rimanere libero da ogni vincolo esterno. Tutto ciò che si sente profondamente deve essere espresso” [27]. L’affermazione è tratta non dall’autobiografia Autoritratto del 1976, mai pubblicata in inglese, ma da un’intervista della critica d’arte tedesca Heidi Bürklin, inserita in un numero speciale della rivista Cimaise del 1974.


Fig. 18) A sinistra: la raccolta statunitense di scritti Arp on Arp a cura di Marcel Jean (1972), nella collana Documenti del XX secolo della Viking. A destra, la monografia Derain pubblicata a Ginevra da Georges Hilaire nel 1959.

Per Jean Arp (1887-1966) fare arte è sempre una produzione fisica. L’artista crea un nuovo oggetto che ha vita propria, e non imita mai a realtà. “Non vogliamo copiare la natura. Noi non vogliamo riprodurre, noi vogliamo produrre. Vogliamo produrre come una pianta che produce un frutto, e non lo riproduce. Noi vogliamo produrre direttamente e non per via d’intermediazione” [28].  Si tratta di parole tratte da Abstract Art, Concrete Art, presentate anche nell’antologia di Chipp. Come si è già detto, la Ashton non lo cita da quella fonte,  ma da una successiva raccolta di scritti di Arp del 1972 (Arp on Arp: Poems, Essays, Memories) della casa editrice Viking a cura dello storico dell’arte surrealista Marcel Jean (1900-1993). La posizione simmetricamente contraria è rappresentata da André Derain (1880-1954). “Tutto viene dalla natura e tutto lì ritorna... È impossibile produrre un'arte anteriore o esterna al reale... oppure si sta lavorando con povertà maggiore della realtà stessa ... il che è tipico dell'arte decadente” [29]. Sono dichiarazioni del pittore del 1939, presentate dal critico Georges Hilaire (1900-1976) in una monografia francofona del 1959.

Fig. 19) A sinistra: Il Manifesto realista di Naum Gabo e Antoine Pevsner del 1920 (Fonte: https://monoskop.org/File:Gabo_N_Pevsner_N_Realisticheskii_manifest_1920.jpg). A destra, il catalogo della mostra di Gabo a Londra del 1956, con saggi introduttivi di Herbert Read e Leslie Martin (Fonte: https://www.maggs.com/constructions-sculpture-paintings-drawings-engravings_217195.htm)

A fianco di artisti concentrati sul significato della creazione artistica come momento psicologico-personale, altri vedono in essa l’espressione di una cultura collettiva. Il costruttivista russo Naum Gabo – autore del Manifesto realista nel 1920 – spiega nel 1956 quanto il concetto di spazio, ovvero uno dei concetti fondamentali della scultura, dipenda non solamente dalla capacità di riflessione dei singoli, ma anche da convincimenti collettivi: "Le vere fonti della concezione dello spazio nella scultura devono essere ricercate nell'intero stato del nostro sviluppo intellettuale e del pensiero collettivo del nostro tempo" [30]. Sono parole tratte da un catalogo curato da Herbert Read (1893–1968) e Leslie Martin (1908-1999).

Altri attribuiscono alla creazione un vero e proprio significato politico, anche se tale aspetto può trasparire semplicemente come effetto subliminale: secondo László Moholy-Nagy (1895-1946) “il cosiddetto approccio "non politico" all'arte è una credenza erronea. Qui si parla di politica non nella sua connotazione partigiana, ma come un modo per realizzare idee a beneficio della comunità. Tale Weltanschuung si trasforma, nelle arti, in una forma organizzata, che viene percepita attraverso gli strumenti concreti dei diversi modi di espressione. Questo contenuto può essere generalmente compreso direttamente, a livello subliminale, senza un processo di pensiero cosciente [31].

Per l’inglese William Coldstream (1908-1987) – citato in un saggio di R. S. Lambert del 1938 sull’arte inglese – il compito dell’artista moderno non può essere quello dell’astrazione da una realtà di desolazione e oppressione: “La crisi mi ha reso consapevole dei problemi sociali e mi sono convinto che l'arte debba dirigersi verso un pubblico più vasto; mentre tutte le idee che ho imparato a considerare artisticamente rivoluzionarie correvano nella direzione opposta. Mi è sembrato importante che le comunicazioni interrotte tra l'artista e il pubblico fossero ristabilite e ciò probabilmente implicava un movimento verso il realismo” [32]. Dunque l’artista ha il dovere di cercare di rafforzare il tessuto sociale.

Fig. 20) A sinistra: la locandina del primo American Artists Congress (1936). A destra: l’edizione originale tedesca dei Principi delle nuove belle arti di Theo van Doesburg (1925)

Per il muralista rivoluzionario messicano David Alfaro Siqueiros (1896-1974) – che parla al First American Artists Congress nel 1936 - l’arte è per sé politica. L’AAC è un’organizzazione del partito comunista degli Stati Uniti. Il muralista crede che, in termini iconografici, occorra sostituire al modelli europei un’estetica ‘nazionalista’, che nel caso messicano significa riscoprire la tradizione precolombiana e il folclore [33]. Del tutto opposta l’idea del costruttivista olandese Theo van Doesburg (1883-1931). Per lui l’arte deve essere politica e sovrannazionale: “Gli artisti progressisti olandesi hanno adottato fin dal principio un punto di vista internazionale. Anche durante la guerra ... il punto di vista internazionale era uno sviluppo naturale del nostro stesso lavoro. Ovvero, si è sviluppato come risultato della pratica. Necessità simili sono nate dallo sviluppo di... artisti progressisti in altri paesi” [34]. Si tratta di uno stralcio da uno scritto del 1925 (Grundbegriffe der neuen Kunst), pubblicato dall’artista in tedesco per il Bauhaus  e disponibile integralmente in inglese dal 1969.

Di valore politico, seppure solo implicito, è anche l’identificazione di modelli di riferimento diversi da quelli della storia dell’arte ‘canonica’: si vuole abbandonare la narrazione ottocentesca, nata nelle università e nei musei per perseguire obiettivi oggettivi di ‘normalizzazione’ educativa dell’opinione pubblica, spesso per fini nazionalisti. Lo scultore astratto Henry Moore (1898-1986) celebra nel 1941 (in una dichiarazione al settimanale The Listener, edito dalla BBC) il valore dell’arte ‘primitiva’: “La qualità più sorprendente tra quelle comuni a tutta l'arte primitiva è la sua intensa vitalità. Nasce come risposta diretta e immediata delle persone alla vita. Per loro scultura e pittura non sono un'attività di calcolo o accademismo, ma un canale per esprimere potenti convinzioni, speranze e paure. È arte prima di essere soffocata da rifiniture e decorazioni, prima che l'ispirazione si trasformi in trucchi tecnici e idee intellettuali. Ma a parte il suo valore duraturo, la sua conoscenza permette un apprezzamento più pieno e più vero degli sviluppi successivi dei cosiddetti grandi periodi e mostra l'arte come un'attività universale svolta in continuazione tra passato e presente” [35].

Fig. 21) A sinistra: il numero di maggio della rivista newyorkese Creative art. A destra: il volume Letters on the New Art di Charles Joseph Biederman, autopubblicato nel 1951

Gli americani tra 1920 e 1940

Che dire, infine, dei nove artisti americani presenti nella sezione degli anni 1920-1940? Si tratta di Charles Joseph Biederman (1906-2004), Alexander Calder, Joseph Cornell, Stuart Davis (1892-1964), Charles Demuth (1883-1935), Burgoyne A. Diller (1906-1965), Philip Evergood (1901-1973), Ben Shahn (1898-1969) e Joseph Stella (1877-1946). Essi offrono un’immagine dell’arte americana tra le due guerre più ricca di quella di Chipp (nell’antologia di quest’ultimo sono compresi solamente testi di Calder e Davis).

È tuttavia singolare che Dore Ashton inserisca nella sezione testi in gran parte risalenti ad un’epoca successiva rispetto a quella analizzata. Solamente di Stella e Demuth vengono citate pagine che risalgono effettivamente ai vent'anni presi in considerazione. In entrambi i casi sono testi della prima parte del fatidico 1929, l’anno dello scoppio della crisi di borsa nel mese di ottobre. Di Demuth compare uno stralcio da un articolo comparso sul numero di maggio della rivista newyorkese Creative Art. Lo scritto di Stella è invece tratto dal periodico Transition. An International Quarterly for Creative Experiment, una rivista letteraria trimestrale in inglese pubblicata tra Parigi e New York, fondata e diretta dallo scrittore pro-modernista Eugene Jolas (1894-1952). In realtà il testo manoscritto esiste già dagli anni Venti e circola tra poeti e scrittori modernisti per le sue qualità letterarie. Tutti gli altri artisti sono presenti con testi degli anni Quaranta-Cinquanta (Biederman  1951; Calder 1951 e 1958; Cornell 1946 e 1948; Davis 1943; Evergood 1946; Shahn 1957) e nel caso di Diller, del 1961. Per molti di loro (Calder, Cornell, Diller) si tratta di citazioni davvero brevi.

Si ha dunque l’impressione che l’antologizzatrice non voglia far mancare una sezione americana tra le due guerre ma, sia pur forse inconsapevolmente, certifichi l’assenza della letteratura artistica negli Stati Uniti tra le due guerre. O forse i testi americani di quegli anni non sono in linea con le sue preferenze estetiche. In ogni caso, sembrerebbe che gli artisti riescano a razionalizzare e mettere per iscritto le loro vedute estetiche solamente dopo molti anni.

Fig. 22) A sinistra: l’autobiografia di Stuart Davis, pubblicata all’American Artists Group nel 1945. A destra: il saggio La forma del contenuto di Ben Shan, comparso nel 1956

Come per Chipp, anche per la Ashton il più profondo tra gli artisti americani delle due guerre  si conferma Stuart Davis. Mentre Chipp si riferisce all’autobiografia del 1945, il passo citato dalla Ashton è però tratto da un suo articolo sul quindicinale ARTNews del febbraio del 1943, poi riprodotto in una monografia sull’artista del 1971 a cura di Diane Kelder, e ancora oggi studiato dagli specialisti [36]. L’artista spiega (e mi sembra importante, dato che è in corso la seconda guerra mondiale) che l’arte moderna ha l’obiettivo di riscoprire “l'umanità nella pittura, un servizio sociale essenziale che non può essere limitato da ragioni razziali o nazionali” [37]. Poi chiarisce che ogni forma d’arte d’avanguardia da lui praticata, sia negli Stati Uniti sia a Parigi, deve essere sempre intesa come rappresentazione della vita americana. “Nel mio caso, per molti anni mi è piaciuta la  scena dinamica americana e tutte le mie immagini (comprese quelle che ho dipinto a Parigi) hanno fatto riferimento a essa. Tutti i miei dipinti hanno il loro impulso originario nell'impatto dell'ambiente americano contemporaneo" [38].

Shahn è un muralista d’ispirazione politica. Nel suo saggio su La forma del contenuto parla del valore collettivo dell’arte: “Ho sempre creduto che il carattere di una società sia in gran parte modellato e unificato dalle sue grandi opere creative, che una società sia plasmata dalle sue epopee e che sia capace di esprimere immagini sulla base di quel che ha creato nel passato: le sue cattedrali, le sue opere d'arte, i suoi tesori musicali, il suo lavoro letterario e filosofico” [39]. Evergood adotta uno stile espressionista per denunciare la miseria degli anni della depressione, ma le sue parole dimostrano quanto in realtà egli voglia fare emergere sentimenti e personalità degli individui. Spiega nel 1946: “Sento che la ricerca di un artista dovrebbe rivolgersi verso la più ricca e piena delle esperienze umane e che essa debba cercare sia le manifestazioni visive che quelle trasmesse in modo intuitivo. Più l'artista entra in contatto con le qualità interiori delle persone, più capirà la vita e come egli stesso ad essa partecipi” [40].

Fig. 23) Il numero 16-17 della rivista Transition. An International Quarterly for Creative Experiment, in cui Joseph Stella pubblica l’articolo The Brooklyn Bridge (A Page of My Life). Fonte: https://biblio.co.uk/book/transition-international-quarterly-creative-experiment-number/d/1026338267

Tra gli astratti Stella mostra di avere uno stile di grande capacità emotiva. La sua descrizione delle emozioni vissute ammirando il ponte di Brooklyn è struggente e, al tempo stesso, sintomo di quanto l’artista possa essere travolto dai sentimenti al punto di perdere il filo di un racconto lineare: “Per molte notti sono rimasto sul ponte - e tutto solo nel mezzo - perduto - una preda indifesa della scura oscurità circostante, schiacciata dalla nera impenetrabilità di una montagna di grattacieli - qui e lì luci che assomigliavano a corpi astrali sospesi in caduta o a fantastici splendori di riti remoti - scosso dal tumulto sotterraneo dei treni in moto perpetuo. Come il sangue nelle arterie - a volte, squillando come allarme in una tempesta, la voce acuta e solforosa dei fili del tram - ora e poi strano gemito di richiamo dei rimorchiatori, indovinato più che visto, attraverso i recessi infernali sottostanti - Mi sento profondamente commosso, come sulla soglia di una nuova religione o in presenza di una nuova Divinità” [41]. La copertina del numero della rivista Transition in cui questo scritto è pubblicato cerca di trasmettere, tramite la fotografia, il medesimo sentimento dello scritto di Stella: la sottomissione a un mondo di grattacieli giganti, ormai vero totem di una nuova religione.

Biedermann chiarisce invece di essersi liberato da ogni bisogno di rivelare il mondo interiore dell’artista, abbandonando ogni necessità mimetica della natura e cercando anzi in essa elementi di carattere strutturale, grazie allo studio in profondità dell’arte di Monet-Cézanne. Negli anni Cinquanta spiega le ragioni del costruttivismo in maniera concettualmente simile a quelle degli artisti russi e polacchi degli anni Venti e Trenta. “La nuova arte che propongo, in linea con Monet-Cézanne, agisce in modo molto opposto. Cioè, non ‘riduce’, ma estende l'evoluzione passata dell'arte umana cessando qualsiasi forma di imitazione di ciò che la natura ha già creato, smettendo di imitare la luce come in pittura e abbandonando la nozione limitata di forma come in scultura. La nuova arte libera l'artista e gli permette di creare la propria arte in tutte le dimensioni della realtà spaziale. L'artista è libero dal condizionamento verso le creazioni biologiche della natura e può adoperare ciò che è adatto in modo speciale alla creazione umana: la struttura geometrica” [42]. Infine anche Calder offre – a vent’anni di distanza – un’interpretazione strutturalista dei propri modelli sospesi degli anni Trenta: “Il senso della forma sottostante il mio lavoro è il sistema dell'universo, o parte di esso. Per questo è un modello piuttosto grande da cui cominciare a lavorare” [43].

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NOTE

[1] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art, New York, Pantheon Books, 1985, 302 pagine. Il libro è consultabile all’indirizzo https://archive.org/details/twentiethcentury0000asht.

[2] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.3-13.

[3] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.4.

[4] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.7.

[5] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.7.

[6] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.9.

[7] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.11.

[8] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.13.

[9] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.18-19.

[10] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.41.

[11] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.26.

[12] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.17.

[13] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.35.

[14] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.37.

[15] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.21.

[16] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.22-23.

[17] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.55.

[18] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.71.

[19] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.90.

[20] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.57.

[21] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.79-80.

[22] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.47.

[23] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.86.

[24] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.58.

[25] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.59.

[26] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.61.

[27] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.60.

[28] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.50.

[29] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.54.

[30] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.89.

[31] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.68.

[32] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.72.

[33] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.81.

[34] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.83.

[35] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.73.

[36] Il testo è disponibile sull’internet all’indirizzo
  http://www.artnet.com/usernet/awc/awc_historyview_details.asp?aid=424974671&awc_id=41831&info_type_id=5.

[37] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.98.

[38] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.99.

[39] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.104.

[40] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.103.

[41] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.105.

[42] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.95.

[43] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.96. 


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