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Storia delle antologie di letteratura artistica
Cliccate qui per vedere tutte le antologie recensite
Dore Ashton
Twentieth-Century Artists on Art
Storia delle antologie di letteratura artistica
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Dore Ashton
Twentieth-Century Artists on Art
[Artisti del XX secolo che scrivono d’arte]
New York, Pantheon Books, 1985, 302 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima
New York, Pantheon Books, 1985, 302 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima
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Fig. 1) La copertina della prima edizione inglese dell’antologia di Dore Ashton |
L’antologia di Dore Ashton e la letteratura artistica contemporanea negli Stati Uniti
Continuiamo la rassegna delle antologie di letteratura
artistica con la recensione di un volume pubblicato dalla critica e storica
d’arte americana Dore Ashton (1928-2017). È una raccolta di testi dedicata
esclusivamente agli scritti di artisti del XX secolo [1]. L’opera uscì nel 1985
con un titolo (Twentieth-Century Artists on Art)
intenzionalmente molto simile a quello della precedente
antologia di Robert Goldwater (1907-1973) e Marco Treves (1902-1990),
sempre pubblicata dall’editore Pantheon con
l’intestazione Artists on Art, from the XIV to the XX century.
Il risvolto di copertina colloca esplicitamente il lavoro in sostanziale
continuità con il volume pubblicato quarant’anni prima.
Ashton era una delle studiose statunitensi più famose del
modernismo in generale (il suo The
Unknown Shore: A View of Contemporary Art comparve nel 1962) e, in
particolare, dell’arte americana del dopoguerra. Fu autrice di fortunate
monografie sulla New York School (The New York School: A Cultural Reckoning, 1973)
e su molti esponenti dell’espressionismo astratto (Robert Motherwell, Mark
Rothko, Philip Guston, Joseph Cornell e molti altri).
La Ashton iniziò il suo lavoro nel 1955 come giornalista
nella redazione artistica del New York
Times. Sul maggior quotidiano della metropoli americana si schierò a favore
degli artisti che vivevano l’avanguardia come espressione radicale di ribellione.
Al termine di uno scontro con il nuovo direttore della sezione del giornale, John
Canaday (1907-1985), che aveva invece avviato nel 1959 una campagna estremamente
critica verso l’espressionismo astratto, la Ashton fu allontanata.
Paradossalmente il suo licenziamento la legittimò come uno dei punti di
riferimento per molti artisti newyorkesi di quegli anni. Da allora Ashton
iniziò un’intensa attività di pubblicista su varie testate, insegnò presso scuole
private d’arte di New York e pubblicò numerosi saggi e monografie. Nel campo
della letteratura artistica, oltre alla presente antologia, la Ashton curò la
pubblicazione di una raccolta di testi ricollegabili a Picasso (Picasso on Art: a selection of views,
1972).
Come si colloca l’antologia di fonti di storia dell’arte
della Ashton nella storia di questo genere letterario? Come già sappiamo, è
soprattutto negli Stati Uniti che questo tipo di pubblicazioni, avviato in
Germania da studiosi che seguivano l’impostazione dello storicismo idealista,
conobbe una nuova fortuna dopo la fuga dal vecchio continente di molti studiosi
europei per sfuggire alle persecuzioni politiche e razziali.
Negli Stati Uniti si andarono in realtà dispiegando due differenti tradizioni
antologiche.
La
prima aveva origine nel lavoro di Elizabeth Gilmore Holt (1905-1987) intitolato Literary Sources of Art History. Si
tratta un’opera di chiaro impianto filologico, basata sulla citazione di brani
lunghi e relativamente poco numerosi, dove ogni artista (da Cennino
Cennini a Goethe)
viene sempre messo nel contesto di una scuola di pensiero. Per la Holt
l’antologia era uno strumento per documentare lo sviluppo della teoria dell’arte.
Quella
linea fu proseguita a Berkeley da Herschel B. Chipp (1913-1992) con il suo Theories of Modern Art: A Source Book by
Artists and Critics del 1968 e da ultimo da Kristine Stiles (1947-) e
Peter Selz (1919-2019) con il loro Theories
and documents of contemporary art: a sourcebook of artists' writings del
1995. Segnaliamo anche (sempre in ambito anglosassone) la pubblicazione nel
1992 di Art in Theory 1900-1990: An
Anthology of Changing Ideas, a cura degli storici dell’arte britannici
Charles Harrison (1942-2009) e Paul Wood (1949-).
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Fig. 4) A sinistra: L’antologia Artists on Art di Goldwater e Treves nella prima edizione del 1945. A destra: L’antologia Painters on Painting di Eric Protter del 1963. |
Dore Ashton aderì invece alla seconda tipologia
antologica, quella inaugurata da Goldwater e Treves, basata sulla citazione di
brani brevi e molto numerosi. I due autori in questione erano interessati a proporre stralci
meno teorici, che descrivevano i meccanismi della creazione artistica,
soprattutto dal punto di vista degli individui. Si collocò in questa tradizione
anche Painters on Painting di Eric Protter (1927-) .
Chi seguiva la prima linea di pensiero era interessato al
concetto di “art in context”, ovvero
vedeva l’arte come l’espressione di una cultura che era espressione della società,
dell’economia, della politica, come pure dei grandi movimenti di pensiero
filosofico (ed estetico in particolare). Quel che ne derivava è spesso l’idea che
gli artisti si differenzino tra di loro perché espressione di un contesto
differente. Chi invece partecipava della seconda linea di pensiero voleva testimoniare come artisti assai simili in stile potessero essere molto diversi
nelle loro motivazioni e, viceversa, artisti del tutto diversi nello stile potessero essere mossi da ragioni creative assai simili.
Un semplice paragone tra le due antologie di Chipp e della
Ashton (ovvero tra le due raccolte di testi che compaiono tra 1969 e 1985
parlando entrambe di letteratura artistica contemporanea) rivela le differenze
metodologiche. Chipp colloca i testi degli artisti all’interno di ampi capitoli
dedicati a scuole e stili differenti e li contestualizza nella cultura della
loro epoca. Inoltre studia i testi preoccupandosi di raccontarne la storia, di
verificare l’esistenza di differenze tra diverse versioni e, infine, di
analizzarne la fortuna critica. A tal fine egli prepara una bibliografia
analitica che ricorda il
manuale di Letteratura artistica di
Julius von Schlosser (1866-1938). La Ashton colloca invece gli artisti in
stile alfabetico, distinguendoli semplicemente per paese d’attività e periodo
(in tre capitoli dedicati al 1900-1920, al 1920-1940 e al 1940 fino alla data
di pubblicazione). Di regola, un solo, breve, stralcio è proposto per ognuno
degli artisti. L’origine dei testi è menzionata, ma non è oggetto di commento.
Nell’antologia di Chipp sono inclusi soprattutto artisti
americani e europei occidentali. Il critico tiene molto a spiegare la
differenza d’impostazione tra le due rive dell’atlantico. Gli europei sono
legati a teorie filosofiche (l’esistenzialismo) e politiche (il marxismo), gli
americani invece sono fondamentalmente artisti che vivono in gruppo, nell’East
Side di New York, ma non per questo hanno indirizzi comuni, né legami precisi
con il mondo delle idee. La Ashton non sottolinea invece questi elementi di
diversità (e, anzi, tratta Americani ed Europei come parte di un’unica comunità
creatrice). In compenso, inserisce anche artisti sudamericani e dei paesi del
blocco di Varsavia.
Ho notato che l’antologia di Chipp non è citata nella
bibliografia della Ashton, né il nome compare nell’indice dei nomi. Ovviamente
vi sono testi già inclusi nell’antologia di Chipp, ma la Ashton non lo dice
mai. Insomma, vi sono tutti gli indizi per pensare a due opere ‘rivali’ e, in
qualche modo, ‘alternative’.
A conclusione di questa sezione introduttiva, va aggiunto
che tutto quanto detto non implica affatto che il testo della Ashton sia una
raccolta disordinata che vuol soprattutto evidenziare atteggiamenti spontanei e
istintivi. Cercheremo di evidenziare temi comuni nella raccolta dei testi. Uno
degli aspetti più sorprendenti è comunque l’assenza nell’antologia di un qualsiasi riferimento ad Andy Warhol (1928-1987), che proprio negli anni in cui l’opera
era in lavorazione era al culmine dalle propria popolarità. Non si può trattare di
una semplice dimenticanza. Evidentemente vi era qualcosa nell’arte o nella personalità
dell’artista che a Dore Ashton non piaceva. Vedremo che, in generale, la
critica considera la pop art come una forma di decadenza rispetto alle
esperienze precedenti.
I cinque maestri
all’origine della letteratura artistica contemporanea
La Ashton spiega di non aver voluto inserire nella sua
antologia artisti già compresi in quella di Goldwater e Treves per evitare
inutili sovrapposizioni. Tuttavia fa un’eccezione per cinque artisti maggiori
(Picasso, Matisse, Miró, Mondrian e Léger), a cui riserva un breve capitolo
iniziale, slegato dalla struttura generale dell’antologia (lo intitola A Preliminary Section: Early Modern Masters
in Statements after 1940) [2]. Di tutti e cinque propone scritti o
dichiarazioni successive agli anni Quaranta. In questo modo questi ‘grandi’ non
appaiono più come antenati sia pur prossimi, ma popolano la stessa scena degli
artisti più giovani, accompagnandoli nel loro percorso.
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Fig. 5) Tre edizioni di Picasso on Art di Dore Ashton (rispettivamente del 1972, 1977 e 1988) |
Uno dei temi immediatamente presenti in questa sezione è
quello della difficoltà, e forse dell’impossibilità, per un creatore d’arte, di
comunicare in termini razionali la sua attività. “Io considero un’opera d’arte – scrive Pablo Picasso (1881-1973) nel
1955 – come il prodotto di calcoli, calcoli
che sono spesso sconosciuti all’autore stesso. È esattamente il caso di un
piccione viaggiatore, che calcola il suo ritorno in soffitta. Il calcolo che
precede l’intelligenza. Ed è vero che abbiamo inventato la bussola e il radar,
che permettono anche ad uno stupido di ritornare al loro punto di partenza…
Altrimenti dobbiamo supporre, come disse Rimbaud, che sia il nostro doppio in
noi che calcola” [3]. La citazione è tratta
dall’antologia Picasso on Art, curata
(come si è già detto) dalla stessa Ashton.
Lungo la stessa linea è Henri Matisse (1896-1954). “Non posso dire nulla delle mie sensazioni
sullo spazio che non sia già espresso nei miei quadri” [4]. Sono parole del 1951. Matisse aggiunge: “Il segno con cui io creo un’immagine … vede
la luce nel momento in cui lo uso e solamente per l’oggetto di cui deve formare
una parte. Per questa ragione io non posso fissare in anticipo segni che non
cambino mai, e che siano come scrivere: tutto ciò paralizzerebbe la libertà
della mia invenzione” [5].
Le parole di Joan Miró (1893-1983) (si tratta della
trascrizione di una sua intervista comparsa in un catalogo del 1963) hanno una
fortissima carica emozionale : “Lo
spettacolo del cielo ha su di me un effetto grandioso. Io sono sopraffatto
quando vedo, in un cielo immenso, la luna o il sole crescere. Vi sono, nei miei quadri, forme
piccolissime in enormi spazi vuoti. Spazi vuoti, orizzonti vuoti, piani vuoti –
ogni cosa che è spoglia ha sempre avuto un grande impatto su di me . (…) L’immobilità
mi colpisce. Questa bottiglia, questo bicchiere, una grande pietra in una
spiaggia deserta – queste sono cose che non si muovono, ma scatenano grandi
movimenti nella mia mente. Io non provo le stesse sensazioni quando vedo un
essere umano cambiare posizione continuamente in modo stupido” [6].
Un secondo tema, ovviamente differente, è quello della
necessità per altri artisti di concepire la creazione come una costruzione
razionale. Sarebbe però erroneo pensare che qui si faccia semplicemente
riferimento alla differenza tra romantici figurativi e razionali costruttivisti.
È Piet Mondrian (1872–1944) a spiegare come, a suo parere, quel che conta sia
sempre capire se la nascita di un’opera d’arte avviene come risultato di
un’intenzione compositiva sistematica oppure no. In altre parole, un quadro
figurativo che risulti ben costruito è sempre migliore di una pittura astratta
che non sia in grado di esprimere un’idea coerente. “La consapevolezza della necessità dell’astrazione nell’arte plastica si
è sviluppata lentamente. In origine era praticata per effetto dell’intuito. Solamente
dopo secoli di trasformazione sempre maggiore dell’aspetto naturale,
l’astrazione è venuta alla luce in modo più chiaro, fino a quando infine le
belle arti si sono liberate dalle caratteristiche particolari del soggetto e
dell’oggetto. Questa liberazione è della massima importanza. Per le belle
arti rivela che caratteristiche particolari contraddistinguono la pura
espressione di forma, colore e dei loro rapporti. Nelle belle arti, forme e
colore sono gli strumenti espressivi essenziali. Le loro proprietà e il loro
rapporto reciproco determinano l’espressione generale di un’opera. L’astrazione
non solamente stabilisce forma e colore in modo più oggettivo, ma rivela anche
le loro proprietà in modo più chiaro. Possiamo dunque vedere che l’arte
astratta, come pure l’arte figurativa, deve creare l’espressione generale
attraverso la composizione. Grazie alla composizione e ad altri fattori
plastici è possibile per un’opera d’arte figurativa avere un’espressione più
universale di un’opera d’arte astratta che sia carente nell’uso rigoroso di
tali fattori” [7]. Sono parole
tratte da un catalogo newyorchese del 1941.
È invece più forte l’avversione al figurativo in Fernand
Léger (1881-1955): “L'impresa di imitare
superbamente un muscolo, come ha fatto Michelangelo, o il volto, come Raffaello,
non ha creato né progresso né gerarchia nell’arte. Questi artisti del
sedicesimo secolo, per il semplice fatto di imitare forme umane, non erano superiori
agli artisti dei periodi d’oro dell’arte egiziana, caldea, indocinese, romana e
gotica che interpretavano e stilizzavano la forma, ma non la imitavano. Al
contrario, l’arte consiste nell’inventare e non nel copiare. Il rinascimento
italiano è un periodo di decadenza artistica. Questi uomini, privi
dell’inventiva dei loro predecessori, pensavano di essere più forti degli
imitatori – ma è falso. L’arte deve essere libera nella sua inventiva, ci deve
elevare sopra ogni eccesso di realtà. È questo il suo fine, sia essa poesia o
pittura” [8]. È una citazione del 1950 tratta dalla raccolta postuma di
scritti Fonctions de la peinture del
1965, pubblicata negli Stati Uniti nel 1973. Questo è uno dei casi in cui
l’antologizzatrice preferisce rifarsi a pubblicazioni di scritti invece che ad
articoli sciolti o interviste in cataloghi o riviste. Va detto che, quelle
scelte da Ashton, sono ancor oggi fra le frasi più famose di Léger.
La letteratura
artistica tra 1900 e 1920.
I primi vent’anni del secolo sono condensati nelle citazioni
di diciannove artisti d’avanguardia provenienti da nove paesi: Austria,
Cecoslovacchia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Russia, Svizzera e
Stati Uniti. Tre sono donne: le russe Natalia Sergeevna Goncharova (Наталья
Сергеевна Гончарова, 1881-1962) e Olga Vladimirovna Rozanova (Ольга
Владимировна Розанова, 1886- 1918), a cui si aggiunge l’americana Georgia
O'Keeffe (1887-1986). Tra i diciannove artisti due sono scultori (Ernst
Barlach 1870-1938 e Jacques Lipchitz (1891-1973). Se è vero che tutti gli
artisti inclusi nella sezione sono attivi nella primissima parte del secolo,
alcuni dei brani sono tuttavia realizzati molto dopo, tra gli anni Quaranta e i
Sessanta; assolvono quindi a una visione autobiografica, ma (ovviamente)
retrospettiva. A seconda delle situazioni, insomma, gli scritti assolvono la
doppia funzione di documentare l’azione degli artisti nel presente e di
discuterla in una prospettiva storica.
La creazione artistica è concepita da alcuni artefici come
momento primario e misterioso. Egon Schiele (1890-1918) lo afferma nel 1910 in
una lettera al collezionista Oskar Reichel (1869-1943), che ritrae quell’anno
in un acquarello conservato a New York. “Vi
è stato, vi è e sempre vi sarà uno spirito vitale vecchio o nuovo, che vuole e
deve proseguire oppure vuole e deve creare, sempre a partire da qualcosa, da
commistioni; è la grande e vera madre di tutto, di ogni cosa simile eppure
separata, che vuole e in tal modo era, è e sarà; che sempre trae origine da questi
nostri mezzi eterni, in modo da creare gli esseri umani, gli animali, le piante
più diverse, e le creature viventi in generale; non appena si presenta la
materia, esattamente in quel momento si rivela la volontà comune del mondo di
esistere” [9].
Non molto diversa è la lettura della creazione artistica da
parte del pittore statunitense Arthur Garfield Dove (1880-1946). In uno
stralcio di una lettera autobiografica ‘precedente al 1920’, inviata al
gallerista Samuel M. Kootz e pubblicata da costui con data (non corretta) 1930, l’artista identifica il momento
creativo in questi termini: “Sentire che
il «primo flash» di un’idea le conferisce
la sensazione più vivida; che io adesso – in alcune delle mie pitture – sto
cercando di rendere lo spirito dell’idea nel momento in cui emerge. Sentire «l’intonazione»
di un’idea come uno sentirebbe una campana. Non è una regola né un metodo, ma
lascia l’immaginazione libera di lavorare in tutte le direzioni e con tutte le
dimensioni che sono o possono essere state realizzate” [10].
Il motivo mistico è molto forte anche negli scritti dello
scultore Ernst Barlach del 1906. “Semplicemente
dimostrare come ogni cosa sia mistica è futile, dal momento che ricorda solo al
pubblico che deve continuare a vivere in questo mondo desolato. Ma quando
l’artista dà una forma sensoriale all’elemento mistico in modo tale che divenga
intimamente familiare egli eleva in tal modo l’osservatore al di sopra di ciò
che è convenzionale e lo pone nel regno dell’infinito” [11]. Il passo dei
diari dello scultore tedesco è citato da un’antologia inglese di scritti
espressionisti compilata da Victor Meisel del 1972. Di Barlach esistono in
tedesco un’autobiografia già dal 1928, intitolata Ernst Barlach, ein selbsterzähltes Leben (tradotta in inglese
solamente nel 1990), i diari, un vasto carteggio e molti testi di prosa e
teatro come drammaturgo.
Alcuni degli artisti rimangono ribelli anche in età
avanzata. Oskar Kokoschka (1886-1980) ha sessantadue anni quanto scrive nel
1948 una lettera a James S. Plaut (1912-1996), critico d’arte e direttore dell’Institute
of Contemporary Art (ICA) di Boston, una delle istituzioni che diffonde gli
espressionisti europei oltre oceano: “Mi considero
responsabile non nei confronti della società, che detta moda e gusto sulla base
del proprio ambiente e del suo periodo, ma in relazione ai giovani, alle future
generazioni, che sono abbandonate in un mondo intossicato, senza potersi
rendere conto di come la loro anima possa tremare di paura davanti al mistero
della vita” [12].
Vi sono ovviamente autori che sono dominati dall’elemento
razionale, o addirittura attribuiscono agli artisti una capacità superiore di
conoscenza della realtà. Michail Fëdorovič Larionov (Михаил Фёдорович Ларионов
1881-1964), teorico del raggismo, scrive nel 1914: “Tuttavia, tra quelle forme che il nostro occhio mette a fuoco, esiste
un'intersezione reale e innegabile di raggi che provengono da varie forme.
Queste interazioni costituiscono nuove forme immateriali che l'occhio del
pittore può vedere. Quando i raggi di oggetti diversi s’incontrano, nello
spazio vengono creati nuovi oggetti immateriali. Il rayonismo è la pittura di
queste forme immateriali, di questi infiniti prodotti con cui l'intero spazio
viene riempito.” [13]. Il brano è tratto da un’antologia inglese di scritti
d’arte dei rappresentanti dell’avanguardia russa (Russian Art of the Avant-garde: Theory and Criticism, 1902-1934) a
cura dello storico dell’arte britannico John E. Bowlt (1976).
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Fig. 9) A sinistra: Il catalogo della Decima esibizione di Stato a Mosca (1919). Fonte: https://monoskop.org/Tenth_State_Exhibition_(1919)#/media/File:Bespredmetnoe_tvorchestvo_i_suprematizm_1919.jpg. A destra, la raccolta di Scritti d’arte 1915-1933 di Malevič, curata da Troels Andersen e pubblicata da Rapp and Whiting a Londra nel 1969. |
Secondo Kasimir Malevič (Казимир Северинович Малевич
1878-1935) – che scrive nel 1919 nel catalogo della Decima esibizione di Stato, un importante evento nella Mosca
post-rivoluzionaria che segna la divaricazione tra suprematismo e costruttivismo – la creazione artistica è al tempo stesso
attività prettamente filosofica e decorativa. “Il sistema è costruito sulla base di tempo e spazio, indipendentemente
da ogni criterio di bellezza e qualsiasi esperienza o atteggiamento estetici: è
in realtà un sistema filosofico di colore al fine di realizzare gli ultimi
risultati delle mie idee, come strumento di conoscenza. (…) In una delle sue
fasi il suprematismo si è stabilito – grazie al colore – come puro movimento
filosofico, e in una seconda fase – come forma che può essere applicata – ha
formato un nuovo stile di decorazione suprematista” [14]. La traduzione
inglese del testo è inclusa nella raccolta di Essays on art di Malevic, pubblicata nel 1969.
In altri casi quel che caratterizza l’artista è la sua
capacità di distacco e apatia, come manifestazione stoica (e dunque superiore)
di intelligenza delle cose. È il caso anche di artisti conosciuti per il loro
atteggiamento completamente dissacrante, come Marcel Duchamp (1887-1968), qui
citato da una conferenza al MoMa di New
York nel 1961. “È intorno a quest’epoca [nota
dell’editore: 1915] che la parola
«readymade» mi venne in mente per designare questa
forma di manifestazione. Un punto che vorrei davvero chiarire è che la scelta
di questi «readymade» non è mai stata dettata
da una forma di piacere estetico. Questa scelta si basava su una reazione di
indifferenza visiva al tempo stesso abbinata a una totale assenza di buono o
cattivo gusto… in realtà una vera e propria anestesia” [15].
Appartiene al campo degli artisti che si affidano a solide
categorie concettuali lo scultore cubista Jacques Lipchitz. Quest’ultimo
commenta il passaggio da uno stile basato sulle curve a uno più geometrico e,
infine, cubista nelle sue memorie My life in sculpture, firmate insieme allo storico dell’arte Harvard H. Arnason (1909-1986). “Forse la maggiore rivelazione che mi ha
portato in questa direzione [nota dell’editore: il cubismo] è stata l’importanza della luce per la
scultura. Ho improvvisamente scoperto che il volume nella scultura è creato
dalla luce e dall’ombra. Il volume è luce. In una scultura uniformemente
arrotondata o curvilinea la luce sfugge sulla superficie e può persino
diminuire o distruggere il senso del volume, il senso della terza dimensione.
Quando le forme della scultura sono angolari, quando la superficie è rotta da
profonde penetrazioni e contrasti, la luce può funzionare per esaltare le
qualità veramente proprie della scultura” [16].
La letteratura
artistica tra 1920 e 1940.
Il periodo ‘eroico’ delle prime avanguardie di inizio secolo
viene seguito, nei vent’anni seguenti, da una fase particolarmente complessa,
segnata da una svolta moderata subito dopo la Prima guerra mondiale in tutta
Europa, ispirata al recupero di forme d’arte d’ispirazione classica (il
cosiddetto ‘ritorno all’ordine’) e dall’affermarsi – negli anni seguenti – di
moduli figurativi neo-imperiali tipici dei regimi totalitari, soprattutto in
Italia ed in Russia. Quella del ritorno all’ordine (soprattutto la cosiddetta École
de Paris in Francia, il Realismo magico e l’Arte metafisica in Italia e la
Nuova oggettività in Germania) è l’arte celebrata negli scritti selezionati
nelle due antologie parallele di Paul
Westheim e di Florent
Fels del 1925. Nella raccolta di Dore Ashton, invece, ad aver spazio sono
gli scritti di 48 artisti di tredici diverse nazionalità, da cui nasce il primo
impulso verso forme d’arte astratta, compresi i dada, i surrealisti e i
costruttivisti. Come contraltare agli astratti viene presa in considerazione
anche la seconda generazione di espressionisti e fauvisti. Ogni forma d’arte
contemporanea conforme a criteri di classicità è invece ignorata.
Nell’antologia di Fels, ad esempio, si trovavano scritti di
artisti come Othon Friesz (1879-1949), Moïse Kisling (1891-1953), André Lhote
(1885-1962), Jules Pascin (1885-1930), Georges Rouault (1871-1958), André
Dunoyer de Segonzac (1884-1974) e Maurice de Vlaminck (1876-1958). Nessuno di
questi è presente in Twentieth Century
Artists on Art. Quanto all’Italia, tra gli artisti citati dalla Ashton non
c’è Giorgio de Chirico (1888-1978), i cui scritti teorici sono invece
ampiamente riportati nell’antologia di Chipp. L’Italia è rappresentata da
Osvaldo Licini (1894-1958), Alberto Magnelli (1888-1971), Marino Marini (1901-1980) e Giorgio Morandi (1890-1964). Nessuno di questi ultimi quattro
artisti, viceversa, era stato inserito nell’antologia di Chipp. È insomma
confermato che ogni raccolta antologica codifica un’idea diversa dell’arte
contemporanea.
Quanto agli artisti scelti dalla Ashton, a fianco degli
Stati Uniti emerge il ruolo dell’arte latino-americana (con Messico e Uruguay).
Tra gli stati europei compaiono nuovi nomi di nazioni (Grecia, Polonia,
Svezia). Oltre alla pittura, la scultura gioca un ruolo importante con scritti
di nove artisti, quasi tutti astratti: Constantin Brâncuși (1876-1957), Alexander
Calder (1898-1976), Joseph Cornell (1903-1972), Naum Gabo (Наум Габо 1890-1977), Alberto Giacometti (1901-1966), Julio González (1876-1942), Henry
Moore (1898-1986), Vladimir Evgrafovič Tatlin (Владимир Евграфович Татлин -
1885-1953) e Georges Vantongerloo (1886-1965). Limitata a un solo caso la
presenza femminile fra i 48 artisti (Käthe Kollwitz 1867-1945).
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Fig. 11) A sinistra: la traduzione americana di Beyond Painting di Max Ernst (1948). A destra: l’intervista di Giacometti Perché sono scultore, pubblicata sul numero 873 di Arts (13 giugno 1962) |
Uno degli aspetti contraddittori della letteratura artistica
contemporanea è che essa – sia pur per ragioni diverse – spesso finisce per
sancire in forma scritta l’impossibilità di spiegare razionalmente la
produzione artistica. La creazione artistica è un atto passivo, secondo Max
Ernst (che celebra nel suo testo teorico Beyond
Painting, pubblicato negli Stati Uniti nel 1948, le implicazioni
dell’impiego della tecnica del frottage): “Così
come il ruolo del poeta, dall’epoca della famosa lettre de voyant di Rimbaud, consiste nello scrivere secondo
i dettati di ciò che in lui si articola, anche il ruolo del pittore è di
intuire e progettare quel che egli vede in se stesso. Trovandomi sempre più assorto in questa attività (passiva) che è poi
divenuta una ‘paranoia critica” e adattandola ai mezzi tecnici della pittura (…),
sono pervenuto ad assistere come spettatore alla nascita di tutti i miei lavori
(…)” [17]. Con il frottage, la
creazione diviene un risultato psichico automatico.
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Fig. 12) A sinistra: la recente pubblicazione dei testi della serie Merz di Kurt Schwitters (quarto volume dell’edizione di tutti gli scritti pubblicati dall’editore De Gruyter a cura di Ursula Kocher edIsabel Schulz). A destra: alcuni numeri della rivista ABC Beiträge zum Bauen tra 1924 e 1928. Fonte: https://shop.berlinbook.com/images/product_images/thumbnail_images/22729ab_2.jpg |
Secondo il dadaista Kurt Schwitters (1887-1948) scrivere
d’arte ha una funzione esclusivamente enigmatica, evocativa, basata
sull’impiego di parole inventate che appartengono esse stesse al momento della
creazione. Egli attribuisce infatti casualmente alla parola merz, (un
termine inventato in un tedesco ‘maccheronico’), la capacità di esprimere la
natura dell’opera d’arte. "Ho
chiamato il mio nuovo modo di creare con qualsiasi materiale «merz».
Questa è la seconda sillaba di "Kommerz" (commercio). Il nome deriva
da "Merzbild", un'immagine in cui la parola Merz compariva al centro
di forme astratte" [18]. Sono parole del 1927, tratte dal
catalogo “Merz 20”. Tradurre l’atto
creativo in un processo verbale ha qui un valore emulativo, ma non offre certo
elementi esegetici. Simile (ma più complesso) è il meccanismo attraverso il
quale il suprematista russo El Lissitzky (Ла́зарь Ма́ркович Лиси́цкий – 1890-1941)
decide di chiamare le proprie opere “Proun” (Проун), un’abbreviazione che di
per sé non vuol dire nulla, ma a cui l’artista dà valore generale: “Il mio obiettivo - e questo non è solo il
mio obiettivo, questo è il significato della nuova arte - non è quello di
rappresentare, ma di formare qualcosa di indipendente da qualsiasi fattore
condizionante. A questo ho dato il nome indipendente Proun. Quando la sua vita sarà
compiuta e si sdraierà dolcemente nella tomba della storia dell'arte, solo
allora questa idea sarà stata definita” [19]. Lo scritto di El Lissitzky compare in tedesco
a Basilea nel 1925, sulla rivista ABC
Beiträge zum Bauen (ABC Contributi alla costruzione), la cui completa
traduzione in inglese risale al 1993.
Anche per Alberto Giacometti – in linea con la filosofia
esistenzialista – la creazione non può essere tradotta in parola; essa si
esaurisce nella creazione di un oggetto (l’opera d’arte) quanto più simile al
soggetto (l’idea dell’artista): “Non si
potrebbe esprimere a parole ciò che si prova con i propri occhi e con le proprie
mani. Le parole corrompono i pensieri, la scrittura distorce le parole: non ci
si riconosce più. Non credo nel problema dello spazio; lo spazio è creato
esclusivamente dagli oggetti; un oggetto che si muove senza alcuna relazione
con un altro oggetto non può dare l'impressione di spazio. Solamente il
soggetto dell’opera. Spazio, forme, tela, gesso, bronzo... tanti mezzi.
L'unica cosa importante è creare un nuovo oggetto che trasmetta un'impressione la
più vicina possibile a quella ricevuta quando si contempla il soggetto”
[20]. Sono parole tratte da un’intervista ad André Parinaud intitolata Perché io sono scultore e pubblicata
nel 1962 in occasione di una sua importante presenza alla Biennale di Venezia,
con una mostra a lui dedicata. Giacometti ci tiene a chiarire che il suo perseverare
nel campo dell’arte figurativa non rende per nulla più semplice il suo processo
creativo.
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Fig. 13) La collezione di interviste Dialoghi sull’arte di Edouard Roditi del 1960, pubblicata da Secker and Warburg nel 1960. |
Un messaggio simile trapela da un estratto di un’intervista
a Giorgio Morandi (1890-1964). La pagina è tratta da Dialogues in Art (1960), una raccolta di interviste dello scrittore
e critico d’arte americano Edouard Roditi (1910-1992) a dodici artisti europei.
Morandi afferma: ”Nulla mi è più estraneo di un’arte che si basi sul servire
altri fini di quelli implicati dall’opera d’arte in se stessa. … Io credo che nulla possa essere più
astratto, più irreale di quello che in realtà vediamo. Noi sappiamo che tutto
quel che vediamo del mondo degli oggetti, come esseri umani, non esiste mai
come lo vediamo e intendiamo. La sostanza esiste, ovviamente, ma non ha alcun
significato proprio, e nessuno dei significati che ad essa attribuiamo. Possiamo
solo sapere che una tazza è una tazza, e un albero un albero” [21].
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Fig. 14) Il saggio di Suzi Gablik su René Magritte, nella versione originale del 1970 (in alto a sinistra) e in numerose edizioni in inglese, francese, italiano e tedesco nei quindici anni successivi |
Magritte – in uno scritto del 1959 citato da Suzi Gablik
nella sua fortunata monografia statunitense sul pittore belga del 1970, poi
pubblicata in varie lingue – avverte il lettore di non cercare conforto in
soluzioni culturalmente troppo facili: sbaglia, ad esempio, chiunque lo
consideri pittore simbolista. “Le
immagini devono essere viste così come sono. Inoltre, la mia pittura non
implica la supremazia dell'invisibile sul visibile. (...) La parola sogno è
spesso usata in modo improprio per quanto riguarda la mia pittura. Desideriamo
certamente che il regno dei sogni sia rispettabile, ma le nostre opere non sono
oniriche” [22].
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Fig. 15) Il primo numero della rivista polacca costruttivista Blok nel 1924, diretta da Henryk Stażewski (Fonte: https://jbc.bj.uj.edu.pl/dlibra/publication/92554/edition/85906/content?format_id=1). |
La tradizione razionalista di Léger viene continuata dal
pittore costruttivista franco-polacco Henryk Berlewi (1894-1967), almeno negli
anni giovanili (diverrà poi pittore figurativo). Il suo testo sulla cosiddetta Meccano-struttura è del 1923 (compare in
un catalogo tedesco del 1976 sul costruttivismo in Polonia): “Tuttavia, la vecchia tecnica non è più adeguata
ai principi dell'arte di oggi. Essi possono essere riassunti come segue: la fine
di ogni imitazione (anche la più libera) degli oggetti, l’autonomia delle
forme, la disciplina nel senso più ampio del termine, la chiarezza che consente
a tutti di cogliere l'intenzione dell'artista, lo schematismo, la geometria, la
precisione che facilita a tutti l'ordinamento delle impressioni ottenute
dall'opera in questione” [23]. Simili scritti strutturalisti sono proposti
per i pittori polacchi Henryk Stażewski (1894-1988), il creatore della rivista Blok, e Władysław Strzemiński
(1893-1952). Del primo viene presentata una dichiarazione molto tarda del 1982
(ha ormai ottantotto anni), del secondo una molto precoce, del 1923. I costruttivisti
russi Aleksandr Michajlovič Rodčenko (Александр Михайлович Родченко –
1891-1956) e Vladimir Evgrafovič Tatlin (Владимир Евграфович Татлин,- 1885-
1953) sono presenti con testi del 1934 il primo e del 1932 il secondo.
A volta, invece, gli artisti astratti hanno un’anima più
semplice e ispirata, come provano le parole dello scultore Julio Gonzalez,
tratte dal catalogo della mostra itinerante
Sculpture of the twentieth century a cura del critico e curatore Andrew C.
Ritchie (1907-1978), tenutasi a Philadelphia, Chicago e New York nel 1952-1953:
“Nell’inquietudine della notte le stelle
sembrano mostrarci nel cielo punti di speranza; questa guglia immobile ce ne
indica un numero infinito. Sono questi punti nell'infinito che sono i
precursori della nuova arte: disegnare nello spazio” [24]. Juan Gris aggiunge: “Lavoro con gli elementi dell'intelletto, con l'immaginazione. Cerco di
concretizzare ciò che è astratto. Procedo dal generale al particolare, intendendo
iniziare da un'astrazione per arrivare a un fatto vero. La mia è un'arte di
sintesi, di deduzione” [25]. Sono
parole del 1921, pubblicate nella rivista L’Esprit
Nouveau e diffuse nel mondo inglese dopo la guerra, con la traduzione in
inglese della monografia su Gris di Daniel-Heinrich Kahnweiler (1884-1979).
Il saggio di Kahnweiler, originariamente in tedesco (1929), compare sul mercato
americano nel 1947.
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Fig. 17) A sinistra: l’antologia The Painter’s Object, a cura di Myfanwy Evans (1937) A destra: il numero speciale 119-121 della rivista Cimaise dedicato a Hans Hartung (settembre-dicembre 1974) |
Il pittore astratto francese Jean Hélion afferma nel 1937: “Io intendo l’arte astratta come un tentativo di nutrire l’immaginazione con un
mondo creato grazie alle sensazioni di base degli occhi” [26] (è una
citazione da The Painter's Object,
un’antologia di scritti di venti artisti astratti a cura della critica d’arte
britannica Myfanwy Evans (1911-1997). Hans
Hartung (1904-1989) aggiunge: “La
prima cosa, e la più importante, è rimanere liberi, liberi in ogni linea che si
intraprende, nelle proprie idee, nella propria azione politica e nella propria
condotta morale. L'artista in particolare deve rimanere libero da ogni vincolo
esterno. Tutto ciò che si sente profondamente deve essere espresso” [27]. L’affermazione
è tratta non dall’autobiografia Autoritratto del 1976, mai pubblicata in inglese, ma da un’intervista della critica d’arte
tedesca Heidi Bürklin, inserita in un numero speciale della rivista Cimaise del 1974.
Per Jean Arp (1887-1966) fare arte è sempre una produzione
fisica. L’artista crea un nuovo oggetto che ha vita propria, e non imita mai a
realtà. “Non vogliamo copiare la natura. Noi
non vogliamo riprodurre, noi vogliamo produrre. Vogliamo produrre come una
pianta che produce un frutto, e non lo riproduce. Noi vogliamo produrre
direttamente e non per via d’intermediazione” [28]. Si tratta di parole tratte da Abstract Art, Concrete Art, presentate
anche nell’antologia di Chipp. Come si è già detto, la Ashton non lo cita da
quella fonte, ma da una successiva
raccolta di scritti di Arp del 1972 (Arp
on Arp: Poems, Essays, Memories) della casa editrice Viking a cura dello
storico dell’arte surrealista Marcel Jean (1900-1993). La posizione
simmetricamente contraria è rappresentata da André Derain (1880-1954). “Tutto viene dalla natura e tutto lì
ritorna... È impossibile produrre un'arte anteriore o esterna al reale... oppure
si sta lavorando con povertà maggiore della realtà stessa ... il che è tipico
dell'arte decadente” [29]. Sono dichiarazioni del pittore del 1939,
presentate dal critico Georges Hilaire (1900-1976) in una monografia francofona
del 1959.
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Fig. 19) A sinistra: Il Manifesto realista di Naum Gabo e Antoine Pevsner del 1920 (Fonte: https://monoskop.org/File:Gabo_N_Pevsner_N_Realisticheskii_manifest_1920.jpg). A destra, il catalogo della mostra di Gabo a Londra del 1956, con saggi introduttivi di Herbert Read e Leslie Martin (Fonte: https://www.maggs.com/constructions-sculpture-paintings-drawings-engravings_217195.htm) |
A fianco di artisti concentrati sul significato della
creazione artistica come momento psicologico-personale, altri vedono in essa
l’espressione di una cultura collettiva. Il costruttivista russo Naum Gabo –
autore del Manifesto realista nel
1920 – spiega nel 1956 quanto il concetto di spazio, ovvero uno dei concetti
fondamentali della scultura, dipenda non solamente dalla capacità di
riflessione dei singoli, ma anche da convincimenti collettivi: "Le vere fonti della concezione dello spazio
nella scultura devono essere ricercate nell'intero stato del nostro sviluppo
intellettuale e del pensiero collettivo del nostro tempo" [30]. Sono
parole tratte da un catalogo curato da Herbert Read (1893–1968) e Leslie
Martin (1908-1999).
Altri attribuiscono alla creazione un vero e proprio
significato politico, anche se tale aspetto può trasparire semplicemente come
effetto subliminale: secondo László Moholy-Nagy (1895-1946) “il cosiddetto approccio "non
politico" all'arte è una credenza erronea. Qui si parla di politica non
nella sua connotazione partigiana, ma come un modo per realizzare idee a
beneficio della comunità. Tale Weltanschuung si trasforma, nelle arti, in una forma
organizzata, che viene percepita attraverso gli strumenti concreti dei diversi
modi di espressione. Questo contenuto può essere generalmente compreso
direttamente, a livello subliminale, senza un processo di pensiero cosciente” [31].
Per l’inglese William Coldstream (1908-1987) – citato in un
saggio di R. S. Lambert del 1938 sull’arte inglese – il compito dell’artista
moderno non può essere quello dell’astrazione da una realtà di desolazione e oppressione: “La crisi mi ha reso
consapevole dei problemi sociali e mi sono convinto che l'arte debba dirigersi
verso un pubblico più vasto; mentre tutte le idee che ho imparato a considerare
artisticamente rivoluzionarie correvano nella direzione opposta. Mi è sembrato
importante che le comunicazioni interrotte tra l'artista e il pubblico fossero
ristabilite e ciò probabilmente implicava un movimento verso il realismo” [32]. Dunque l’artista ha il dovere di cercare di rafforzare il tessuto
sociale.
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Fig. 20) A sinistra: la locandina del primo American Artists Congress (1936). A destra: l’edizione originale tedesca dei Principi delle nuove belle arti di Theo van Doesburg (1925) |
Per il muralista rivoluzionario messicano David Alfaro
Siqueiros (1896-1974) – che parla al First
American Artists Congress nel 1936 - l’arte è per sé politica. L’AAC è
un’organizzazione del partito comunista degli Stati Uniti. Il muralista crede
che, in termini iconografici, occorra sostituire al modelli europei un’estetica
‘nazionalista’, che nel caso messicano significa riscoprire la tradizione
precolombiana e il folclore [33]. Del tutto opposta l’idea del costruttivista
olandese Theo van Doesburg (1883-1931). Per lui l’arte deve essere politica e
sovrannazionale: “Gli artisti
progressisti olandesi hanno adottato fin dal principio un punto di vista
internazionale. Anche durante la guerra ... il punto di vista internazionale era
uno sviluppo naturale del nostro stesso lavoro. Ovvero, si è sviluppato come
risultato della pratica. Necessità simili sono nate dallo sviluppo di...
artisti progressisti in altri paesi” [34]. Si tratta di uno stralcio da uno
scritto del 1925 (Grundbegriffe der neuen Kunst),
pubblicato dall’artista in tedesco per il Bauhaus e disponibile integralmente in inglese dal
1969.
Di valore politico, seppure solo implicito, è anche
l’identificazione di modelli di riferimento diversi da quelli della storia
dell’arte ‘canonica’: si vuole abbandonare la narrazione ottocentesca, nata
nelle università e nei musei per perseguire obiettivi oggettivi di
‘normalizzazione’ educativa dell’opinione pubblica, spesso per fini
nazionalisti. Lo scultore astratto Henry Moore (1898-1986) celebra nel 1941 (in
una dichiarazione al settimanale The
Listener, edito dalla BBC) il valore dell’arte ‘primitiva’: “La qualità più sorprendente tra quelle
comuni a tutta l'arte primitiva è la sua intensa vitalità. Nasce come risposta diretta
e immediata delle persone alla vita. Per loro scultura e pittura non sono un'attività
di calcolo o accademismo, ma un canale per esprimere potenti convinzioni,
speranze e paure. È arte prima di essere soffocata da rifiniture e decorazioni, prima che l'ispirazione si trasformi in trucchi tecnici e idee
intellettuali. Ma a parte il suo valore duraturo, la sua conoscenza permette un
apprezzamento più pieno e più vero degli sviluppi successivi dei cosiddetti
grandi periodi e mostra l'arte come un'attività universale svolta in
continuazione tra passato e presente” [35].
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Fig. 21) A sinistra: il numero di maggio della rivista newyorkese Creative art. A destra: il volume Letters on the New Art di Charles Joseph Biederman, autopubblicato nel 1951 |
Gli americani tra
1920 e 1940
Che dire, infine, dei nove artisti americani presenti nella
sezione degli anni 1920-1940? Si tratta di Charles Joseph Biederman
(1906-2004), Alexander Calder, Joseph Cornell, Stuart Davis (1892-1964), Charles
Demuth (1883-1935), Burgoyne A. Diller (1906-1965), Philip Evergood (1901-1973),
Ben Shahn (1898-1969) e Joseph Stella (1877-1946). Essi offrono un’immagine
dell’arte americana tra le due guerre più ricca di quella di Chipp
(nell’antologia di quest’ultimo sono compresi solamente testi di Calder e
Davis).
È tuttavia singolare che Dore Ashton inserisca nella sezione
testi in gran parte risalenti ad un’epoca successiva rispetto a quella
analizzata. Solamente di Stella e Demuth vengono citate pagine che risalgono
effettivamente ai vent'anni presi in considerazione. In entrambi i casi sono
testi della prima parte del fatidico 1929, l’anno dello scoppio della crisi di
borsa nel mese di ottobre. Di Demuth compare uno stralcio da un articolo
comparso sul numero di maggio della rivista newyorkese Creative Art. Lo scritto di Stella è invece tratto dal periodico Transition. An International Quarterly for
Creative Experiment, una rivista letteraria trimestrale in inglese
pubblicata tra Parigi e New York, fondata e diretta dallo scrittore
pro-modernista Eugene Jolas (1894-1952). In realtà il testo manoscritto esiste
già dagli anni Venti e circola tra poeti e scrittori modernisti per le sue
qualità letterarie. Tutti gli altri artisti sono presenti con testi degli anni
Quaranta-Cinquanta (Biederman 1951; Calder 1951 e 1958; Cornell 1946 e 1948;
Davis 1943; Evergood 1946; Shahn 1957) e nel caso di Diller, del 1961. Per
molti di loro (Calder, Cornell, Diller) si tratta di citazioni davvero brevi.
Si ha dunque l’impressione che l’antologizzatrice non voglia
far mancare una sezione americana tra le due guerre ma, sia pur forse inconsapevolmente,
certifichi l’assenza della letteratura artistica negli Stati Uniti tra le due
guerre. O forse i testi americani di quegli anni non sono in linea con le sue
preferenze estetiche. In ogni caso, sembrerebbe che gli artisti riescano a razionalizzare
e mettere per iscritto le loro vedute estetiche solamente dopo molti anni.
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Fig. 22) A sinistra: l’autobiografia di Stuart Davis, pubblicata all’American Artists Group nel 1945. A destra: il saggio La forma del contenuto di Ben Shan, comparso nel 1956 |
Come per Chipp, anche per la Ashton il più profondo tra gli
artisti americani delle due guerre si
conferma Stuart Davis. Mentre Chipp si riferisce all’autobiografia del 1945, il
passo citato dalla Ashton è però tratto da un suo articolo sul quindicinale ARTNews
del febbraio del 1943, poi riprodotto in una monografia sull’artista del 1971 a
cura di Diane Kelder, e ancora oggi studiato dagli specialisti [36]. L’artista
spiega (e mi sembra importante, dato che è in corso la seconda guerra mondiale)
che l’arte moderna ha l’obiettivo di riscoprire “l'umanità nella pittura, un servizio sociale essenziale che non può
essere limitato da ragioni razziali o nazionali” [37]. Poi chiarisce che
ogni forma d’arte d’avanguardia da lui praticata, sia negli Stati Uniti sia a
Parigi, deve essere sempre intesa come rappresentazione della vita americana. “Nel mio caso, per molti anni mi è piaciuta
la scena dinamica americana e tutte le
mie immagini (comprese quelle che ho dipinto a Parigi) hanno fatto riferimento
a essa. Tutti i miei dipinti hanno il loro impulso originario nell'impatto
dell'ambiente americano contemporaneo" [38].
Shahn è un muralista d’ispirazione politica. Nel suo saggio
su La forma del contenuto parla del
valore collettivo dell’arte: “Ho sempre
creduto che il carattere di una società sia in gran parte modellato e unificato
dalle sue grandi opere creative, che una società sia plasmata dalle sue epopee
e che sia capace di esprimere immagini sulla base di quel che ha creato nel
passato: le sue cattedrali, le sue opere d'arte, i suoi tesori musicali, il suo
lavoro letterario e filosofico” [39]. Evergood adotta uno stile
espressionista per denunciare la miseria degli anni della depressione, ma le
sue parole dimostrano quanto in realtà egli voglia fare emergere sentimenti e
personalità degli individui. Spiega nel 1946: “Sento che la ricerca di un artista dovrebbe rivolgersi verso la più
ricca e piena delle esperienze umane e che essa debba cercare sia le manifestazioni
visive che quelle trasmesse in modo intuitivo. Più l'artista entra in contatto
con le qualità interiori delle persone, più capirà la vita e come egli stesso
ad essa partecipi” [40].
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Fig. 23) Il numero 16-17 della rivista Transition. An International Quarterly for Creative Experiment, in cui Joseph Stella pubblica l’articolo The Brooklyn Bridge (A Page of My Life). Fonte: https://biblio.co.uk/book/transition-international-quarterly-creative-experiment-number/d/1026338267 |
Tra gli astratti Stella mostra di avere uno stile di grande
capacità emotiva. La sua descrizione delle emozioni vissute ammirando il ponte
di Brooklyn è struggente e, al tempo stesso, sintomo di quanto l’artista possa
essere travolto dai sentimenti al punto di perdere il filo di un racconto
lineare: “Per molte notti sono rimasto
sul ponte - e tutto solo nel mezzo - perduto - una preda indifesa della scura
oscurità circostante, schiacciata dalla nera impenetrabilità di una montagna di
grattacieli - qui e lì luci che assomigliavano a corpi astrali sospesi in
caduta o a fantastici splendori di riti remoti - scosso dal tumulto sotterraneo
dei treni in moto perpetuo. Come il sangue nelle arterie - a volte, squillando
come allarme in una tempesta, la voce acuta e solforosa dei fili del tram - ora
e poi strano gemito di richiamo dei rimorchiatori, indovinato più che visto,
attraverso i recessi infernali sottostanti - Mi sento profondamente commosso,
come sulla soglia di una nuova religione o in presenza di una nuova Divinità”
[41]. La copertina del numero della rivista Transition
in cui questo scritto è pubblicato cerca di trasmettere, tramite la fotografia, il medesimo sentimento dello scritto di Stella: la sottomissione a un mondo di
grattacieli giganti, ormai vero totem di una nuova religione.
Biedermann chiarisce invece di essersi liberato da ogni bisogno di rivelare il mondo interiore dell’artista, abbandonando ogni
necessità mimetica della natura e cercando anzi in essa elementi di carattere
strutturale, grazie allo studio in profondità dell’arte di Monet-Cézanne. Negli
anni Cinquanta spiega le ragioni del costruttivismo in maniera concettualmente
simile a quelle degli artisti russi e polacchi degli anni Venti e Trenta. “La nuova arte che propongo, in linea con
Monet-Cézanne, agisce in modo molto opposto. Cioè, non ‘riduce’, ma estende
l'evoluzione passata dell'arte umana cessando qualsiasi forma di imitazione di
ciò che la natura ha già creato, smettendo di imitare la luce come in pittura e
abbandonando la nozione limitata di forma come in scultura. La nuova arte
libera l'artista e gli permette di creare la propria arte in tutte le
dimensioni della realtà spaziale. L'artista è libero dal
condizionamento verso le creazioni biologiche della natura e può adoperare ciò
che è adatto in modo speciale alla creazione umana: la struttura geometrica”
[42]. Infine anche Calder offre – a vent’anni di distanza – un’interpretazione
strutturalista dei propri modelli sospesi degli anni Trenta: “Il senso della forma sottostante il mio
lavoro è il sistema dell'universo, o parte di esso. Per questo è un modello
piuttosto grande da cui cominciare a lavorare” [43].
Fine della Parte Prima
Vai alla Parte Seconda
NOTE
[1] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art, New York, Pantheon Books, 1985, 302 pagine. Il libro è consultabile all’indirizzo https://archive.org/details/twentiethcentury0000asht. [2] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.3-13.
[3] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.4.
[4] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.7.
[5] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.7.
[6] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.9.
[7] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.11.
[8] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.13.
[9] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.18-19.
[10] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.41.
[11] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.26.
[12] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.17.
[13] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.35.
[14] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.37.
[15] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.21.
[16] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.22-23.
[17] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.55.
[18] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.71.
[19] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.90.
[20] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.57.
[21] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), pp.79-80.
[22] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.47.
[23] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.86.
[24] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.58.
[25] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.59.
[26] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.61.
[27] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.60.
[28] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.50.
[29] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.54.
[30] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.89.
[31] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.68.
[32] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.72.
[33] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.81.
[34] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.83.
[35] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.73.
[36] Il testo è disponibile sull’internet all’indirizzo
http://www.artnet.com/usernet/awc/awc_historyview_details.asp?aid=424974671&awc_id=41831&info_type_id=5.
[37] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.98.
[38] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.99.
[39] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.104.
[40] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.103.
[41] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.105.
[42] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.95.
[43] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.96.
[37] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.98.
[38] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.99.
[39] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.104.
[40] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.103.
[41] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.105.
[42] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.95.
[43] Ashton, Dore - Twentieth-Century Artists on Art (citato), p.96.
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