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Luca Pezzuto
Padre Resta e il Viceregno.
Per una storia della pittura del primo Cinquecento a Napoli
Roma, UniversItalia, 2019
Recensione di Giovanni Mazzaferro
In copertina: Luigi Pellegrino Scaramuccia, Ritratto di Sebastiano Resta, Amsterdam, Gabinetto delle Stampe Rijksmuseum |
Per un recupero della figura
di Padre Sebastiano Resta
Il nome di Sebastiano Resta
(1635-1714) è stato associato per secoli dagli storici dell’arte alla sua
famosa collezione di disegni da un lato e al fatto che fosse un ciarlatano
(tale era ritenuto fin dal Settecento) dall’altro. Da una ventina d’anni a
questa parte, per fortuna, gli studi relativi all’erudito milanese,
trasferitosi a Roma nel 1661 e lì entrato nella Congregazione degli Oratoriani,
stanno riuscendo a rivalutarne la figura, senza nasconderne le debolezze (ad
esempio la sua mania per Correggio, che lo portava ad attribuzioni di manica
molto larga all’Allegri o a suoi discepoli), ma mettendone in evidenza anche i
molti pregi, a cominciare dall’attenzione per i Primitivi (sfuggita, ad esempio
a Previtali), per proseguire con l’attenzione verso scuole artistiche
‘eccentriche’ rispetto al canone tosco-romano che, all’epoca, andava per la
maggiore. Molti di questi meriti vanno ascritti agli studiosi dell’Università
Romana di Tor Vergata, che hanno dato vita al Padre Resta Project, con
l’intenzione di schedarne i materiali di lavoro: vale quindi la pena citare
(scusandomi in anticipo con chi dimenticherò) Simonetta Prosperi Valenti
Rodinò, Francesco Grisolia, Barbara Agosti, Carmelo Occhipinti, Maria Rosa
Pizzoni, Michela Corso e Luca Pezzuto, che in questi anni stanno dando vita a
una serie di pubblicazioni dedicate al religioso oratoriano [1].
Il problema, con Padre Resta, è
che è un personaggio estremamente sfuggente; la sua visione storiografica
(perché è evidente che ne ebbe una, e particolarmente brillante per i tempi)
non è legata all’avvenuta pubblicazione di un progetto editoriale o alla
redazione manoscritta del medesimo (anche se pare che avesse in mente qualcosa in
tal senso), ma ai suoi libri di disegni, che organizzò per temi e che donò o
vendette nel corso della sua vita; il destino degli album di disegni è spesso
quello di finire smembrati per motivi di ordine collezionistico e il primo compito dell’interprete è quello di ricostruire la scansione originaria
degli album. Il modello storiografico restiano è dunque, più di ogni altro, un
modello visivo, basato sull’esame dei disegni degli artisti. Se l’oratoriano
non pubblicò nulla in forma ‘canonica’, d’altro canto, è altrettanto vero che
fu un grafomane e che consegnò molte delle sue considerazioni in ambito
artistico a un numero infinito di postille o di glosse ai disegni da lui
collezionati, che, per la loro frammentarietà, pongono gli studiosi di fronte a
difficoltà ermeneutiche particolarmente elevate. Per restare alle note ai soli
volumi, sappiamo che Resta le appose a due esemplari delle Vite torrentiniane di Vasari (e la scelta di annotare la prima edizione delle Vite e
non la seconda, che pur conosceva, è di per sé strana), tre copie delle Vite di Giovanni Baglione, due dell’Abcedario pittorico di Padre
Pellegrino Orlandi, una dell’Accademia pittorica di Sandrart (nella
versione latina) e una della Felsina pittrice di Malvasia [3]
Un modello storiografico
inclusivo
L’aspetto che emerge
maggiormente, analizzando le postille e le glosse restiane, è la dura
contestazione alla narrazione filotoscana delle Vite vasariane.
Considerate le sue origini milanesi e il fatto che il padre fosse stato a sua
volta un collezionista di qualche fama, è tutto sommato comprensibile che
l’uomo dimostri una predilezione per la pittura lombarda, e ami tantissimo la
maniera correggesca. Più sorprendente, semmai, tenuto conto che dal 1664 visse
a Roma e che frequentò anche gli ambienti del classicismo belloriano, è vedere
Resta schierarsi dalla parte malvasiana nell’esaltazione della scuola bolognese
contro il filone ‘vincente’ della critica d’arte che aveva nella filiazione
tosco-romana il suo elemento distintivo. Sappiamo, ad esempio, che l’erudito di
origini milanese allestì un libro di disegni intitolato programmaticamente Felsina
vindicata contra Vasarium.
Il volume qui oggetto di
recensione si colloca perfettamente nell’alveo dell’attenzione di Resta nei
confronti delle realtà ‘periferiche’ (o, per meglio dire, di realtà che possano
fornire una visione alternativa dell’evoluzione della storia dell’arte). Luca
Pezzuto prende infatti in considerazione glosse e postille di Resta dedicate
alla pittura del Regno di Napoli (o, meglio, del Viceregno) nel corso del
Cinquecento. La prima cosa da dire è che, a quest’altezza cronologica, si
tratta – per quanto noto - del primo tentativo di ‘sistemazione’ del caso
napoletano in risposta alla vulgata vasariana, secondo la quale la
‘maniera moderna’ sarebbe stata introdotta in città da Vasari stesso, col suo
viaggio napoletano del 1544. De Dominici, con tutti i limiti che conosciamo,
scriverà infatti le sue Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani
soltanto una cinquantina d’anni dopo, fra 1742 e 1745. Ed è senza dubbio
indicativo che questo tentativo provenga, di fatto, da un ‘forestiero’ che
però, qui come esaminando il caso bolognese, dimostra la volontà di comprendere
meglio i fatti artistici al di fuori del canone che l’opera dell’artista e
scrittore aretino ha consegnato al mondo culturale italiano.
Padre Resta e il Viceregno nel
Cinquecento
Pezzuto propone un volume diviso
di fatto in due parti, che rappresentano tuttavia le facce di una stessa
medaglia. La prima riguarda l’inquadramento storiografico dato da Resta alle
vicende del Cinquecento napoletano; la seconda si sofferma sulle conoscenze e
sugli interlocutori dell’erudito nello stesso ambito geografico, a partire,
naturalmente, da Don Gaspar de Haro y Guzmán, marchese del Carpio.
I due si conobbero a Roma (il nobile spagnolo era stato nominato ambasciatore del re di Spagna nel 1677), molto probabilmente presso il circolo culturale di Cristina di Svezia, e condivisero la stessa passione per il collezionismo e per l’arte in generale. Quando il marchese fu nominato viceré di Napoli (1683), Resta lo seguì temporaneamente nella città campana in quanto suo padre spirituale e lì rimase circa quattro mesi. Non si trattava del primo viaggio dell’oratoriano nella capitale del Viceregno; sicuramente fu quella, però, l’occasione per elaborare in maniera più organica le sue considerazioni sulla genealogia napoletana. Lungi dal credere, tuttavia, che, contestando Vasari, Padre Resta, nelle sue postille, finisca per negarlo. In linea di massima, ad esempio, l’oratoriano adotta (e quindi accetta) la stessa visione evolutiva suddivisa in tre età (dai primitivi in senso stretto alla fase intermedia, contraddistinta da una maniera più morbida, ma affaticata, nell’imitare la natura, e, infine alla maniera moderna). Semmai, ed è questo il caso, Resta sostituisce i protagonisti vasariani con altri nomi; è così, ad esempio, che l’equivalente del Perugino e, quindi, del protoclassicismo, diventa Antonio Solario, detto lo Zingaro e il Raffaello napoletano è invece Andrea Sabatini o Andrea da Salerno che dir si voglia. Naturalmente la vera domanda è capire cosa e quanto conobbe l’oratoriano di questi artisti e quali furono i suoi strumenti di conoscenza. Con riguardo a quest’ultima domanda, nell’assenza sostanziale di fonti (se non periegetiche o legate alla pubblicistica sacra) mi pare che vi siano pochi dubbi sul fatto che Resta si basava, oltre che sulla lettura di Vasari e di altri autori (come Lomazzo), sulla visione diretta (e in tal senso la permanenza del 1683 a Napoli è la più significativa perché la più lunga in termini di durata) e su quanto venuto a sapere discutendo dell’argomento con il mondo dell’erudizione locale (quindi, in sostanza, con la tradizione orale); non va poi trascurato, più in generale, l'ambiente del collezionismo di disegni, in cui l’uomo era completamente a suo agio, e quindi la visione di opere attribuite (da altri o da lui stesso) agli autori in questione.
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Francesco de Grado (incisore), Ritratto del Marchese del Carpio Fonte: http://www.cervantesvirtual.com/portales/antonio_enriquez_gomez/imagenes_personajes/imagen/imagenes_personajes_07-gaspar_de_haro_y_guzman_marques_del_carpio/ |
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Raffaello, Madonna del Pesce, Madrid, Museo del Prado (a Napoli, presso la chiesa di San Domenico Maggiore dal 1514 al 1638) Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Raffaello_Sanzio_-_Sacra_Famiglia_con_Rafael,_Tobia_e_San_Girolamo,_o_Vergine_del_pesce.jpg |
I due si conobbero a Roma (il nobile spagnolo era stato nominato ambasciatore del re di Spagna nel 1677), molto probabilmente presso il circolo culturale di Cristina di Svezia, e condivisero la stessa passione per il collezionismo e per l’arte in generale. Quando il marchese fu nominato viceré di Napoli (1683), Resta lo seguì temporaneamente nella città campana in quanto suo padre spirituale e lì rimase circa quattro mesi. Non si trattava del primo viaggio dell’oratoriano nella capitale del Viceregno; sicuramente fu quella, però, l’occasione per elaborare in maniera più organica le sue considerazioni sulla genealogia napoletana. Lungi dal credere, tuttavia, che, contestando Vasari, Padre Resta, nelle sue postille, finisca per negarlo. In linea di massima, ad esempio, l’oratoriano adotta (e quindi accetta) la stessa visione evolutiva suddivisa in tre età (dai primitivi in senso stretto alla fase intermedia, contraddistinta da una maniera più morbida, ma affaticata, nell’imitare la natura, e, infine alla maniera moderna). Semmai, ed è questo il caso, Resta sostituisce i protagonisti vasariani con altri nomi; è così, ad esempio, che l’equivalente del Perugino e, quindi, del protoclassicismo, diventa Antonio Solario, detto lo Zingaro e il Raffaello napoletano è invece Andrea Sabatini o Andrea da Salerno che dir si voglia. Naturalmente la vera domanda è capire cosa e quanto conobbe l’oratoriano di questi artisti e quali furono i suoi strumenti di conoscenza. Con riguardo a quest’ultima domanda, nell’assenza sostanziale di fonti (se non periegetiche o legate alla pubblicistica sacra) mi pare che vi siano pochi dubbi sul fatto che Resta si basava, oltre che sulla lettura di Vasari e di altri autori (come Lomazzo), sulla visione diretta (e in tal senso la permanenza del 1683 a Napoli è la più significativa perché la più lunga in termini di durata) e su quanto venuto a sapere discutendo dell’argomento con il mondo dell’erudizione locale (quindi, in sostanza, con la tradizione orale); non va poi trascurato, più in generale, l'ambiente del collezionismo di disegni, in cui l’uomo era completamente a suo agio, e quindi la visione di opere attribuite (da altri o da lui stesso) agli autori in questione.
La classica dimostrazione che il
metodo seguito doveva essere di questo genere è data, a contrario, dalle
assenze nella ricostruzione restiana. Una delle più importanti, tenuto conto
dell’attenzione che sempre gli dimostrò, è, ad esempio, quella di Cesare da
Sesto, la cui importanza l’oratoriano mise in evidenza in relazione alla
presenza di artisti leonardeschi a Roma. Ma il motivo per cui Cesare da Sesto
non viene citato in relazione a Napoli è banale: l’unica fonte che lo nominava era Pietro Summonte nella sua lettera a Marcantonio Michiel del 1524, fonte che
rimase del tutto ignota fino alla fine del Settecento. Né Vasari né Lomazzo, né
evidentemente la tradizione orale locale trasmettevano memoria della presenza
dell’artista nella Napoli del Cinquecento.
Tornando ai nomi enunciati da
Resta, va detto che di Solario, ad esempio, dovette avere una visione piuttosto
generica (p. 50), basata sul ciclo degli affreschi con le Storie di San
Benedetto nel monastero dei Santi Severino e Sossio, su una perduta Deposizione
di Cristo all’epoca a Vietri e su un esiguo numero di disegni. Ma – fa
presente Pezzuto – quelli sopra indicati furono elementi sufficienti per
collocarlo cronologicamente in una posizione corretta e non troppo lontana
dalla realtà.
Senz’altro più articolato il
giudizio espresso in più occasioni su Andrea da Salerno, soprattutto in una
lunga nota presente nel ms. Lansdowne 802 (pp. 63-64). Qui Resta, basandosi
sulla visione di opere che, purtroppo, sono oggi andate quasi tutte perdute,
non solo stabilisce il parallelo fra il Sabatini a Napoli e Raffaello a Roma
(Sabatini collaborò con Raffaello a Roma attorno al 1509), ma ne individua
addirittura tre fasi su basi stilistiche: una “buona maniera…, ma pur anco
antica” che richiama quanto fu il protoclassicismo peruginesco per il
Sanzio, una “più tenera e gagliarda, e di disegno, inventione e dispositione
rafaelesca con una tinta che pare del Correggio” (Correggio è sempre pietra
di paragone nel mondo del religioso oratoriano) e, infine, uno stile senile “buono
sì e delicato, ma illanguidito di colore et indebolito di disegno”.
L’aspetto più importante è che – fa presente Pezzuto – pur nella forzata
assenza delle opere, è evidente, da quanto si può leggere, che, in questo caso,
l’analisi fu condotta con metodo rigorosamente autoptico.
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Antonio Solario detto lo Zingaro, Scene dalla vita di San Benedetto, 1502 circa, Napoli, Chiostri del Monastero di San Severino e Sossio Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Antonio_Solario_-_Scene_from_the_Life_of_St_Benedict_-_WGA21612.jpg |
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Andrea Sabatini (detto Andrea da Salerno), Deposizione dalla Croce, 1520, Napoli, Museo di Capodimonte Fonte: Mentnafunangann tramite Wikimedia Commons |
L’influenza di Resta nella
storiografia napoletana
Se torniamo per un attimo alle Vite
di De Dominici di metà Settecento, troviamo che, in maniera del tutto analoga a
Padre Sebastiano, l’autore parla di Antonio Solario e di Andrea da Salerno come
rispettivamente il Perugino e il Raffaello napoletani. In maniera secondo me
convincente, Pezzuto sostiene che De Dominici non conobbe né le postille né le
glosse restiane; se ne avesse avuto contezza, le avrebbe citate, come fece ogni
qual volta ne ebbe l’opportunità per dare credibilità a un’opera che, come
noto, si basava molto sulla fantasia dell’autore. La domanda che ne consegue è,
quindi, banalissima: come si trasmette la ‘nomenclatura’ restiana a De
Dominici, tenuto conto soprattutto che quella dell’oratoriano è una
classificazione sostanzialmente ‘a uso privato’? La risposta sta nella figura
di Padre Pellegrino Orlandi e del suo Abcedario pittorico (1704). È
noto che Resta postillò almeno due esemplari dell’opera e che almeno uno di
essi finì, dopo la morte di Sebastiano, proprio nelle mani di Orlandi, che ne
fece uso per modificare il suo lavoro (senza citare la fonte delle variazioni
apportate) nella seconda edizione del 1719. Non è peraltro del tutto assurdo
pensare a uno scambio di informazioni avvenuto fra Orlandi e Resta addirittura
prima dell’uscita della princeps. Fatto sta che De Dominici (almeno nel
caso di Andrea da Salerno) attinge dall’Abcedario pittorico (e la
citazione della fonte è esplicita). È insomma evidente che, pur confinata
sui margini di esemplari a stampa e sotto o sul retro di disegni, la
periodizzazione restiana transita cinquant’anni dopo nelle Vite di
Bernardo. Pezzuto non manca poi di segnalare situazioni in cui la stessa
periodizzazione riscuote l’interesse di
un Malvasia (pp. 73-74) e di Bellori (p. 78). In maniera carsica, insomma, le
postille e le glosse restiane mostrano una loro efficacia storica che l’autore
riesce, finalmente, a recuperare in pieno.
NOTE
[1] Scusandomi anche qui per
eventuali dimenticanze, mi pare il caso di segnalare Dilettanti del disegno
nell’Italia del Seicento. Padre Resta tra Malvasia e Magnavacca, a cura di
Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Roma, Campisano editore, 2013; Le
postille di Padre Sebastiano Resta ai due esemplari delle Vite di
Giorgio Vasari nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di Barbara
Agosti e Simonetta Prosperi Valenti Rodinò. Trascrizione e commento di Maria
Rosa Pizzoni, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2015; Le
postille di Padre Resta alle Vite del Baglione, a cura di Barbara
Agosti, Francesco Grisolia e Maria Rosa Pizzoni, Milano, Officina Libraria,
2016; Padre Sebastiano Resta. Milanese, oratoriano, collezionista di disegni
nel Seicento a Roma, Roma, Edizioni Oratoriane, 2017; Notizie di pittura
raccolte dal padre Resta. Il carteggio con Giuseppe Ghezzi e altri
corrispondenti, a cura di Maria Rosa Pizzoni, Roma, Universitalia, 2018.
[2] La ‘sfortuna’ restiana è
dovuta anche al fatto che non sempre i documenti a lui relativi furono proposti
in maniera corretta. Sappiamo, ad esempio, che il Bottari pubblicò nel secondo
e nel terzo tomo della sua Raccolta molte lettere scritte da Resta.
Tuttavia, almeno in un caso – scrive Francesco Grisolia – ciò
avvenne operando una fusione fra due missive diverse e provocando dei corti
circuiti logici che furono poi alla base della presunta scarsa affidabilità
dello studioso.
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