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lunedì 28 ottobre 2019

Herschel B. Chipp. [Teorie dell'arte moderna: un libro delle fonti ordinato per artisti e critici]. Parte Quarta



Storia delle antologie di letteratura artistica
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Herschel B. Chipp
Theories of Modern Art: a Source Book by Artists and Critics.
[Teorie dell’arte moderna: un libro delle fonti ordinato per artisti e critici]
Col contributo di Peter Selz and Joshua Taylor


Berkeley, University of California Press, 1968

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Quarta

Fig. 59) L’edizione spagnola dell’antologia di Herschel B. Chipp, tradotta da Julio Rodríguez Puértolas e pubblicata nel 1995 dall’editore Akal di Madrid con il titolo Teorías del arte contemporáneo. Fuentes artísticas y opiniones críticas. Da notare che il termine inglese ‘modern’ è tradotto in spagnolo come ‘contemporaneo’.

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L’ultima parte del post sull’antologia di Herschel B. Chipp è dedicata agli scritti degli artisti Dada, surrealisti e metafisici (settimo capitolo) e di quelli considerati dall’autore come contemporanei, attivi tra 1945 al 1968 (nono capitolo). Con il suo lavoro del 1968, Chipp è il primo autore americano a proporre una codificazione della letteratura artistica del XX secolo. Il suo testo rimarrà fondamentale per far conoscere a studenti e altri lettori gli scritti sull’arte di pittori e scultori del loro tempo.


Dada, Surrealismo e Scuola metafisica: l’irrazionale e il sogno
  
La produzione letteraria del primo Novecento legata all’irruzione dell’assurdo e dell’onirico come principi della creazione artistica è vastissima. Per accogliere i testi nella sua antologia, Chipp rispetta due criteri principali. In primo luogo, evita di citare tutti quegli scritti in cui esponenti del mondo dell’arte s’ispirano sì all’irrazionale e al sogno, ma non fanno derivare da essi un preciso indirizzo stilistico e iconografico volto a rompere con le convenzioni estetiche prevalenti. In secondo luogo, seleziona quei testi che discutono questioni di arti figurative, isolandoli da una quantità impressionante di pagine letterarie, filosofiche o di natura polemica più generale. In conclusione, identifica tre indirizzi: l’arte Dada, il surrealismo e la scuola metafisica. Quanto a quest’ultima, data la necessità di tradurre fonti italiane, Chipp si affida all’aiuto di Joshua C. Taylor.

Va detto che Elizabeth Gilmore Holt, nella sua recensione all’opera (ci è capitato di citarla spesso), non esita a criticare la scelta dei testi di questa sezione, discostandosi dal tono ampiamente positivo con cui valuta il resto della fatica di Chipp: “All’esplorazione del mondo inaugurato da Goya e per la prima volta abbozzato da Freud ed associati, ovvero il regno del Dada, dei surrealisti e della scuola metafisica, è dedicato un capitolo di citazioni interessanti ed uniche. E tuttavia il capitolo manca purtroppo di struttura organizzativa. La sezione surrealista avrebbe avuto bisogno di qualche chiarimento per renderla più utile a chi non è familiare con le tendenze generali e con il lessico” [69].


Il mondo Dada

Il movimento Dada nasce a Zurigo nel 1916. I primissimi testi svizzeri, pur citati da Chipp nella prefazione sulla sezione, non sono inclusi nella raccolta. I dadaisti trovano un’eco a Parigi dopo la guerra, ma anche i testi francesi non sono presenti. È invece rappresentato il dadaismo tedesco, con il testo storico-programmatico En avant dada dello scrittore Richard Huelsenbeck (1892-1974) del 1920, un articolo dell’artista Kurt Schwitters (1887-1948), tratto dalla rivista monacense Ararat e, infine un ultimo articolo del poeta franco-rumeno Tristan Tzara (1896-1963), pubblicato sulla rivista dadaista di Hannover Merz, di cui Schwitters era direttore.

Fig. 60) A sinistra: lo scritto En avant dada di Richard Huelsenbeck, pubblicato a Hannover e Lipsia nel 1921 (Fonte: www.zvab.de); a destra, il numero di gennaio 1921 della rivista monacense Ararat (fonte: http://sdrc.lib.uiowa.edu/dada/Ararat/1zj/images/000cover.pdf).

I motivi di esclusioni (svizzere e francesi) e inclusioni (tedesche) sono spiegati dall’antologizzatore nell’introduzione e nell’apparato critico: i componenti del gruppo dadaista svizzero – che hanno come loro riferimento Hugo Ball (1886-1927) – si riuniscono al Club Voltaire di Zurigo e si dedicano molto alla scrittura: compongono poesie e canzoni in un linguaggio intenzionalmente assurdo, scrivono testi nichilisti e organizzano azioni e serate dadaiste, “ma non hanno un leader, né una teoria né un gruppo organizzato. Solamente nel 1918, dopo quasi tre anni di attività, viene scritto un manifesto e anche in quel caso l’autore, Tristan Tzara, non ha alcuna pretesa di spiegare il movimento” [70]. Insomma, si tratta di letteratura, ma non di letteratura artistica. Chipp scarta anche testi di quegli anni di Marcel Duchamp e Francis Picabia (ovvero di artisti che introducono elementi di anarchia nella loro produzione già prima della fondazione del movimento Dada a Zurigo).

Finita la guerra, il movimento si diffonde in Germania: prima a Colonia con Max Ernst (1891-1976) e poi a Hannover, dove ai già menzionati Huelsenbeck e Schwitters si uniscono anche costruttivisti giunti dalla Russia (El Lissitzky -  Лазарь Маркович Лисицкий – 1890-1941) e dall’Olanda (Piet Mondrian 1872-1944, e Theo van Doesburg 1883-1931). È quest'incontro che rende la parola dei dadaisti di lingua tedesca più capace di descrivere le preferenze estetiche Dada (senza che la scrittura intacchi la radicalità dell’estetica). Sono pagine da cui si deduce anche come il dadaismo – un tempo semplicemente neutralista – sia fortemente permeato in Germania dal comunismo, in anni in cui la giovanissima Repubblica di Weimar è scossa da tentativi rivoluzionari opposti (i dadaisti sostengono i tentativi di lanciare insurrezioni sovietiche a pochi anni dalla Rivoluzione d’Ottobre a Pietroburgo) e dal crollo delle strutture portanti dell’economia (con l’iperinflazione).
  
Fig. 61) Dall’alto in basso e da sinistra a destra: l’originale dell’Almanacco Dada del 1920 di Richard Huelsenbeck, e le recenti traduzioni integrali in inglese, russo, giapponese, francese e spagnolo.

Ai testi di lingua tedesca seguono pagine di artisti scritte negli Stati Uniti negli anni Quaranta, e dunque in una fase storica in cui il movimento Dada si è ormai frammentato in indirizzi estetici diversi. Insomma, quegli scritti hanno più la natura di una ricostruzione storica che di un’affermazione programmatica; cercano di spiegare al mondo americano le ragioni della rottura di ogni continuità con il passato. Si tratta in un particolare di uno scritto di Jean Arp (1887-1966) del 1942, tratto da un catalogo di una mostra collettiva tenutasi alla galleria newyorkese Art of this Century di Peggy Guggenheim, e di un’intervista di Marcel Duchamp (1887-1968) con il critico d’arte James Johnson Sweeney (1900-1986), in occasione di un’altra mostra collettiva tenutasi al MoMa di New York nel 1946. Incontreremo di nuovo Sweeney in numerose altre occasioni.

All’epoca della loro pubblicazione i testi Dada erano ancora di difficile reperimento. È proprio grazie a un’istituzione accademica americana – ovvero all’Università dell’Iowa  – che a partire dal 2000 la situazione è radicalmente mutata: l’intera produzione scritta dei dadaisti è stata digitalizzata ed è oggi direttamente accessibile su Internet (si veda http://sdrc.lib.uiowa.edu/dada/index.html). Anche sul mercato librario il numero di pubblicazioni di testi dada si è inoltre moltiplicato. Solamente a titolo d’esempio, l’Almanacco dada di Richard Huelsenbeck, pubblicato a Berlino in tedesco nel 1920, è ormai comparso in traduzione integrale inglese nel 1993, russa nel 2000, giapponese nel 2002, francese nel 2005, italiana nel 2007 (a cura di Biblioteca d'Orfeo) e spagnola nel 2015. In italiano l’Almanacco esisteva già dal 1976 nel repertorio collettivo delle riviste dadaiste a cura di Arturo Schwarz edito da Feltrinelli. 

Fig. 62) L’antologia di Arturo Schawarz del 1976 e l’edizione italiana integrale dell’Almanacco Dada del 2007.

Surrealismo

Nella sezione surrealista Chipp include testi di Giorgio De Chirico (1888-1978), André Breton (1896-1966), Salvator Dalí (1904-1989), Max Ernst (1891-1976), Joan Miró (1893-1983), André Masson (1896-1987), March Chagall (1887-1985) e Roberto Matta (1911-2002). È evidente che Chipp ci offre una selezione più ampia e rappresentativa di surrealisti rispetto a quanto non abbia fatto per l’arte Dada. Con il surrealismo – scrive Chipp – la letteratura artistica compie infatti un salto di qualità: la scrittura degli artisti surrealisti è più matura, e riflette la capacità di organizzare una discussione ordinata all’interno del movimento artistico., anche grazie alla frequentazione di intellettuali di ambiti diversi da quello artistico. Tra di essi, André Breton – letterato e critico d’arte capace di rielaborare l’insegnamento Dada – esercita una chiara leadership culturale ed è in grado di elaborare orientamenti estetici precisi. Breton è fortemente influenzato dagli insegnamenti di Sigmund Freud (1856-1939) mettendoli in pratica durante la prima guerra mondiale, dato che lavora in un manicomio militare. Chipp chiarisce che, oltre a Freud, Breton è anche legato alle tesi politiche di Trotskij e alla filosofia estetica di Hippolyte Tayne (1828-1893).

Fig. 63) A sinistra: il saggio di André Breton e Philippe Soupault sui campi magnetici del 1920 (Fonte: https://www.sl.nsw.gov.au/stories/andre-breton-early-surrealist-publications). A destra: il manifesto del surrealismo del 1924 (fonte: Wikimedia Commons).

Con le sue iniziative Breton è il collante del gruppo abbondantemente in anticipo rispetto alla prima mostra di surrealisti del 1925, l’Exposition Internationale du Surréalisme di Parigi. Fin dai primissimi anni Venti, quando il gruppo non esiste ancora come entità organizzata, egli studia l’effetto dei campi magnetici sui meccanismi di creazione. Pubblica nel 1920 un saggio sui campi magnetici; nel 1922 studia con Max Ernst l’automatismo in pittura (i surrealisti credono a un automatismo psichico grazie al quale l’artista è un tramite per l’esecuzione automatica di immagini); nel 1924 scrive infine il Manifesto surrealista. 

Fig. 64) Dall’alto in basso e da sinistra a destra: la versione originale di Surrealismo e pittura del 1928, la versione giapponese del 1930, due edizioni francesi del 1965 e 2002, due edizioni inglesi del 1972 e 2002 e due italiane del 1965 e 2015.

Breton compila nel 1928 l’articolo Il surrealismo e la pittura sulla Nouvelle Revue Française. Un volume omonimo da lui curato e con contributi di Max Ernst, Giorgio de Chirico, Joan Mirò, George Braque, Jean Arp, Francis Picabia, Pablo Picasso, Man Ray, André Masson e Yves Tanguy esce lo stesso anno a cura di Gallimard e diviene il maggior testo teorico sulla pittura del surrealismo, pubblicato in molte lingue, senza interruzioni. Chipp ne pubblica un estratto molto ampio, traendolo dalla traduzione parziale già disponibile in inglese nel 1936. Aggiunge alcune pagine della conferenza Qu’est-ce-que le Surréalisme? (Che cos’è il surrealismo) tenutasi a Bruxelles nel 1934 e disponibile anch’essa in inglese dal 1936.
  
Fig. 65) Da sinistra a destra: Che cos’è il surrealismo?, la conferenza originale di André Breton a Bruxelles nel 1934, la traduzione inglese del 1936 e quella giapponese del 1969.

La passione per la scrittura non è caratteristica del solo Breton, ma coinvolge tutti i surrealisti, artisti inclusi. “I membri del gruppo erano scrittori prolifici, e pubblicarono un enorme corpus di articoli, racconti, saggi, fascicoli di propaganda e numerosi manifesti. La maggior parte dei loro scritti teorici si occupava di esperimenti e studi di metodo, alcuni dei quali tratti dalla psicologia, stimolando il subcosciente per ottenere alcuni esempi delle immense serie di immagini fantastiche e oniriche. Essi avevano un profondo rispetto per il metodo scientifico, specialmente quello psicologico; accettavano in pieno la realtà del mondo fisico, sebbene credessero di essersi immersi in esso in modo talmente profondo da poter trascenderlo; e credevano in una stretta interrelazione tra la loro arte ed elementi rivoluzionari nella società” [71].
  
Fig. 66) Dall’alto in basso e da sinistra a destra: la versione originale in francese di Hebdomeros (Editions de Carrefour, Francia, 1929), la prima traduzione in italiano (1942, Bompiani), l’edizione parigina Flammarion del 1964 e le prime traduzioni in tedesco (1964, Henssell), americano (1966, Four Seasons Book Society), inglese (1969, Peter Owen), olandese (1973, Meulenhoff) e spagnola (1977, edizione del Cotal).

Tra gli artisti surrealisti Chipp dà molto spazio a Giorgio de Chirico, presentando nella sua raccolta pagine addirittura precedenti, in termini cronologici, alle iniziative di Breton. L’antologia accoglie due estratti dell’artista italiano. Il primo è Meditazioni di un pittore, un manoscritto del 1912 di contenuto filosofico, rimasto inedito e pubblicato per la prima volta in inglese dal collezionista e critico d’arte James Thrall Soby (1906-1979) nel 1955 (e in italiano solamente nel 1970). Il secondo è Mistero e creazione, scritto nel 1913 e contenuto nella già citata raccolta Il surrealismo e la pittura di Breton del 1928. Si tratta, dunque, di testi ‘proto-surrealisti’. Nella bibliografia ragionata Chipp cita anche la fantasia autobiografica Hebdomeros. Le peintre et son génie chez l'écrivain, pubblicata da de Chirico in francese nel 1929 e poi tradotta in numerose lingue (a partire dall’italiano nel 1942) e ripubblicata più volte nel corso di molti decenni.

Fig. 67) A sinistra: La rivista Le Surréalisme au service de la révolution, uscita in sei numeri nel 1931. Fonte: https://www.edition-originale.com/it/riviste/periodici-letterari-ed-arte/collectif-le-surrealisme-au-service-de-la-1930-18138. A destra: La rivista Partisan Review in cui James Johnson Sweeney intervista March Chagall. Fonte: http://www.bu.edu/partisanreview/books/PR1944V11N1/HTML/files/assets/basic-html/index.html#I .

L’antologia offre inoltre alcune pagine di Salvador Dalí da Objets surréalistes del 1931. È un testo pubblicato in una rivista surrealista militante di lingua francese, intitolata Le Surréalisme au service de la révolution, periodico di cui escono solamente sei numeri. Il titolo della rivista contiene una chiara indicazione politica in favore del comunismo, ma l’articolo di Dalí è invece tutto centrato su questioni estetiche (l’artista spagnolo non era certo un comunista e accettò il dialogo critico sull’arte con il franchismo). L'anno precedente l’artista aveva pubblicato un saggio sul suo ‘metodo artistico paranoico-critico’, intitolandolo La Femme Visible. Nel 1935 esce un suo secondo volume teorico: La Conquête de l’irrationnel, edito lo stesso anno anche in inglese.

Fig. 68) Da sinistra a destra: il numero della rivista Cahiers d’art del 1936 in cui esce l’articolo di Max Ernst Al di là dell’arte; l’edizione americana del testo di Max Ernst a cura della pittrice americana Dorothea Tanning (1910-2012) pubblicata nel 1948; il saggio di Salvator Dalí del 1930 intitolato La femme visibile (La donna visibile), e infine il saggio di Dalí del 1935, intitolato La Conquête de l’irrationnel (La conquista dell’irrazionale).

Questioni di metodo sono al centro dei due contributi di Max Ernst del 1936 (sul collage e sul frottage) tratti dall’articolo Au delà de la Peinture (Al di là della pittura), pubblicato sulla rivista Cahiers d’Art del 1936. La traduzione inglese è disponibile dal 1948, a cura del MoMa di New York. Mirò è presente invece con due interviste: una del 1936 con lo storico d’arte francese Georges Duthuit (1891-1973) e l’altra con James Johnson Sweeney nel 1947 (è il critico di cui già sappiamo che aveva intervistato l’anno prima Duchamp). Tra gli artisti vicini ai surrealisti lo stesso Sweeney aveva intervistato March Chagall nel 1944 in Partisan Review (testo anch’esso inserito nell’antologia).

Fig. 69) Da sinistra a destra: tre testi di André Masson pubblicati negli anni cinquanta: Le plaisir de peindre (1950), Métamorphose de l’Artiste (1956) e Entretiens avec Georges Charbonnier (1958) e la traduzione italiana Il piacere di dipingere (1988). I testi non sono stati tradotti in altre lingue.

Importante anche il ruolo di André Masson, cui si deve una serie di pubblicazioni in francese negli anni Cinquanta, tradotte integralmente in altre lingue solamente in parte. L’antologia di Chipp include due testi: Peindre est une Gageure (la pittura è una sfida) del 1941 (tradotto in inglese nel 1943) e Una crisi dell’immaginario del 1944 (disponibile in inglese nel 1945).


L'arte metafisica

Come già spiegato, le pagine sull’arte metafisica sono curate da Joshua C. Taylor, lo studioso che assiste Chipp su tutti i testi italiani. Taylor racconta dell’incontro tra de Chirico e Carlo Carrà (1881 – 1966) a Ferrara, negli anni del primo conflitto mondiale. I due pittori (insieme al fratello di de Chirico, che usa lo pseudonimo di Alberto Savinio (1891 – 1952) hanno una vocazione per la scrittura e la teorizzazione estetica. Utilizzano la rivista d’arte Valori Plastici (1918-1921) di Mario Broglio (1891 – 1948) come strumento di diffusione delle loro convinzioni sull’arte metafisica, una teoria basata sull’irruzione dell’irrazionale nella creazione artistica che avrà effetto sui surrealisti francesi.

Fig. 70) A sinistra: la raccolta di Valori Plastici del 1919. A destra: Il volume Pittura metafisica di Carlo Carrà del 1919.

Di de Chirico (già incluso nella sezione precedente sul surrealismo con due testi) compaiono qui due ulteriori estratti: Zeusi l'esploratore e Sull’arte metafisica. Mai tradotti fino ad allora in inglese, erano comparsi nella rivista Valori plastici rispettivamente nei numeri di gennaio e aprile-maggio del 1918. Di Carrà – di cui Taylor sottolinea le differenze sia rispetto a de Chirico sia rispetto ai surrealisti – l’antologia ospita Il quadrante dello spirito, articolo pubblicato sempre sul numero di aprile-maggio di Valori plastici. La bibliografia ragionata segnala anche il saggio La pittura metafisica del 1919, pubblicata da Vallecchi. Non ne esiste traduzione in altra lingua (e anche in italiano, dopo la pubblicazione della seconda edizione rivista del 1945, non ne risultano di successive).


La letteratura artistica dal 1945 al 1969

Chipp tenta in questo capitolo l’operazione forse più difficile: quella di codificare i testi di pittori e scultori dei suoi decenni, quando New York, immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, surclassa Parigi, Londra, Roma o Tokio come centro di sviluppo dell’arte contemporanea. Fino a questo punto era normale chiedersi in che lingua erano stati pubblicati in origine gli scritti riportati in antologia e se erano già stati tradotti in inglese prima dell’iniziativa di Chipp, ora la questione è invertita: per la diffusione globale della letteratura artistica è importante che scritti americani vengano tradotti nelle maggiori lingue del globo. Per molti di essi ciò non è ancora avvenuto: alcuni scritti fondamentali di letteratura artistica americana sono incomprensibili a chi non parli inglese.

I testi inclusi nel capitolo sull’arte contemporanea sono raccolti da Chipp in due sezioni, la prima dedicata agli americani e la seconda agli europei (tutti europei occidentali, in realtà). Secondo Chipp, l’interpretazione della letteratura artistica del dopoguerra è accomunata dalla convinzione che l’arte contemporanea si deve leggere come strumento di piena realizzazione, al di qua e al di là dell’Atlantico, dell’autonomia delle opere. Dunque, implicitamente, con l’arte del presente si conclude un lungo percorso di indipendenza dell’artista dalla semplice produzione di beni, che si era avviato sin dal Rinascimento.

Ciò che succede negli Stati Uniti e in Europa, tuttavia, non è in realtà affatto identico: nella sua recensione del 1972 Elizabeth Gilmore Holt sottolinea anzi il contributo di Chipp di comprendere pienamente le differenze fra artisti statunitensi ed europei nei loro approcci teorici [72]. I giovani pittori americani si rivelano, anche in pittura, più individualisti e maggiormente portati all’espressione dei sentimenti, gli europei sono guidati invece da schemi concettuali comuni e ispirati da teorie filosofiche.

Vi sono due ulteriori aspetti che vanno immediatamente segnalati dal punto di vista metodologico. In primo luogo, in questa sezione diventano predominanti le dichiarazioni degli artisti pubblicate nei cataloghi in occasione delle loro mostre. “Infine, la crescente pratica di musei e gallerie, che pubblicano dichiarazioni degli artisti in cataloghi sempre più elaborati, incoraggia gli artisti a enunciare direttamente le loro intenzioni verso il pubblico. Ma tutte queste opportunità e incoraggiamenti, anche se talvolta risultano in idee che sembrano forzate, producono in generale un corpus importante di teoria chiara e rilevante” [73]. Sono importanti anche articoli e interviste pubblicati su riviste. Oggi esiste in realtà anche una vasta produzione di letteratura artistica in monografie che copre i decenni tra 1945 e 1969. Evidentemente, al momento della comparsa dell’antologia, la raccolta degli scritti dei contemporanei in forma di volumi non era ancora avviata. 

Fig. 71) Da sinistra a destra: Clement Greenberg, Arte e cultura (1961); Harold Rosenberg, La tradizione del nuovo (1959); Hilton Cramer, Prospettive sull’arte (1961) e Michel Tapié, Un’arte diversa – o si tratta di nuovi svuotamenti del reale? (1952)

In secondo luogo, diviene importante il ruolo dei critici, i cui testi sono presentati a fianco di quelli degli artisti (un riferimento ai critici esiste nel titolo dell’antologia, ma in realtà li si trova solamente qui). È evidente come divenga importante per l’antologizzatore riferirsi all’interpretazione dei suoi colleghi per aiutare il lettore nella comprensione critica di testi che fanno riferimento a sviluppi spesso sorprendenti e forse criptici. I quattro critici presi in considerazione nell’antologia sono gli americani Clement Greenberg (1909-1994), Harold Rosenberg (1906-1978), e Hilton Kramer (1928-2012) nonché l’europeo Michel Tapié (1909-1987). Non è certo un caso che si debba a questi quattro la fissazione di alcune delle categorie più famose relative all’arte dell’epoca (come l’invenzione del termine ‘action painting’ da parte di Rosenberg nel 1952 e ‘art informel’ da parte di Michel Tapié, sempre nel 1952). Pur cosciente del loro contributo fondamentale, ho deciso di non presentare riferimenti ai loro scritti in questa recensione per motivi di spazio.


Gli artisti americani

Fig. 72) Dall’alto in basso e da sinistra a destra: le versioni di The Art Spirit di Robert Henri del 1923 e del 1939, quella del 1960, tre edizioni degli anni Ottanta, e da ultimo quelle del 2007 e del 2019.

Robert Henri (1865-1929), il primo degli americani i cui scritti sono illustrati nella sezione, in realtà anticipa almeno di una generazione tutti gli altri. È infatti leader della Ash Can School, una scuola realista sviluppatasi a New York tra 1907 e 1912. Insomma, Henri è il padre nobile di tutti i modernisti americani, e i suoi scritti, riordinati nel 1923 dalla pittrice Margery Ryerson (1886-1936) in un volume che si intitola The Art Spirit, divengono una fonte d’ispirazione per molti suoi epigoni. Henri sostiene la vocazione degli artisti americani a trovare nella rappresentazione della realtà una ragione etica che vada al di là di ogni idea di puro estetismo, ossia del principio dell’ ‘arte per l’arte’. The Art Spirit viene ripubblicato negli Stati Uniti ben undici volte, l’ultima della quale proprio quest’anno (2019), ed è dunque una dei punti di riferimento della letteratura artistica americana. Ne esiste un’edizione tedesca solamente dal 2015 (Der Weg zur Kunst), mentre non risultano altre traduzioni in altre lingue.

In contrapposizione a questa chiave di lettura ‘etico-realista’ della funzione dell’arte si afferma nel mondo americano anche la visione di chi fa arte per il solo piacere di sperimentare. Si tratta in realtà di un’idea mutuata dalla Francia. Già prima della Grande Guerra artisti e appassionati d’arte statunitensi cercano di soggiornare a Parigi, che offre loro occasioni di apprendimento, sviluppo e sperimentazione di un nuovo modo di guardare l’arte. Spendere qualche anno della propria vita tra Montmartre e Montparnasse diviene ancor più comune dopo che la gioventù americana fa la conoscenza dell’Europa sui campi di battaglia. Nella capitale francese gli americani si entusiasmano per Cézanne e i cubisti. Alcuni di loro, come Marsden Hartley (1877-1943) e Joseph Stella (1877-1946) non frequentano solamente Parigi, ma portano negli Stati Uniti anche gli insegnamenti dell’espressionismo tedesco e del futurismo italiano. Al ritorno negli USA i modernisti si raccolgono spesso attorno al gallerista e fotografo Alfred Stieglitz (1864-1946) a New York. 

Fig. 73) A sinistra: la locandina dell' International Exhibition of Modern Art a New York nel 1913. A destra: un manifesto che illustra il Federal Art Project nel 1936. Per entrambi la fonte è Wikipedia Commons

Chipp interpreta lo sviluppo dell’arte americana come un andamento ciclico di incontri e scontri tra i due orientamenti, quello realista e più intimamente americano, spesso caratterizzato da esigenze etiche, e quello internazionale, più libero ed estetico. Un momento di rara unità è l’organizzazione comune dell’International Exhibition of Modern Art (Armory Show) del 1913, una mostra itinerante tenutasi a New York, Chicago e Boston che fa conoscere al pubblico le scuole d’arte europee e i giovani artisti americani [74]. Tuttavia, quando la Grande Depressione colpisce il paese nel 1929, la frattura tra i due fronti si riallarga: messo di fronte al dramma dell’impoverimento della società, il mondo dell’arte si divide nuovamente tra  regionalisti e internazionalisti. I primi ritengono doveroso ritornare alla rappresentazione fedele della vita semplice della tradizione americana del Midwest (in nome di un isolazionismo che non è solo culturale, ma anche politico). I secondi (ormai privi di fonti di sostentamento perché le famiglie non li possono più mantenere all’estero) sono costretti a ritornare nel paese dagli anni parigini, ma vogliono fare di New Work il nuovo centro di creazione dell’arte contemporanea. Ancora una volta si ha un riavvicinamento tra i due indirizzi quando il Federal Art Project, sponsorizzato dalla Works Progress Administration (WPA) nel quadro del New Deal rooseveltiano, interviene a soccorso degli artisti ridotti alla miseria più nera promuovendo un intenso programma di decorazione degli edifici pubblici e sostenendo consapevolmente artisti di tutti gli orientamenti.

Il progetto federale del WPA, conclude Chipp, riesce là dove le accademie d’arte avevano fallito, creando un’arte contemporanea innovativa, ma di impronta fortemente etica. “Nonostante lo ‘stile del WPA’, in particolare nel caso dell’arte per edifici pubblici, sia spesso un genere di realismo stilizzato privo di ispirazione, vi sono anche alcuni importanti monumenti, come i murali di Arshile Gorky per l’aeroporto di Newark (oggi perduti o distrutti) che combinano un tema socialmente utile con uno stile vigorosamente moderno basato sul cubismo” [75].  Quando la WPA alla fine della stagnazione economica viene sciolta per aver raggiunto il suo scopo , essa “ha rafforzato l’identità degli artisti. (…) Avendo sofferto insieme durante la depressione e avendo provato di poter comunque sostentarsi grazie alla loro professione, questi uomini ne escono con un’accresciuta consapevolezza di se stessi come artisti, e, in particolare, come artisti americani. (…) Nel modo di pensare degli artisti, anche se non nelle loro opere, rimane un forte elemento di ciò che è allora chiamato ‘importanza sociale’. Questa tradizione di pensiero, che è stata vigorosamente divulgata da Robert Henri ancor prima della grande guerra, rinforza il sentimento americano che l’arte sia un mestiere serio, connesso con la vita, con il modo con cui la si deve osservare e sperimentare e con tutti i suoi problemi. È ormai un punto di vista del tutto opposto a quello che prevaleva in America prima dell’Armory Show (…) ovvero che l’arte fosse un bene culturale raro, normalmente creato in Europa, che esisteva solamente nei musei oppure come decorazione dei ricchi” [76].

Inevitabilmente, gli eventi geopolitici rafforzano l’identità americana anche nel campo dell’arte. Il patto Molotov-Ribbentrop devasta la legittimità culturale del comunismo, la caduta della Francia in mano a Hitler elimina il ruolo monopolistico di Parigi come culla dell’arte, l’attacco di Peal Harbour pone gli Stati Uniti al centro della Guerra Mondiale. “La nuova consapevolezza di vivere in un mondo globale e il conseguente cosmopolitismo sono il colpo finale all’isolazionismo politico degli anni della depressione e all’arte regionalista che lo riflette” [77]. È questo il contesto in cui un gruppo di artisti del programma WPA produce – all’interno della cosiddetta scuola di New York – un nuovo stile che finirà per conquistare l’interesse del mondo intero: sono Stuart Davis (1892-1964), Mark Tobey (1890-1976), Bradley Walker Tomlin (1899-1953), Mark Rothko (1903-1970), Arshile Gorky (1904-1948), Willem de Kooning (1904-1997), Jackson Pollock (1912-1956), William Baziotes (1912-1963) e Robert Motherwell (1915-1991). Sul mercato dell’arte molti di loro saranno lanciati da Peggy Guggenheim (1898-1979) con la sua Art of This Century Gallery a New York. È soprattutto ai loro scritti che Chipp dedica il suo corpus di letteratura artistica americana contemporanea.

Consideriamo ora gli scritti inclusi in questa sezione dell’antologia. Vorrei ricordare in primo luogo Stuart Davis e Marsden Hartley, due artisti attivi tra le due guerre mondiali. 

Fig. 74) A sinistra: l’autobiografia di Stuart Davis, pubblicata all’American Artists Group nel 1945. A destra: il catalogo della mostra su Stuart Davis al MoMa di New York, a cura di James Johnson Sweeney, tenutasi lo stesso anno.

Di Stuart Davis (1892-1964) Chipp presenta numerosi scritti. In pittura Davis combina l’ispirazione alla rappresentazione della vita nelle strade delle grandi città, tipica di Robert Henri (di cui è studente) e della pittura Ash Can, con un forte attaccamento all’arte d’avanguardia. Durante gli anni a Parigi si innamora del cubismo e dell’arte di Fernand Léger, che interpreta sotto il punto di vista dell’efficientismo americano. Ne nasce uno stile personalissimo, che combina il paesaggio americano, gli influssi della musica jazz di cui è grande esperto e la plasticità cubista. Davis discute sul tema in Vi è un’arte americana? già nel 1930 e descrive L’arte astratta nella scena americana nel 1941. Nel 1945 pubblica, grazie all’American Artists Group, una breve autobiografia dal titolo Stuart Davis da cui Chipp pubblica lunghi estratti: sono pagine che trattano di Robert Henri, dell’Armory Show e di natura e astrazione.

Fig. 75) L’autobiografia di Marsden Hartley, nell’edizione originale del 1921 e nella più recente edizione nel 2011

Marsden Hartley, membro dei circoli modernisti raccolti a New York attorno a Stieglitz, è artista di successo già nei primi decenni del secolo sia a Parigi sia a Monaco di Baviera. La sua autobiografia – mai tradotta in nessuna altra lingua – celebra però il suo ritorno all’arte americana e ai suoi valori. Oltre a estratti da quel testo, Chipp trae numerosi passi da riviste e cataloghi.

L’antologia fa un salto temporale ai primi anni della Seconda Guerra Mondiale, quando il gruppo dei surrealisti europei si trasferisce a New York per sfuggire al conflitto, dopo aver conquistato il pubblico americano già nel 1936 con la mostra al MoMa dedicata a Fantastic Art, Dada, Surrealism, curata da Alfred H. Barr (1902-1981). 

Fig. 76) Da sinistra: la locandina della prima mostra di Arshile Gorky a New York nel 1945; il catalogo della mostra retrospettiva a lui dedicata, tenutasi al Whitney Museum of American Art a New York nel 1951, e curata da Ethel Schwabacher e Lloyd Goodrich; il testo di una monografia di Ethel Schwabacher nel 1957; la monografia di Harold Rosenberg su Gorky del 1962.

L’artista americano che è più influenzato dall’arrivo dei surrealisti a New York è Arshile Gorky, che beneficia di un’introduzione a firma di André Breton nel catalogo edito in occasione della sua prima mostra a New York nel 1945. Chipp pubblica citazioni di Gorky tratte da numerosi saggi a lui dedicati della pittrice Ethel Schwabacher (1903-1984) negli anni Cinquanta.

Fig. 77) Il testo Alla ricerca del reale nell’edizione originale del 1948 e in quella pubblicata vent’anni più tardi dal MIT.

Per Chipp è fondamentale il ruolo di intermediazione culturale svolto da Hans Hoffman (1880-1966), pittore astratto che si forma tra Francia e Germania già nei primi decenni del secolo. Hoffman è vicino a tutti i grandi dell’astrazione europea e fonda addirittura a Monaco di Baviera la prima scuola d’arte astratta. Già negli anni Trenta gli scritti di Hoffmann per la scuola monacense (Form und Farbe in der Gestaltung: Ein Lehrbuch für den Kunstunterricht – Forma e colore nella creazione: un manuale per la lezione d’arte) circolano in inglese a uso degli studenti statunitensi (Creation in Form and Color: A Textbook for Instruction in Art). Con la presa del potere del nazismo Hofmann trasferisce la sua scuola a New York. Ormai più che sessantenne viene scoperto anche come pittore e maestro degli espressionisti astratti americani. Una traduzione di suoi testi pedagogici in tedesco compare nel 1948 in occasione di una mostra alla Addison Gallery of American Art, in una raccolta con il titolo Alla ricerca del reale.

La teoria di Hoffmann – scrive Chipp – si basa sulla convinzione che l’arte astratta abbia la sua origine nella natura. Riflette il suo credo nella dualità del mondo dell’arte e del mondo dell’esteriorità, simile alla teoria dei simbolisti. Tratta del colore come un elemento in sé stesso che è capace di esprimere le sensazioni più profonde, in modo simile alle teorie di Kandinskij e degli espressionisti, se non addirittura direttamente derivate da loro. Inoltre egli si occupa anche della forma nella tradizione di Cézanne e del cubismo. Le teorie di Hofmann sono rimaste essenzialmente le stesse durante circa cinquant’anni d’insegnamento e pittura e hanno costituito il fondamento di molta della teoria contemporanea sull’arte astratta” [78].

Con gli anni Cinquanta si insedia nell’East Side di New York il gruppo degli artisti espressionisti astratti e action painters che verrà poi conosciuto come Scuola di New York. Citando il critico e storico dell’arte Meyer Shapiro (1904-1996), Chipp osserva che l’irruzione dell’espressionismo astratto negli Stati Uniti ha il tono di una vera e propria ribellione generazionale [79]. Si tratta in realtà dell’azione simultanea di un raggruppamento di personalità contraddistinte da stili ed esigenze diverse. Al di là del fatto di operare dall’East Side e coltivare un rapporto di amicizia fraterna tra loro – scrive Chipp –  gli artisti non hanno quasi nulla in comune. 

Fig. 78) Raccolte di scritti di Robert Motherwell nelle versioni del 1994, 1997 e 2007

Oggi si tende a pensare che la personalità di maggior spicco per  capacità teoriche e di scrittura nella Scuola di New York sia stata quella di Robert Motherwell. Raccolte di suoi scritti compaiono fin dagli anni Novanta. A Motherwell, per inciso, dobbiamo anche un’antologia di scritti e pittori Dada pubblicata nel 1951 dal MoMa. Eppure, nell’antologia di Chipp, Motherwell compare solamente una volta, con una brevissima citazione (due righe!) del 1944. Anche gli estratti degli altri maggiori artisti dell’epoca (Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning) sono davvero brevi. La loro voce si legge collettivamente nel testo di una conferenza tenutasi al MoMa di New York (Quel che l’arte moderna significa per me) e nella trascrizione di una sessione comune di lavoro (Una sessione degli artisti) entrambe del 1951. Più consistente è la presenza nell’antologia di scritti di Barnett Newman (1905-1970), che colpiscono Chipp per la loro attitudine molto individualista [80]. 

Fig. 79) Da sinistra a destra: il convegno Quel che l’arte moderna significa per me al MoMa del 1951 e le raccolte di scritti di Willem de Kooning (1988), Barnett Newmann (1990), Mark Rothko (2004) e Jackson Pollock (2006)

Oggi esistono scritti e testimonianze di ognuna delle grandi personalità della Scuola di New York. La raccolta di scritti (Collected Writings) di de Kooning è stata curata da George Scrivani nel 1988; quella di Barnett Newmann (Selected Writings and Interviews) nel 1990 grazie a John Philip O'Neill; una raccolta postuma di Works, Writings, Interviews di Pollock esiste dal 2011 grazie a Nancy Jachec; di scritti di Rothko sono usciti, anch’essi postumi, due volumi: The artist's reality: philosophies of art a cura del figlio Christopher nel 2004 e Writings on art nel 2006 a cura di Miguel López Remiro.

La serie dei passi dedicati alla pittura americana si conclude con Claes Oldenburg (1929-) e George Rickey (1907-2002). Il primo è l’unico degli artisti della Pop art inserito nell’antologia, anche se il suo testo è tratto dalle discussioni radiofoniche tra Oldenburg stesso, Roy Lichtenstein (1923-1997) e Andy Warhol (1928-1987), pubblicate in Artforum nel 1966. Rickey è il promotore della scultura cinetica; è presente con un’intervista del 1965, il testo più recente nell’opera di Chipp.


Gli artisti europei

Gli artisti europei del dopoguerra sono presenti con scritti di undici personalità. Prevalgono – in termini numerici –  gli scultori: sono Henry Moore (1898-1986), Alberto Giacometti (1901-1966), Étienne Hajdú (1907-1996), Hans Uhlmann (1900-1975), Eduardo Paolozzi (1924-2005), Davide Boriani (1936-) e Philipp King (1934-). La pittura è presente con Constant Nieuwenhuys (1920-2005),  Jean Dubuffet (1901-1985) e Francis Bacon (1909-1992). Michel Tapié, come già ricordato, è incluso nell’antologia come critico d’arte e teorico dell’informale.

L’Europa del secondo dopoguerra, ricorda Chipp, non è solamente devastata e impoverita dal conflitto, ma ha subito l’emigrazione e la fuga di gran parte dei gruppi d’artisti dei decenni precedenti. Spesso la destinazione è stata New York. I surrealisti si sono trasferiti in massa nella metropoli americana; torneranno con qualche eccezione a Parigi, ma non saranno più interpreti di riferimento del sentimento artistico europeo. Se ne sono andati negli USA altri artisti-teorici come Mondrian. Il destino è stato crudele con molti dei maggiori pittori e scultori degli anni Trenta. Quando è stato possibile gli espressionisti tedeschi sono fuggiti dal nazismo, ma le loro opere sono state in gran parte distrutte. I cubisti, con l’eccezione di Léger, sono rimasti in Francia a causa della tarda età, finendo però in pieno isolamento. I pittori più giovani, come i francesi Alfred Manessier (1911-1993) e Pierre Soulages (1919-) e il tedesco Fritz Winter (1905-1976), sono stati arruolati e sono finiti in prigionia.

Chiunque inizi a fare arte in Europa negli anni Cinquanta non può che iniziare da una riflessione esistenziale sui fallimenti e sulle tragedie, anche personali, dei pittori e scultori delle generazioni precedenti. Al tempo stesso, Chipp aggiunge, i giovani artisti europei possono beneficiare di un’esposizione all’arte internazionale come mai era stato possibile sino ad allora. Gli artisti europei “hanno dunque due fonti ideologiche differenti: la conoscenza e il rispetto radicato per i valori tradizionalmente accettati – sebbene essi siano stati seriamente posti in dubbio dallo spirito di delusione e cambiamento del dopoguerra – ed un’esposizione a idee provenienti da paesi diversi, idee che erano facilmente accessibili come risultato di un nuovo punto di vista sul mondo, ormai considerato come un sistema unitario” [81]. 

Fig. 80) Raccolte di scritti di Moore in inglese, pubblicate (da sinistra a destra) nel 1966, 1971, 2002 e 2010..

Gli europei, insomma, hanno un istinto diverso dai colleghi americani. Soprattutto in Francia essi producono un’arte intellettuale, basata sulla conoscenza della letteratura e della filosofia (fondamentale la conoscenza dell’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre (1905-1980) e sulla “teorizzazione delle sensazioni” [82].  La rivoluzione degli schemi iconografici tradizionali è meno ribellista e individualista di quella americana, e si basa su convincimenti comuni tra artisti.

Fig. 81) Edizioni degli scritti di Henry Moore in tedesco (1959), francese (1994) e italiano (2010)

Henry Moore viene presentato come uno dei “commentatori più acuti e intelligenti della scultura moderna” [83] anche grazie alla sua attività come insegnante e dirigente al Chelsea College of Arts di Londra. “Nonostante abbia scritto poco d’arte, i suoi pochi commenti sono notevoli in termini di chiarezza ed importanza. (…) I suoi scritti teorici si occupano di problemi fondamentali come l’interazione tra volume e spazio nella scultura, temi che sono questioni universali e a lui molto care” [84]. L’antologia presenta un articolo di Henry Moore intitolato The sculptor speaks, comparso nel 1937 sulla rivista The Listener, pubblicata dalla BBC. La sezione bibliografica segnala anche la raccolta di scritti Henry Moore on Sculture: a collection of the sculptor's writings and spoken words, a cura del critico Philip James (1901-1974), pubblicata prima in Inghilterra nel 1966 e poi negli Stati Uniti nel 1971. Nuove collezioni di scritti di Moore sono comparse nel 2002 (a cura di Alan Wilkinson) e nel 2010 (Tate Publishing).

Fig. 82) Raccolte di scritti in francese di Giacometti del 1992, 2001, 2006 e 2007. Le prime due immagini e l’ultima a destra si riferiscono alla raccolta curata da Leiris e Dupin, mentre la terza invece alla raccolta di Ángel González.

Alberto Giacometti viene visto come l’espressione della dualità dell’artista europeo, che da un lato esprime la sua ammirazione per l’arte rinascimentale e dall’altro aderisce alle riflessioni esistenzialiste, al punto che Sartre ne è corrispondente privilegiato. Chipp sceglie per l’antologia una lettera al gallerista e collezionista Pierre Matisse (1900-1989), pubblicata da Matisse stesso nel catalogo di una mostra di Giacometti a New York nel 1948 alla Pierre Matisse Gallery. Una prima raccolta di scritti di Giacometti è stata pubblicata dalla Fondazione Maeght in occasione di una mostra nel 1978. Una seconda, curata dallo scrittore Michel Leiris (1901-1990) e dal critico d’arte Jacques Dupin (1927-2012), ha visto la luce per i tipi dell’editore Hermann nel 1990 ed è stata oggetto di numerose ristampe. Una terza è stata curata da Ángel González nel 2006 ed è uscita contemporaneamente in francese e spagnolo. L’edizione curata da Leiris-Dupin è stata pubblicata anche in giapponese (1994) e italiano (1995, 2001 e 2011), quella di González in inglese (2017).

Fig. 83) Raccolte di scritti di Alberto Giacometti in tedesco (1965), giapponese (1994), spagnolo (2006), italiano (1995 e 2001) e inglese (2017)

Il gruppo Cobra è, forse, in Europa l'associazione più simile alla New York School. Chipp cita il manifesto Il nostro desiderio che fa la rivoluzione scritto dall’olandese Constant Nieuwenhuys e pubblicato dalla rivista Cobra in lingua francese nel 1949. 

Fig. 84) A sinistra: l’articolo Il nostro desiderio che fa la rivoluzione pubblicato su Cobra in francese nel 1949. Fonte: https://www.postwarcultureatbeinecke.org/cobra?lightbox=image23si. A destra: la rivista Reflex del 1949, organo olandese del Gruppo Cobra. Fonte: https://www.kunstveiling.nl

Di Jacques Dubuffet, inventore del concetto di Art Brut, viene pubblicato l’articolo Empreintes (Impronte) del 1957. Art Brut è il termine con cui l’artista francese chiamava la sua produzione negli anni Cinquanta. Dubuffet unisce il concetto che l’arte possa essere l’effetto di pura casualità con l’adesione al mondo degli oggetti fisici. “Uno degli aspetti essenziali del suo lavoro è la contraddizione costante, il contrasto tra i paesaggi indefiniti e quasi astratti e le figure chiaramente articolate e asimmetriche, tra il disegno preciso e l’assenza di linea, tra il colore sgargiante e i monocromi opachi, tra l’applicazione più pesante del materiale e la pittura più sottile. Altri aspetti significativi del lavoro di Dubuffet sono sottolineati in questo saggio, come la sua opposizione alla consapevolezza, che può solamente interferire con la pienezza dell’esperienza e la sua enfasi sulla mutabilità della materia in ogni complesso organico, come pure la sua attenzione agli elementi più semplici, ordinari e grezzi, che spesso vengono dimenticati nella ricerca di ogni categoria estetica” [85].

Fig. 85) Da sinistra a destra: le versioni francese (1968), italiana (1969), argentina (1970), portoghese (1971), statunitense (1988) e turca (2005) di Cultura asfissiante di Jean Dubuffet

L’insistenza di Chipp su Dubuffet non deve sorprendere. Nello stesso anno in cui viene pubblicata l’antologia, ovvero nel 1968, Dubuffet fa uscire Cultura asfissiante, un saggio assai polemico che gode di enorme popolarità. La sua tesi è che la cultura abbia ormai sostituito la religione come oppio dei popoli. Il libro diviene punto di riferimento per tutti gli artisti di ispirazione libertaria negli anni Settanta. Nel mondo americano, come abbiamo già visto nei diari di Keith Haring (1958-1990), l’artista francese è considerato un maestro fondamentale ancora negli anni Ottanta.

Fig. 86) Diverse versioni in lingua inglese delle interviste di David Sylvester a Francis Bacon (da sinistra a destra: 1971, 1975, 1980, 1987, 1988 e 2016)

Con Francis Bacon (l’ultimo autore che vogliamo citare in questa recensione) ci imbattiamo in una figura singolare. Da un lato Chipp sottolinea come – pur essendo autodidatta – egli sia uomo di cultura, che ha studiato Nietzsche, ha tratto motivi iconografici da Bosch, Velázquez e Van Gogh, e ha studiato manieristi e romantici [86]. L’artista traduce questi stimoli in una sua maniera “disperata, brutale e spesso terrificante (…) che esprime la crisi spirituale della vita urbana contemporanea” [87]. D’altro canto gli unici testi a lui riferibili sono esclusivamente tratti da interviste, dialoghi e conversazioni con diversi intelocutori, comprese le nove interviste tra 1962 e 1986 realizzate on il critico David Sylvester (1924-2001). Ne risulta la pubblicazione di numerose raccolte di colloqui, interviste e conversazioni, edite in molte lingue e molto frequentemente, mentre non vi è ancora oggi nulla di stampato che possa essere direttamente attribuibile alla sua persona.

Fig. 87) Edizioni italiane delle interviste a Francis Bacon di David Sylvester (1991, 2003 e 2008) e conversazioni di Franck Maubert con Francis Bacon (2010)

NOTE

[69] Holt, Elizabeth Gilmore - Theories of Modern Art by Herschel B. Chipp, in The Art Bulletin, Vol. 54, No. 2, giugno, 1972 (pp. 229-231). Il testo è disponibile all’indirizzo:
https://www.jstor.org/stable/3048987?read-now=1&seq=2#page_scan_tab_contents. Citazione a pagina 231.

[70] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book by Artists and Critics, with contributions by Peter Selz and Joshua C. Taylor, Oakland, University of California Press, 1968, 688 pagine. Il testo è integralmente disponibile all’indirizzo internet 
https://archive.org/details/theoriesofmodern00chip. Citazione a pagina 367.

[71] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 369.

[72] Holt, Elizabeth Gilmore - Theories of Modern Art by Herschel B. Chipp (citato), p. 231.

[73] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 513.

[74] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 503.

[75] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 505.

[76] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), pp. 506-507.

[77] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 507.

[78] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), pp. 511-512.

[79] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 501.

[80] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 515.

[81] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 590.

[82] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 590.

[83] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 590.

[84] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 591.

[85] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 592.

[86] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 593.

[87] Chipp's, Herschel Brown - Theories of Modern Art: A Source Book By Artists and Critics (citato), p. 593.

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