Pagine

mercoledì 31 ottobre 2018

Il Tesoro di Antichità: Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento. Parte Prima


English Version

Pubblicazioni in onore di Johan Joachim Winckelmann


Il Tesoro di Antichità
Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento

A cura di Eloisa Dodero e Claudio Parisi Presicce

Roma, Gangemi Editore, 2017, 384 pagine

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima

Fig. 1) La copertina del catalogo della mostra di Roma, con una sanguigna di Hubert Robert (1733-1808) del 1762 circa, che rappresenta un artista nella Galleria capitolina.

Dopo le mostre di Firenze, Napoli e Milano è stata la volta di Roma a dedicare una mostra a Winckelmann (1717-1768) in occasione del doppio anniversario della nascita (350 anni) e della morte (300 anni). L’esposizione, intitolata Il Tesoro di Antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento, si è svolta appunto preso i Musei Capitolini dal 7 dicembre 2017 al 20 maggio 2018. È stata l’occasione per celebrare l’erudito tedesco, ma anche la città che senza dubbio più ha influito nella sua vita professionale, e anche i Musei Capitolini, primo museo riservato all’arte aperto al pubblico (nel 1734, vent’anni prima che Winckelmann giungesse in città). La scena culturale di Roma presentava all’epoca un vivace panorama collezionistico di reperti antichi; in questo contesto spiccavano figure di grande spessore, come Francesco Bianchini (1662-1729), Alessandro Gregorio Capponi (1683 –1746) e Giovanni Gaetano Bottari (1689-1775).

Insomma, nella prima metà del Settecento, e ancora negli anni in cui Winckelmann giunge in città, Roma è centro culturale d’eccellenza: quando, il 10 febbraio 1756, il francese Jean-Jacques Barthélemy (1716–1795) scrive al Conte di Caylus (1692-1765) descrivendo la sua prima visita ai Musei Capitolini, queste sono le sue parole: “La prima volta che ho varcato la soglia del museo sono stato percorso come da una scossa elettrica. Non sono in grado di descriverVi l’impressione ricevuta da una tale raccolta di tesori. Questo non è un semplice studiolo: è la dimora degli dei dell’antica Roma; è il liceo dei filosofi; è il senato popolato dai re d’Oriente. Cosa posso dirVi? Una nazione di statue vive nel Museo Capitolino; è il grande libro degli antiquari” [1]. L’espressione che compare nel titolo della mostra (ovvero il “Tesoro di Antichità”, traduzione italiana di “Schatz von Alterthümern”) è usata da Winckelmann nell’epistolario con l’amico bibliotecario Johann Michael Francke (1717-1775), rimasto in Germania, per definire stupore e ammirazione per il museo romano. In Germania esistono già importanti collezioni d’arte antica (fra le quali – a Dresda – la collezione privata di statue greco-romane della casa regnante, acquistata da Augusto il Forte nel 1728 dalle casate Chigi e Albani), ma non sono facilmente visitabili dal pubblico, al punto che lo stesso Winckelmann non è riuscito a vederle [2].

Fig. 2) A sinistra: Pietro Nelli (1672–1730), Ritratto di Alessandro Albani, 1721-1729. Incisione di Girolamo Rossi (1682–1762) © The Trustees of the British Museum. Al centro: Marguerite Lecomte (1717-1800), Ritratto del Cardinale Alessandro Albani, 1734 @ Wikimedia Commons. A destra: Pittore sconosciuto, Ritratto di Alessandro Albani, 1729 @ Wikimedia Commons.

In realtà, sia la collezione di statue greco-romane di Dresda (almeno in parte) sia quella dei Musei Capitolini provengono dalle raccolte della famiglia Albani. È il cardinale Alessandro Albani (1692-1779) a vendere alla casa regnante di Sassonia trentaquattro delle sue statue nel 1728; ed è Papa Clemente XII (Lorenzo Corsini 1652–1740) a disporre con un legato pontificio l’acquisto di 416 sculture dalla collezione Albani nel 1734, proprio per evitare che esse si muovano verso altre capitali, forse ancora una volta a Dresda (dove la casa regnante è a caccia di opere d’arte dall’Italia anche per giustificare dal punto di vista culturale le proprie mire espansionistiche; riuscirà nell’intento, acquisendo la collezione dei dipinti della famiglia Este nel 1746 e la Madonna Sistina di Raffaello nel 1754). Le antichità degli Albani sono però tanto numerose che quando Winckelmann (più di vent’anni dopo le vendite citate) prenderà servizio presso il cardinale Alessandro, come suo bibliotecario, troverà nelle loro ville e possedimenti moltissime opere da studiare (molte di esse saranno riprodotte in Monumenti Antichi Inediti). E in punto di morte, a Trieste, Winckelmann nominerà proprio il cardinale Albani erede delle sue carte custodite a Roma. Dunque, mostra e relativo catalogo ci ricordano che uno dei protagonisti assoluti della vita culturale del Settecento in Europa fu un uomo di chiesa.


Uno sguardo d'insieme

L’introduzione [3] dei curatori dell’esposizione (Eloisa Dodero, studiosa della ricezione dell’arte antica nella Roma del Sei-Settecento e Research Assistant alla Royal Collection di Londra, e Claudio Parisi Presicce, archeologo, già Sovrintendente alle Belle Arti del Comune di Roma) ci presenta Winckelmann al suo arrivo a Roma nel 1755. Per lo studioso tedesco è un momento di vera e propria liberazione, com’egli stesso scrive al già citato Francke: “A Roma è assolutamente più accetto un uomo che non cerca niente o che non ha niente da cercare, di un elegante abate” [4]. Sono parole del 5 maggio 1756. Qualche mese prima, ovvero il 7 dicembre 1755, in un’altra lettera a Francke, Johann Joachim descrive la sua vita in città: “Vivo da artista; passo per tale anche nei luoghi dove i giovani artisti hanno licenza di fare i loro studi come nel Campidoglio. Qui è il tesoro delle antichità, Statue, Sarcofagi, Busti, Iscrizioni, ecc. e ci si può trattenere in tutta libertà dalla mattina alla sera” [5]. Johann Joachim tiene anche un taccuino, oggi conservato alla Bibliotheque Nationale de France a Parigi (lasciato in eredità da Winckelmann al cardinale Albani con tutte le sue carte, è parte del fondo che fu sequestrato dalle truppe napoleoniche durante l’occupazione di Roma e portato a Parigi [6]). La sua consultazione alla pagina https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b100376188/f1.image.r=winckelmann ci dà un’idea della metodicità della sua ricerca attraverso ville e palazzi di Roma che visita in quei mesi. Da segnalare che il taccuino è stato recentemente pubblicato in edizione critica in italiano [7] e in tedesco [8].

Fig. 3) La prima pagina del taccuino di Johann Joachim Winckelmann su ville e palazzi di Roma da lui visitati. Fonte: gallica.bnf.fr @Bibliothèque nationale de France

Nella città eterna Winckelmann riesce ad avere accesso, grazie ai cardinali Archinto e Albani, a tutti i reperti che desidera visitare; il legame con Albani diventa ben presto di stretta collaborazione e amicizia. Gli anni romani sono caratterizzati sia da un’intensa attività di studio sia da mansioni di accompagnamento scientificamente qualificato dei giovani nobili stranieri che giungono a Roma nel quadro del Grand Tour [9]. Studio e conoscenze aiutano Winckelmann sia a ottenere, otto anni dopo il suo arrivo, nel 1763, l’incarico di Commissario alle Antichità di Roma, sia a raccogliere i materiali per completare e pubblicare a Dresda nel 1764 la sua opera maggiore, la Storia dell’Arte degli Antichi (Geschichte der Kunst des Alterthums).


Alcuni contributi particolarmente significativi nella seconda sezione del catalogo

Nella prima parte di questo post prenderò in considerazione i contributi più rilevanti (dal punto di vista della letteratura artistica) contenuti nella seconda sezione del catalogo della mostra, catalogo pubblicato da Gangemi Editore. La sezione è dedicata alla storia del Museo Capitolino. Nella seconda parte di questo post concentrerò invece la mia attenzione sulla terza sezione del catalogo, centrata sul rapporto tra Winckelmann e il Museo Capitolino. La prima e la quarta sezione del catalogo, dedicate rispettivamente al Campidoglio e alla sua rappresentazione nel Settecento (sezione I) e agli allestimenti perduti del Museo Capitolino (sezione IV), quantunque assai interessanti, vanno al di là degli scopi di questo post.


Beatrice Cacciotti 
La collezione Albani nel Palazzo alle Quattro Fontane: «un affare glorioso per il Papa e di benefizio per Roma» [10]

Il saggio di Beatrice Cacciotti, archeologa e studiosa del collezionismo di antichità, si concentra sulla Roma del primo Settecento e la creazione della collezione Albani. Giovanni Francesco Albani (1649-1721) viene eletto papa con il nome di Clemente XI nel 1700; condivide con il nipote Alessandro “la passione per l’arte e la sua benevolenza si era più volte manifestata accogliendone le capricciose richieste” [11]. Quest’ultimo – prima di intraprendere la carriera ecclesiastica nel 1718 – “aveva ricevuto una formazione stimolante immersa tra pensiero arcadico e nuove scienze ed era cresciuto in un ambiente vivace e cosmopolitico, depositario di valori classici” [12]. Uno dei grandi operatori che aiuta Alessandro nell’acquisto delle opere è l’abate Francesco Bianchini, suo precettore, che la Cacciotti considera come il vero “deus ex machina” per la costituzione della prima collezione Albani [13]. Bianchini è un intellettuale di primo piano, contraddistinto dall’idea di un “sapere universale” [14] e di un interesse “enciclopedico” [15] che spazia dall’antichità all’astronomia. La prima testimonianza dell’interazione tra i due, volta alla creazione della collezione, è del 1706 (Alessandro ha solamente 14 anni, il suo precettore 44) [16]. A partire dal 1712 Bianchini induce gli Albani a finanziarie campagne archeologiche ad Anzio [17] e quegli scavi diverranno una delle maggiori fonti per la loro raccolta.  Al termine di dieci anni d’attività frenetica, Bianchini documenta la collezione in un primo Indice compilato nel 1717 (sia pure incompleto, perché include sessanta busti e teste, venticinque sarcofaghi e rilievi, ma nessuna statua). La Cacciotti segnala che l’inventario consente anche di capire da dove provengano i reperti (oltre agli scavi di Anzio): “I marmi passati in rassegna erano previamente appartenuti a nobili proprietari (Colonna, Carpegna, Giustiniani, Pamphili), a privati cittadini (l’avvocato Vincenzi, il cavalier Fontana, Carlo Cairoli), a ordini religiosi (i Padri della Certosa di Santa Maria degli Angeli), a mercanti e antiquari (Francesco de’ Ficoroni, Marco Antonio Sabatini, Domenico Amici, Antonio Borioni, Giovanni Giusto Ciampini), ai Conservatori di Roma e gli stessi familiari di Alessandro” [18]. Senza dubbio l’acquisto dei pezzi da un numero così ampio di proprietari è molto facilitato dal fatto che l’acquirente è, in ultima analisi, il nipote del Papa, e che quest’ultimo si opera per evitare che le opere lascino Roma con una serie di editti. Le acquisizioni di Alessandro sostengono fattivamente quella politica, permettendo alle famiglie romane in cerca di contanti di vendere i loro beni senza che questi siano trasferiti all’estero [19]. Il Papa stesso contribuisce con donazioni [20].

Fig. 4) Pietro Rotari (1707 - 1762), Ritratto di Francesco Bianchini, 1729 @ Wikimedia Commons

Nel 1721 Alessandro è nominato cardinale e si stabilisce nel Palazzo alle Quattro Fontane, acquisito da suo fratello maggiore Carlo solamente due anni prima. Lì il cardinale raduna fisicamente la sua collezione. Visitatori inglesi testimoniano nel 1720-1721 che la raccolta è ancora in fase di allestimento. Un secondo inventario, che questa volta comprende anche le statue, viene compilato su iniziativa di Richard Topham (1671-1730), uno dei maggiori collezionisti inglesi, verso la fine del decennio ed è oggi conservato nella biblioteca dell’Eton College [21]. Il numero dei busti è salito da sessanta a oltre trecento, quello dei sarcofagi da venticinque a quaranta. Esaminando la documentazione, la Cacciotti trova ulteriore conferma che le opere derivano dalle maggiori collezioni private romane dei due secoli precedenti, ovvero quelle intestate ai Della Valle, Cesi, Caetani-Ruspoli, Aldobrandini, Giustiniani, Pamphilj e Verospi-Vitelleschi [22]. Le statue sono solamente quarantadue, ma alcune di esse sono considerate come di primaria importanza e sono già state riprodotte da artisti famosi nei secoli precedenti (fra cui numerosi manieristi dell’Europa del Nord attivi a Roma, ma anche Rubens),  e il più delle volte contenute nei principali repertori di stampe prodotti dal Cinquecento al primo Settecento (Achille Stazio, Giovanni Battista de’Cavalleris, Pietro Santi Bartoli, Paolo Alessandro Maffei e Domenico de Rossi). Al Bianchini va attribuito l’interesse per un nucleo di opere provenienti dall’antico Egitto [23] e la particolare attenzione al materiale epigrafico (quasi cinquecento reperti, quale “fonte primaria per ‘provare’ la storia antica” [24]).

Fig. 5) A sinistra: Il Catalogo della Libreria Capponi, pubblicato nel 1747 (a un anno dalla sua morte) per promuovere la vendita del fondo librario. Fonte: https://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/berti1747/0007. A destra: Ferdinando Fuga (1699–1782) e René-Michel Slodtz (1705-1758), Monumento funerario di Alessandro Gregorio Capponi in San Giovanni dei Fiorentini a Roma, 1746 @ Wikimedia Commons

L’articolo della Cacciotti si conclude con un riferimento ai rischi di alienazione all’estero di quest’enorme patrimonio, dovuti alla disinvoltura finanziaria con cui Alessandro Albani aveva condotto i suoi acquisti giungendo sino all’orlo dell’insolvenza. Già nel 1724 risultano esservi state trattative con lo zar Pietro il Grande, il re di Spagna Filippo V e il re di Francia Luigi XV [25]. Nel 1728 (come già detto) un nucleo di trentaquattro statue è venduto ad Augusto il Forte a Dresda. È Papa Corsini (Clemente XII), ovvero il successore di Papa Albani a intervenire per evitare che una collezione così notevole lasci Roma. Il nuovo Papa incarica Alessandro Gregorio Capponi, altra figura di primo piano nella cultura del suo tempo, di condurre trattative per l’acquisto della collezione da parte dell’amministrazione pontificia. Il prezzo pattuito (66 mila scudi) è molto inferiore al valore di mercato, facendo intuire il valore politico-istituzionale della transazione. Anche in questo caso, non stiamo parlando di un grigio burocrate, ma di un grande collezionista di libri e manoscritti. Capponi lasciò alla sua morte una notevolissima biblioteca e il monumento funebre che commissionò  egli stesso per la sua tomba a Ferdinando Fuga (1699–1782) e René-Michel Slodtz (1705-1758) rivela la modernità dei suoi gusti, con motivi che sembrano anticipare il neoclassicismo. Come direttore del Museo Capitolino, tenne un Diario che è già stato recensito in questo blog


Saskia Wetzig 
Le antichità Albani a Dresda [26]

Saskia Wetzig lavora come come studiosa di scultura antica alle collezioni d’arte di Dresda. Nel suo breve articolo documenta come la collezione acquisita a Roma nel 1728 dai Chigi (160 statue) e dagli Albani (34), e giunta in città solamente nel 1730, resti esposta nel salone di rappresentanza del sontuoso edificio barocco del Palais im Großen Garten solamente per 17 anni. Tra queste opere la mostra romana espone una statua di Andromeda, appartenuta prima agli Orsini e poi agli Albani (compare nel secondo inventario della collezione Albani fatto eseguire da Richard Topham) prima di essere trasportata a Dresda. Lì, secondo prassi discutibilissima ai tempi nostri, ma del tutto normale all’epoca, la statua è ‘completata’ aggiungendovi una testa non pertinente (anch’essa di provenienza Albani) [27]. Le circa duecento statue greco romane vennero poi ammassate in una serie di magazzini in occasione della celebrazione di un matrimonio di corte nel 1747 e, in qualche modo, lì ‘dimenticate’. Lo stesso Winckelmann, come detto, non riuscì a vederle. Johann Joachim ricorda in proposito nel 1767: “Il più grande tesoro di antichità si trova a Dresda […] Ma io non sono in grado di descrivere l’apice della bellezza perché le migliori statue si trovano in un deposito di fortuna, impacchettate come aringhe, visibili sì, ma non certo osservabili” [28]. Paradossalmente, in seguito all’alluvione dell’Elba nel 2002, le statue sono state spostate in depositi e ancora oggi non sono visitabili (è previsto un nuovo allestimento nel 2019). 

Fig. 6) Christian Gottfried Nestler (1778-1832), Veduta del Palais im Großen Garten (Palazzo nel grande giardino), Dresda, 1779

Il Palais im Großen Garten si trovava ai margini di Dresda, al centro di un parco, e fungeva da residenza estiva della Casa regnante. Al loro arrivo dall’Italia, le statue antiche sono collocate al suo interno, mentre il parco ospita una collezione di statue di artisti barocchi tedeschi. Il catalogo mostra una pianta del piano superiore con l’indicazione della posizione di tutte le statue; l’inventario dell’epoca conferma la loro collocazione e l’origine di ogni pezzo.  I rapporti commerciali in tema d’arte tra la casa di Sassonia e gli Albani rimasero intensi anche dopo il 1728. Qualche anno dopo arrivarono infatti affreschi romani che erano stati trovati durante gli scavi promossi da Alessandro Albani nei suoi possedimenti di Anzio [29]. Quando il principe ereditario di Sassonia (Federico Cristiano) si recò in Italia per un viaggio di studio (ma anche per curarsi), dimorò a palazzo Albani alle Quattro Fontane, esattamente dove si trovava la collezione del cardinale Alessandro, e riportò a Dresda reperti che ebbe modo di ammirare negli scavi archeologici di Tivoli e Portici. Un nuovo inventario, preparato questa volta dallo scultore italiano Lorenzo M. Mattielli (1687–1748), un altro dei tantissimi uomini d’arte e cultura italiani che popolavano Dresda, documentò doni ricevuti e acquisti effettuati per l’occasione.


Carole Paul 
Il Museo Capitolino: il primo grande museo pubblico nell'Europa dei Lumi [30]

La studiosa americana, specializzata in arte italiana del XVII e XVIII secolo, ci parla dell’istituzione del Museo Capitolino, il primo museo pubblico dell’età moderna, anche se l’autrice spiega che proprio in Italia esisteva un precedente, e che quel precedente era proprio costituito dal Campidoglio. “Di fatti, la più antica collezione municipale dell’età moderna fu istituita nel 1471 da papa Sisto IV della Rovere (1471-1478) nel Palazzo dei Conservatori, sede dei tre magistrati cittadini e dell’amministrazione del governo municipale” [31]. Clemente XII (Papa Corsini) decide di trasferire la collezione dal Palazzo dei Conservatori al Palazzo Nuovo (e dunque da un lato all’altro della piazza). Il suo successore Benedetto XIV (Papa Lambertini) ampia la collezione di statue e acquista le collezioni di quadri Sacchetti e Pio di Savoia tra 1748 e 1750, che viene a costituire in tal modo la Galleria dei Quadri (aperta nel 1751, questa volta nel Palazzo dei Conservatori). Infine, sempre al Palazzo dei Conservatori, viene aperta nel 1754 l’Accademia del Nudo, con un’apertura significativa – nella Roma capitale dello Stato Pontificio – alle esigenze degli artisti [32]. Poco prima dell’arrivo di Winckelmann in città, dunque, il Campidoglio diviene un centro dedicato all’arte, meta obbligata per chiunque si rechi a Roma per ammirarne il patrimonio.

Fig. 7) Una sala del Museo Capitolino, 1865, Cornell University Library @Wikimedia Commons

Ed è appunto l’aumento del turismo – oltre all’esigenza di preservare il patrimonio e mantenerlo a Roma – a essere una delle tre ragioni dell’apertura del Museo capitolino: “Un altro incentivo coincideva con la crescita del turismo culturale in Italia con Roma considerata come la meta principale di ogni viaggio. (…) E non è un caso che la documentazione relativa alla fondazione del Museo metta in evidenza il valore didattico dell’istituzione, andando dunque incontro alle esigenze del pubblico del Grand Tour, composto da dilettanti, stranieri e giovani” [33]. Ciò non sarebbe stato comunque concepibile se anche a Roma non si fosse andata diffondendo “l’influenza dei valori illuministici [che] portò la classe dirigente a rendere sempre più accessibili le opportunità educative” [34].

Fig. 8) Musei Capitolini, La sala dei filosofi. Fonte: Pinterest

La studiosa spiega che i criteri espositivi del museo sono ispirati a nuovi criteri di razionalità: “Sebbene anche nel Museo Capitolino le sculture di marmo fossero divise secondo tipologie e temi tradizionali – busti, statue, erme, urne, rilievi, iscrizioni-, le sale del Museo si mostravano meno affollate e meno riccamente decorate di quelle delle gallerie private, in modo da rendere assolutamente chiara l’identità del Museo come raccolta di antichità. Mentre nelle collezioni private sculture e dipinti erano spesso esposti insieme, nelle sale del Museo Capitolino non venne esposto alcun quadro e si escluse quasi del tutto la presenza di sculture moderne, fatta eccezione per i ritratti dei papi protettori. [..] Nel Museo Capitolino (…) i busti della serie imperiale furono sistemati secondo un rigoroso ordine cronologico ed esposti in una stanza a loro dedicata, collocati su semplici mensole, con l’obiettivo di invitare i visitatori a riflettere non solo sulle individualità dei ritratti e sulla qualità della somiglianza – soprattutto quando più ritratti dello stesso personaggio erano posti l’uno affianco all’altro – ma anche sullo sviluppo della storia romana” [35]. È appena implicito che quest’impostazione è del tutto in linea con l’approccio storiografico di Winckelmann, e la sua lettura della storia dell’arte secondo profili di stile.


Ilaria Sgarbozza 
Winckelmann, il Palazzo Nuovo in Campidoglio e la pratica del museo alla metà del Settecento [36]

Ilaria Sgarbozza, studiosa del Settecento e del primo Ottocento artistico a Roma, si concentra sulla vita quotidiana di Winckelmann appena giunto a Roma. Su indicazione di Mengs, lo studioso si registra presso il Museo Capitolino come artista e inizia un’assidua frequentazione: “La vita da artista dei primi mesi romani di Winckelmann, annotata nelle lettere agli amici, appare conforme a una tradizione consolidata che prevede la copia dall’antico nelle ore iniziali del giorno, il pranzo, una seconda sessione di attività – in qualche caso ‘esercizio dal nudo’ -, la sosta in un caffè e infine il ritorno a casa, con eventuale condivisione, in piccoli gruppi, del lavoro svolto. Della quotidianità appena descritta la collezione capitolina è il fulcro, «liberamente a disposizione di tutti gli artisti dalla mattina alla tarda sera», frequentata dallo studioso tedesco «quasi ogni giorno»” [37]. La frequentazione delle sale del Museo deve rafforzare in Johann Joachim la convinzione che non sia possibile progredire nella comprensione della storia dell’arte se non beneficiando “dell’osservazione diretta e del rapporto quasi fisico con le opere d’arte” [38].

Fig. 9) Il frontespizio del primo volume del catalogo del Museo Capitolino, pubblicato sotto la direzione di Giovanni Gaetano Bottari nel 1748. Fonte: http://dlib.biblhertz.it/Bottari-MuseoCapitolino-1#page/6/mode/2up

Il fatto che il Museo Capitolino sia liberamente accessibile lo differenzia da tutte le gallerie private (che sono visitabili solamente su permesso e dietro inevitabile pagamento di una mancia ai custodi) e dalla Biblioteca Vaticana (le cui regole d’accesso e fruizione sono rigidissime). Winckelmann (come molti altri visitatori, primo fra tutti Montesquieu) si lamenta più volte di aver dovuto mettere mano al portafoglio per visitare i siti più rilevanti a Roma [39]; testimonia come per molte settimane gli sia vietato l’accesso ai manoscritti vaticani; al Museo di Portici non può fare nulla se non è accompagnato da custodi che gli impediscono di prendere misure e copiare i reperti, nonostante abbia ottenuto un permesso speciale.

La fruibilità del Museo è accresciuta dalla pubblicazione di una serie di cataloghi. La Sgarbozza distingue tra un catalogo ufficiale (in quattro volumi) e una guida ‘tascabile’. I primi tre tomi del catalogo ufficiale sono pubblicati tra 1741 e 1755 a cura di Giovanni Gaetano Bottari, un altro degli intellettuali attivi a Roma, e Giovanni Domenico Campiglia (1692–1768), disegnatore e pittore. Il quarto volume del catalogo ufficiale (1782) è curato dall’archeologo Niccolò Maria Foggini (data di nascita e morte sconosciuta).  Quanto alla guida tascabile, compare per la prima volta nell’Anno Santo 1750 ed è ripubblicata nel 1770 e nel 1775. Ne è autore il Commissario della antichità Ridolfino Venuti (1705–1763), ovvero il predecessore di Winckelmann in quella posizione.

Segnalo che il catalogo della mostra presenta anche un articolo dedicato a Giovanni Domenico Campiglia, a firma di Flavia Pesci, intitolato “Giovanni Domenico Campiglia disegnatore per il Museo Capitolino” [40].

Fig. 10) La prima edizione del catalogo tascabile del Museo Capitolino, pubblicata nel 1750. Fonte: https://archive.org/details/museocapitolinoo00luca/page/n7


Fine della Parte Prima
Vai alla Parte Seconda (di prossima pubblicazione)


NOTE

[1] Il Tesoro di Antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento. A cura di Claudio Parisi Presicce ed Eloisa Dodero, 2017, 384 pagine. Citazione a pagina 108.

[2] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 13.

[3] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 9-16.

[4] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 9.

[5] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 11.

[6] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 198.

[7] Raspi Serra, Joselita - Johann Joachim Winckelmann. Ville e palazzi di Roma, Trascrizione del manoscritto originale di S. Oloff Montinari. Traduzione dal tedesco di G. Montinari, Roma, Edizioni Quasar, 544 pagine.

[8] Winckelmann, Johann Joachim - Ville e Palazzi di Roma: Antiken in den römischen Sammlungen. Text und Kommentar, a cura di Sascha Kansteiner, Brigitte Kuhn-Forte e Max Kunze, Magonza, Verlag Philipp von Zabern, 2003, 410 pagine.

[9] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 10.

[10] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 73-86.

[11] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 73.

[12] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 73.

[13] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.

[14] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.

[15] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 81.

[16] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 75.

[17] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 79.

[18] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 75.

[19] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.

[20] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 78.

[21] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 74.

[22] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.

[23] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 78.

[24] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 79.

[25] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 82.

[26] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 87-93.

[27] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 97-98.

[28] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 92.

[29] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 90.

[30] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 105-110.

[31] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 105.

[32] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 109.

[33] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 106.

[34] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 107.

[35] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 107.

[36] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 111-117.

[37] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 111.

[38] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 111.

[39] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 112.

[40] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 127-135.

Nessun commento:

Posta un commento