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Pubblicazioni in onore di Johan Joachim Winckelmann
Il Tesoro di Antichità
Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento
A cura di Eloisa Dodero e Claudio Parisi Presicce
Roma, Gangemi Editore, 2017, 384 pagine
Roma, Gangemi Editore, 2017, 384 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima
Beatrice Cacciotti
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Fig. 1) La copertina del catalogo della mostra di Roma, con una sanguigna di Hubert Robert (1733-1808) del 1762 circa, che rappresenta un artista nella Galleria capitolina. |
Dopo le mostre di Firenze, Napoli e Milano è stata la volta di Roma a dedicare una
mostra a Winckelmann (1717-1768) in occasione del doppio anniversario della
nascita (350 anni) e della morte (300 anni). L’esposizione, intitolata Il
Tesoro di Antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del
Settecento, si è svolta appunto preso i Musei Capitolini dal 7 dicembre 2017 al
20 maggio 2018. È stata l’occasione
per celebrare l’erudito tedesco, ma anche la città che senza dubbio più ha
influito nella sua vita professionale, e anche i Musei Capitolini, primo museo
riservato all’arte aperto al pubblico (nel 1734, vent’anni prima che
Winckelmann giungesse in città). La scena culturale di Roma presentava
all’epoca un vivace panorama collezionistico di reperti antichi; in questo
contesto spiccavano figure di grande spessore, come Francesco Bianchini (1662-1729),
Alessandro Gregorio Capponi (1683 –1746) e Giovanni Gaetano Bottari (1689-1775).
Insomma, nella prima metà del Settecento,
e ancora negli anni in cui Winckelmann giunge in città, Roma è centro
culturale d’eccellenza: quando, il 10 febbraio 1756, il francese Jean-Jacques
Barthélemy (1716–1795) scrive al Conte di Caylus (1692-1765) descrivendo la sua
prima visita ai Musei Capitolini, queste sono le sue parole: “La prima volta che ho varcato la soglia del
museo sono stato percorso come da una scossa elettrica. Non sono in grado di
descriverVi l’impressione ricevuta da una tale raccolta di tesori. Questo non è
un semplice studiolo: è la dimora degli dei dell’antica Roma; è il liceo dei
filosofi; è il senato popolato dai re d’Oriente. Cosa posso dirVi? Una nazione
di statue vive nel Museo Capitolino; è il grande libro degli antiquari”
[1]. L’espressione che compare nel titolo della mostra (ovvero il “Tesoro di
Antichità”, traduzione italiana di “Schatz
von Alterthümern”) è usata da Winckelmann nell’epistolario con l’amico
bibliotecario Johann Michael Francke (1717-1775), rimasto in Germania, per
definire stupore e ammirazione per il museo romano. In Germania esistono già
importanti collezioni d’arte antica (fra le quali – a Dresda – la collezione
privata di statue greco-romane della casa regnante, acquistata da Augusto il
Forte nel 1728 dalle casate Chigi e Albani), ma non sono facilmente visitabili
dal pubblico, al punto che lo stesso Winckelmann non è riuscito a vederle [2].
In realtà, sia la collezione di statue
greco-romane di Dresda (almeno in parte) sia quella dei Musei Capitolini
provengono dalle raccolte della famiglia Albani. È il cardinale Alessandro
Albani (1692-1779) a vendere alla casa regnante di Sassonia trentaquattro delle
sue statue nel 1728; ed è Papa Clemente XII (Lorenzo Corsini 1652–1740) a
disporre con un legato pontificio l’acquisto di 416 sculture dalla collezione
Albani nel 1734, proprio per evitare che esse si muovano verso altre capitali,
forse ancora una volta a Dresda (dove la casa regnante è a caccia di opere
d’arte dall’Italia anche per giustificare dal punto di vista culturale le
proprie mire espansionistiche; riuscirà nell’intento, acquisendo la collezione
dei dipinti della famiglia Este nel 1746 e la Madonna Sistina di Raffaello nel
1754). Le antichità degli Albani sono però tanto numerose che quando
Winckelmann (più di vent’anni dopo le vendite citate) prenderà servizio presso
il cardinale Alessandro, come suo bibliotecario, troverà nelle loro ville e
possedimenti moltissime opere da studiare (molte di esse saranno riprodotte in Monumenti Antichi Inediti). E in punto di morte, a Trieste, Winckelmann nominerà proprio il
cardinale Albani erede delle sue carte custodite a Roma. Dunque, mostra e
relativo catalogo ci ricordano che uno dei protagonisti assoluti della vita
culturale del Settecento in Europa fu un uomo di chiesa.
Uno sguardo d'insieme
L’introduzione [3] dei curatori
dell’esposizione (Eloisa Dodero, studiosa della ricezione dell’arte antica
nella Roma del Sei-Settecento e Research Assistant alla Royal Collection di
Londra, e Claudio Parisi Presicce, archeologo, già Sovrintendente alle Belle
Arti del Comune di Roma) ci presenta Winckelmann al suo arrivo a Roma nel 1755.
Per lo studioso tedesco è un momento di vera e propria liberazione, com’egli
stesso scrive al già citato Francke: “A
Roma è assolutamente più accetto un uomo che non cerca niente o che non ha
niente da cercare, di un elegante abate” [4]. Sono parole del 5 maggio
1756. Qualche mese prima, ovvero il 7 dicembre 1755, in un’altra lettera a
Francke, Johann Joachim descrive la sua vita in città: “Vivo da artista; passo per tale anche nei luoghi dove i giovani artisti
hanno licenza di fare i loro studi come nel Campidoglio. Qui è il tesoro delle antichità, Statue,
Sarcofagi, Busti, Iscrizioni, ecc. e ci si può trattenere in tutta libertà
dalla mattina alla sera” [5]. Johann Joachim tiene anche un taccuino, oggi
conservato alla Bibliotheque Nationale de
France a Parigi (lasciato in eredità da Winckelmann al cardinale Albani con
tutte le sue carte, è parte del fondo che fu sequestrato dalle truppe
napoleoniche durante l’occupazione di Roma e portato a Parigi [6]). La sua
consultazione alla pagina https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b100376188/f1.image.r=winckelmann
ci dà un’idea della metodicità della sua ricerca attraverso ville e palazzi di
Roma che visita in quei mesi. Da segnalare che il taccuino è stato recentemente
pubblicato in edizione critica in italiano [7] e in tedesco [8].
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Fig. 3) La prima pagina del taccuino di Johann Joachim Winckelmann su ville e palazzi di Roma da lui visitati. Fonte: gallica.bnf.fr @Bibliothèque nationale de France |
Nella città eterna Winckelmann riesce ad
avere accesso, grazie ai cardinali Archinto e Albani, a tutti i reperti che
desidera visitare; il legame con Albani diventa ben presto di stretta
collaborazione e amicizia. Gli anni romani sono caratterizzati sia da
un’intensa attività di studio sia da mansioni di accompagnamento
scientificamente qualificato dei giovani nobili stranieri che giungono a Roma
nel quadro del Grand Tour [9]. Studio e conoscenze aiutano Winckelmann sia a ottenere, otto anni dopo il suo arrivo, nel 1763, l’incarico di Commissario alle
Antichità di Roma, sia a raccogliere i materiali per completare e pubblicare a
Dresda nel 1764 la sua opera maggiore, la Storia dell’Arte degli Antichi (Geschichte der Kunst des Alterthums).
Alcuni
contributi particolarmente significativi nella seconda sezione del catalogo
Nella prima parte di questo post prenderò
in considerazione i contributi più rilevanti (dal punto di vista della
letteratura artistica) contenuti nella seconda sezione del catalogo della
mostra, catalogo pubblicato da Gangemi Editore. La sezione è dedicata alla
storia del Museo Capitolino. Nella seconda parte di questo post concentrerò
invece la mia attenzione sulla terza sezione del catalogo, centrata sul
rapporto tra Winckelmann e il Museo Capitolino. La prima e la quarta sezione
del catalogo, dedicate rispettivamente al Campidoglio e alla sua rappresentazione
nel Settecento (sezione I) e agli allestimenti perduti del Museo Capitolino
(sezione IV), quantunque assai interessanti, vanno al di là degli scopi di
questo post.
La collezione Albani nel Palazzo alle Quattro Fontane: «un affare glorioso per il Papa e di benefizio per Roma» [10]
[1] Il Tesoro di Antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento. A cura di Claudio Parisi Presicce ed Eloisa Dodero, 2017, 384 pagine. Citazione a pagina 108.
[2] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 13.
[3] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 9-16.
[4] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 9.
[5] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 11.
[6] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 198.
[7] Raspi Serra, Joselita - Johann Joachim Winckelmann. Ville e palazzi di Roma, Trascrizione del manoscritto originale di S. Oloff Montinari. Traduzione dal tedesco di G. Montinari, Roma, Edizioni Quasar, 544 pagine.
[8] Winckelmann, Johann Joachim - Ville e Palazzi di Roma: Antiken in den römischen Sammlungen. Text und Kommentar, a cura di Sascha Kansteiner, Brigitte Kuhn-Forte e Max Kunze, Magonza, Verlag Philipp von Zabern, 2003, 410 pagine.
[9] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 10.
[10] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 73-86.
[11] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 73.
[12] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 73.
[13] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[14] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[15] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 81.
[16] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 75.
[17] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 79.
[18] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 75.
[19] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[20] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 78.
[21] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 74.
[22] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[23] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 78.
[24] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 79.
[25] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 82.
[26] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 87-93.
[27] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 97-98.
[28] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 92.
[29] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 90.
[30] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 105-110.
[31] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 105.
[32] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 109.
[33] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 106.
[34] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 107.
[35] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 107.
[36] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 111-117.
[37] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 111.
[38] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 111.
[39] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 112.
[40] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 127-135.
Il saggio di Beatrice Cacciotti, archeologa
e studiosa del collezionismo di antichità, si concentra sulla Roma del primo
Settecento e la creazione della collezione Albani. Giovanni Francesco Albani (1649-1721)
viene eletto papa con il nome di Clemente XI nel 1700; condivide con il nipote
Alessandro “la passione per l’arte e la
sua benevolenza si era più volte manifestata accogliendone le capricciose
richieste” [11]. Quest’ultimo – prima di intraprendere la carriera
ecclesiastica nel 1718 – “aveva ricevuto
una formazione stimolante immersa tra pensiero arcadico e nuove scienze ed era
cresciuto in un ambiente vivace e cosmopolitico, depositario di valori classici”
[12]. Uno dei grandi operatori che aiuta Alessandro nell’acquisto delle opere è
l’abate Francesco Bianchini, suo precettore, che la Cacciotti considera come il
vero “deus ex machina” per la
costituzione della prima collezione Albani [13]. Bianchini è un intellettuale
di primo piano, contraddistinto dall’idea di un “sapere universale” [14] e di un interesse “enciclopedico” [15] che spazia dall’antichità all’astronomia. La
prima testimonianza dell’interazione tra i due, volta alla creazione della
collezione, è del 1706 (Alessandro ha solamente 14 anni, il suo precettore 44)
[16]. A partire dal 1712 Bianchini induce gli Albani a finanziarie campagne
archeologiche ad Anzio [17] e quegli scavi diverranno una delle maggiori fonti
per la loro raccolta. Al termine di
dieci anni d’attività frenetica, Bianchini documenta la collezione in un primo Indice compilato nel 1717 (sia pure
incompleto, perché include sessanta busti e teste, venticinque sarcofaghi e
rilievi, ma nessuna statua). La Cacciotti segnala che l’inventario consente
anche di capire da dove provengano i reperti (oltre agli scavi di Anzio): “I marmi passati in rassegna erano
previamente appartenuti a nobili proprietari (Colonna, Carpegna, Giustiniani,
Pamphili), a privati cittadini (l’avvocato Vincenzi, il cavalier Fontana, Carlo
Cairoli), a ordini religiosi (i Padri della Certosa di Santa Maria degli
Angeli), a mercanti e antiquari (Francesco de’ Ficoroni, Marco Antonio
Sabatini, Domenico Amici, Antonio Borioni, Giovanni Giusto Ciampini), ai
Conservatori di Roma e gli stessi familiari di Alessandro” [18]. Senza
dubbio l’acquisto dei pezzi da un numero così ampio di proprietari è molto
facilitato dal fatto che l’acquirente è, in ultima analisi, il nipote del Papa,
e che quest’ultimo si opera per evitare che le opere lascino Roma con una serie
di editti. Le acquisizioni di Alessandro sostengono fattivamente quella
politica, permettendo alle famiglie romane in cerca di contanti di vendere i
loro beni senza che questi siano trasferiti all’estero [19]. Il Papa stesso
contribuisce con donazioni [20].
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Fig. 4) Pietro Rotari (1707 - 1762), Ritratto di Francesco Bianchini, 1729 @ Wikimedia Commons |
Nel 1721 Alessandro è nominato cardinale e
si stabilisce nel Palazzo alle Quattro Fontane, acquisito da suo fratello
maggiore Carlo solamente due anni prima. Lì il cardinale raduna fisicamente la
sua collezione. Visitatori inglesi testimoniano nel 1720-1721 che la raccolta è
ancora in fase di allestimento. Un secondo inventario, che questa volta
comprende anche le statue, viene compilato su iniziativa di Richard Topham
(1671-1730), uno dei maggiori collezionisti inglesi, verso la fine del decennio
ed è oggi conservato nella biblioteca dell’Eton College [21]. Il numero dei
busti è salito da sessanta a oltre trecento, quello dei sarcofagi da
venticinque a quaranta. Esaminando la documentazione, la Cacciotti trova ulteriore conferma che
le opere derivano dalle maggiori collezioni private romane dei due secoli
precedenti, ovvero quelle intestate ai Della Valle, Cesi, Caetani-Ruspoli,
Aldobrandini, Giustiniani, Pamphilj e Verospi-Vitelleschi [22]. Le statue sono solamente quarantadue, ma alcune di esse sono considerate come di primaria importanza e sono già state riprodotte da artisti famosi nei secoli precedenti
(fra cui numerosi manieristi dell’Europa del Nord attivi a Roma, ma
anche Rubens),
e il più delle volte contenute nei principali repertori di stampe
prodotti dal Cinquecento al primo Settecento (Achille Stazio, Giovanni Battista
de’Cavalleris, Pietro Santi Bartoli, Paolo Alessandro Maffei e Domenico de
Rossi). Al Bianchini va attribuito l’interesse per un nucleo di opere
provenienti dall’antico Egitto [23] e la particolare attenzione al materiale
epigrafico (quasi cinquecento reperti, quale “fonte primaria per ‘provare’ la storia antica” [24]).
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Fig. 5) A sinistra: Il Catalogo della Libreria Capponi, pubblicato nel 1747 (a un anno dalla sua morte) per promuovere la vendita del fondo librario. Fonte: https://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/berti1747/0007. A destra: Ferdinando Fuga (1699–1782) e René-Michel Slodtz (1705-1758), Monumento funerario di Alessandro Gregorio Capponi in San Giovanni dei Fiorentini a Roma, 1746 @ Wikimedia Commons |
L’articolo della Cacciotti si conclude con
un riferimento ai rischi di alienazione all’estero di quest’enorme patrimonio,
dovuti alla disinvoltura finanziaria con cui Alessandro Albani aveva condotto i suoi acquisti giungendo sino all’orlo dell’insolvenza. Già nel 1724 risultano
esservi state trattative con lo zar Pietro il Grande, il re di Spagna Filippo V
e il re di Francia Luigi XV [25]. Nel 1728 (come già detto) un nucleo di
trentaquattro statue è venduto ad Augusto il Forte a Dresda. È Papa Corsini
(Clemente XII), ovvero il successore di Papa Albani a intervenire per evitare
che una collezione così notevole lasci Roma. Il nuovo Papa incarica Alessandro
Gregorio Capponi,
altra figura di primo piano nella cultura del suo tempo, di condurre trattative
per l’acquisto della collezione da parte dell’amministrazione pontificia. Il
prezzo pattuito (66 mila scudi) è molto inferiore al valore di mercato, facendo
intuire il valore politico-istituzionale della transazione. Anche in questo caso, non stiamo parlando di un grigio burocrate, ma di un grande
collezionista di libri e manoscritti. Capponi lasciò alla sua morte una notevolissima
biblioteca e il monumento funebre che commissionò egli stesso per la sua tomba a Ferdinando
Fuga (1699–1782) e René-Michel Slodtz (1705-1758) rivela la modernità dei suoi
gusti, con motivi che sembrano anticipare il neoclassicismo. Come direttore del
Museo Capitolino, tenne un Diario che è già stato recensito in questo blog.
Saskia Wetzig
Le antichità Albani a Dresda [26]
Saskia Wetzig lavora come come studiosa di
scultura antica alle collezioni d’arte di Dresda. Nel suo breve articolo
documenta come la collezione acquisita a Roma nel 1728 dai Chigi (160 statue) e
dagli Albani (34), e giunta in città solamente nel 1730, resti esposta nel
salone di rappresentanza del sontuoso edificio barocco del Palais im Großen Garten solamente per 17 anni. Tra queste opere la
mostra romana espone una statua di Andromeda, appartenuta prima agli Orsini e
poi agli Albani (compare nel secondo inventario della collezione Albani fatto
eseguire da Richard Topham) prima di essere trasportata a Dresda. Lì, secondo
prassi discutibilissima ai tempi nostri, ma del tutto normale all’epoca, la
statua è ‘completata’ aggiungendovi una testa non pertinente (anch’essa di
provenienza Albani) [27]. Le circa duecento statue greco romane vennero poi
ammassate in una serie di magazzini in occasione della celebrazione di un
matrimonio di corte nel 1747 e, in qualche modo, lì ‘dimenticate’. Lo stesso
Winckelmann, come detto, non riuscì a vederle. Johann Joachim ricorda in
proposito nel 1767: “Il più grande tesoro
di antichità si trova a Dresda […] Ma io non sono in grado di descrivere
l’apice della bellezza perché le migliori statue si trovano in un deposito di
fortuna, impacchettate come aringhe, visibili sì, ma non certo osservabili”
[28]. Paradossalmente, in seguito all’alluvione dell’Elba nel 2002, le statue
sono state spostate in depositi e ancora oggi non sono visitabili (è previsto
un nuovo allestimento nel 2019).
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Fig. 6) Christian Gottfried Nestler (1778-1832), Veduta del Palais im Großen Garten (Palazzo nel grande giardino), Dresda, 1779 |
Il Palais
im Großen Garten si trovava ai margini di Dresda, al centro di un parco, e
fungeva da residenza estiva della Casa regnante. Al loro arrivo dall’Italia, le
statue antiche sono collocate al suo interno, mentre il parco ospita una
collezione di statue di artisti barocchi tedeschi. Il catalogo mostra una
pianta del piano superiore con l’indicazione della posizione di tutte le
statue; l’inventario dell’epoca conferma la loro collocazione e l’origine di
ogni pezzo. I rapporti commerciali in
tema d’arte tra la casa di Sassonia e gli Albani rimasero intensi anche dopo il
1728. Qualche anno dopo arrivarono infatti affreschi romani che erano stati
trovati durante gli scavi promossi da Alessandro Albani nei suoi possedimenti
di Anzio [29]. Quando il principe ereditario di Sassonia (Federico Cristiano)
si recò in Italia per un viaggio di studio (ma anche per curarsi), dimorò a
palazzo Albani alle Quattro Fontane, esattamente dove si trovava la collezione
del cardinale Alessandro, e riportò a Dresda reperti che ebbe modo di ammirare
negli scavi archeologici di Tivoli e Portici. Un nuovo inventario, preparato
questa volta dallo scultore italiano Lorenzo M. Mattielli (1687–1748), un
altro dei tantissimi uomini d’arte e cultura italiani che popolavano Dresda,
documentò doni ricevuti e acquisti effettuati per l’occasione.
Carole Paul
Il Museo Capitolino: il primo grande museo pubblico nell'Europa dei Lumi [30]
La studiosa americana, specializzata in
arte italiana del XVII e XVIII secolo, ci parla dell’istituzione del Museo
Capitolino, il primo museo pubblico dell’età moderna, anche se l’autrice spiega
che proprio in Italia esisteva un precedente, e che quel precedente era proprio
costituito dal Campidoglio. “Di fatti, la
più antica collezione municipale dell’età moderna fu istituita nel 1471 da papa
Sisto IV della Rovere (1471-1478)
nel Palazzo dei Conservatori, sede dei tre magistrati cittadini e
dell’amministrazione del governo municipale” [31]. Clemente XII (Papa
Corsini) decide di trasferire la collezione dal Palazzo dei Conservatori al
Palazzo Nuovo (e dunque da un lato all’altro della piazza). Il suo successore
Benedetto XIV (Papa Lambertini) ampia la collezione di statue e acquista le collezioni
di quadri Sacchetti e Pio di Savoia tra 1748 e 1750, che viene a costituire in
tal modo la Galleria dei Quadri (aperta nel 1751, questa volta nel Palazzo dei
Conservatori). Infine, sempre al Palazzo dei Conservatori, viene aperta nel
1754 l’Accademia del Nudo, con un’apertura significativa – nella Roma capitale
dello Stato Pontificio – alle esigenze degli artisti [32]. Poco prima
dell’arrivo di Winckelmann in città, dunque, il Campidoglio diviene un centro
dedicato all’arte, meta obbligata per chiunque si rechi a Roma per ammirarne il
patrimonio.
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Fig. 7) Una sala del Museo Capitolino, 1865, Cornell University Library @Wikimedia Commons |
Ed è appunto l’aumento del turismo – oltre
all’esigenza di preservare il patrimonio e mantenerlo a Roma – a essere una
delle tre ragioni dell’apertura del Museo capitolino: “Un altro incentivo coincideva con la crescita del turismo culturale in
Italia con Roma considerata come la meta principale di ogni viaggio. (…) E non
è un caso che la documentazione relativa alla fondazione del Museo metta in
evidenza il valore didattico dell’istituzione, andando dunque incontro alle
esigenze del pubblico del Grand Tour, composto da dilettanti, stranieri e
giovani” [33]. Ciò non sarebbe stato comunque concepibile se anche a Roma
non si fosse andata diffondendo “l’influenza
dei valori illuministici [che] portò la classe dirigente a rendere sempre più
accessibili le opportunità educative” [34].
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Fig. 8) Musei Capitolini, La sala dei filosofi. Fonte: Pinterest |
La studiosa spiega che i criteri espositivi
del museo sono ispirati a nuovi criteri di razionalità: “Sebbene anche nel Museo Capitolino le sculture di marmo fossero divise
secondo tipologie e temi tradizionali – busti, statue, erme, urne, rilievi,
iscrizioni-, le sale del Museo si mostravano meno affollate e meno riccamente
decorate di quelle delle gallerie private, in modo da rendere assolutamente
chiara l’identità del Museo come raccolta di antichità. Mentre nelle collezioni
private sculture e dipinti erano spesso esposti insieme, nelle sale del Museo
Capitolino non venne esposto alcun quadro e si escluse quasi del tutto la
presenza di sculture moderne, fatta eccezione per i ritratti dei papi
protettori. [..] Nel Museo Capitolino (…) i busti della serie imperiale furono
sistemati secondo un rigoroso ordine cronologico ed esposti in una stanza a
loro dedicata, collocati su semplici mensole, con l’obiettivo di invitare i
visitatori a riflettere non solo sulle individualità dei ritratti e sulla
qualità della somiglianza – soprattutto quando più ritratti dello stesso
personaggio erano posti l’uno affianco all’altro – ma anche sullo sviluppo
della storia romana” [35]. È appena implicito che quest’impostazione è del
tutto in linea con l’approccio storiografico di Winckelmann, e la sua lettura
della storia dell’arte secondo profili di stile.
Ilaria Sgarbozza
Winckelmann, il Palazzo Nuovo in Campidoglio e la pratica del museo alla metà del Settecento [36]
Ilaria Sgarbozza, studiosa del Settecento e
del primo Ottocento artistico a Roma, si concentra sulla vita quotidiana di Winckelmann
appena giunto a Roma. Su indicazione di Mengs, lo studioso si registra presso
il Museo Capitolino come artista e inizia un’assidua frequentazione: “La vita da artista dei primi mesi romani di
Winckelmann, annotata nelle lettere agli amici, appare conforme a una
tradizione consolidata che prevede la copia dall’antico nelle ore iniziali del
giorno, il pranzo, una seconda sessione di attività – in qualche caso
‘esercizio dal nudo’ -, la sosta in un caffè e infine il ritorno a casa, con
eventuale condivisione, in piccoli gruppi, del lavoro svolto. Della
quotidianità appena descritta la collezione capitolina è il fulcro,
«liberamente a disposizione di tutti gli artisti dalla mattina alla tarda sera», frequentata dallo studioso tedesco «quasi ogni giorno»” [37]. La frequentazione delle sale del Museo deve rafforzare in
Johann Joachim la convinzione che non sia possibile progredire nella
comprensione della storia dell’arte se non beneficiando “dell’osservazione diretta e del rapporto quasi fisico con le opere d’arte”
[38].
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Fig. 9) Il frontespizio del primo volume del catalogo del Museo Capitolino, pubblicato sotto la direzione di Giovanni Gaetano Bottari nel 1748. Fonte: http://dlib.biblhertz.it/Bottari-MuseoCapitolino-1#page/6/mode/2up |
Il fatto che il Museo Capitolino sia
liberamente accessibile lo differenzia da tutte le gallerie private (che sono
visitabili solamente su permesso e dietro inevitabile pagamento di una mancia
ai custodi) e dalla Biblioteca Vaticana (le cui regole d’accesso e fruizione
sono rigidissime). Winckelmann (come molti altri visitatori, primo fra tutti Montesquieu) si lamenta più volte di aver dovuto mettere mano al portafoglio
per visitare i siti più rilevanti a Roma [39]; testimonia come per molte
settimane gli sia vietato l’accesso ai manoscritti vaticani; al Museo di
Portici non può fare nulla se non è accompagnato da custodi che gli impediscono
di prendere misure e copiare i reperti, nonostante abbia ottenuto un permesso
speciale.
La fruibilità del Museo è accresciuta dalla
pubblicazione di una serie di cataloghi. La Sgarbozza distingue tra un catalogo
ufficiale (in quattro volumi) e una guida ‘tascabile’. I primi tre tomi del
catalogo ufficiale sono pubblicati tra 1741 e 1755 a cura di Giovanni Gaetano
Bottari, un altro degli intellettuali attivi a Roma, e Giovanni
Domenico Campiglia (1692–1768), disegnatore e pittore. Il quarto volume del
catalogo ufficiale (1782) è curato dall’archeologo Niccolò Maria Foggini (data
di nascita e morte sconosciuta). Quanto
alla guida tascabile, compare per la prima volta nell’Anno Santo 1750 ed è
ripubblicata nel 1770 e nel 1775. Ne è autore il Commissario della antichità
Ridolfino Venuti (1705–1763), ovvero il predecessore di Winckelmann in quella
posizione.
Segnalo che il catalogo della mostra
presenta anche un articolo dedicato a Giovanni Domenico Campiglia, a firma di
Flavia Pesci, intitolato “Giovanni Domenico Campiglia disegnatore per il Museo
Capitolino” [40].
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Fig. 10) La prima edizione del catalogo tascabile del Museo Capitolino, pubblicata nel 1750. Fonte: https://archive.org/details/museocapitolinoo00luca/page/n7 |
Fine della Parte Prima
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NOTE
[2] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 13.
[3] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 9-16.
[4] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 9.
[5] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 11.
[6] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 198.
[7] Raspi Serra, Joselita - Johann Joachim Winckelmann. Ville e palazzi di Roma, Trascrizione del manoscritto originale di S. Oloff Montinari. Traduzione dal tedesco di G. Montinari, Roma, Edizioni Quasar, 544 pagine.
[8] Winckelmann, Johann Joachim - Ville e Palazzi di Roma: Antiken in den römischen Sammlungen. Text und Kommentar, a cura di Sascha Kansteiner, Brigitte Kuhn-Forte e Max Kunze, Magonza, Verlag Philipp von Zabern, 2003, 410 pagine.
[9] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 10.
[10] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 73-86.
[11] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 73.
[12] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 73.
[13] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[14] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[15] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 81.
[16] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 75.
[17] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 79.
[18] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 75.
[19] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[20] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 78.
[21] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 74.
[22] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 76.
[23] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 78.
[24] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 79.
[25] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 82.
[26] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 87-93.
[27] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 97-98.
[28] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 92.
[29] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 90.
[30] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 105-110.
[31] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 105.
[32] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 109.
[33] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 106.
[34] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 107.
[35] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 107.
[36] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 111-117.
[37] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 111.
[38] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 111.
[39] Il Tesoro di Antichità (citato), p. 112.
[40] Il Tesoro di Antichità (citato), pp. 127-135.
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