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I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento
A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova
Milano, Officina Libraria, 2018
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
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Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore (attribuita al Moretto da Carl Friedrich von Rumohr - cfr. p. 20), Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fonte: Wikimedia Commons |
Chiara Battezzati.
Carl Friedrich von Rumohr (1785-1843) tra Milano e Brescia: riflessioni e nuove letture
(pp. 15-26)
Carl Friedrich von Rumohr (1785-1843) tra Milano e Brescia: riflessioni e nuove letture
(pp. 15-26)
Il contributo di Chiara
Battezzati fa riferimento alla presenza di Carl Friedrich von Rumohr in
Lombardia e alle capacità di conoscitore che dimostra di avere, più in
generale, con la pittura lombarda. Lo studio prende l’abbrivio dai Drey Reisen nach Italien (1832) per poi
analizzare un articolo assai meno noto, dedicato al Moretto, apparso sulla
rivista «Echo»
nel 1837. Battezzati ha avuto modo di affrontare l’argomento in maniera più
estesa in un numero monografico della rivista «Concorso», alla cui
recensione, già pubblicata in questo blog, si rimanda. Sui Drey Reisen, che evidenziano, oltre alle
capacità di conoscitore di von Rumohr, il suo interesse per le fonti (di cui sono
massima espressione le Italienische
Forschungen (1827-1831)) e la sostanziale commistione fra questioni
estetiche e storia dell’arte, tipica ancora di quegli anni, rinvio
alla recensione apparsa anch’essa su questo blog a cura di Francesco
Mazzaferro.
Alfonso Litta, Miriam Laffranchi
Johann David Passavant (1787-1861) in Lombardia, fra i taccuini di Francoforte e gli articoli sul «Kunst-Blatt»
(pp. 27-38)
Johann David Passavant (1787-1861) in Lombardia, fra i taccuini di Francoforte e gli articoli sul «Kunst-Blatt»
(pp. 27-38)
Alfonso Litta e Miriam Laffranchi sono
coloro che più tempo hanno dedicato, in questi anni, all’approfondimento della
figura di Johann David Passavant. Con una differenza: mentre Litta ha avuto
modo di pubblicare le sue ricerche in Johann David Passavant, Contributi alla storia delle antiche scuole
di pittura in Lombardia. Silvana editoriale, 2015, alla cui
recensione si rimanda, Laffranchi non è (ancora) riuscita a dare
alle stampe la trascrizione del primo e di parte del secondo dei trentasette
taccuini che lo studioso ha lasciato in eredità allo Städel Museum di
Francoforte, istituzione museale che con Passavant ha un debito storico enorme.
Mi si perdonerà quindi se mi concentrerò soprattutto su quest’ultimo aspetto. I
taccuini di Passavant cominciano cronologicamente con il secondo viaggio
italiano (1834-35) e si concludono poco prima del 1860. Naturalmente non comprendono
gli appunti relativi alla sola permanenza in Italia, ma si estendono a tutti i
suoi viaggi di studio successivi, appunto, al 1834 (insisto sulla data perché
il celebre viaggio in Inghilterra che portò alla pubblicazione del Kunstreise durch England und Belgien nel
1833, poi tradotto in inglese da Lady Eastlake nel 1836 [3], è ovviamente
precedente e dunque non contemplato).
Laffranchi ha trascritto (mi pare
di capire senza essere particolarmente agevolata nel suo compito
dall’amministrazione degli archivi del museo) il primo taccuino e parte del
secondo, per una complessiva ottantina di pagine manoscritte che si riferiscono
al secondo viaggio lombardo. Ne viene finalmente ricostruito il percorso, gli
incontri con antiquari, collezionisti, pittori e restauratori. Non è certo un
caso (visto il lasso di tempo relativamente contenuto intercorso fra i due
eventi) che molti dei personaggi citati siano quelli incontrati da Mary P.
Merrifield nel suo viaggio italiano del 1845-46 [4]. Dagli appunti emerge, a
giudizio della ricercatrice, un quadro più spontaneo delle attività di ricerche
di Passavant, per forza di cose più misurato e meno ‘coraggioso’ nei suoi
articoli scritti per il «Kunst-Blatt».
Passavant dimostra, peraltro, di
avere difficoltà con la valutazione dello stile tardo-quattrocentesco lombardo
(Bramantino in particolare), ma di essere capace di attribuzioni ‘profetiche’
come nel caso della Pala Grifi del
Museo di Berlino, attribuita su base stilistica a Marco d’Oggiono (all’epoca
ritenuta di Gaudenzio Ferrari, poi attribuita da Wilhelm von Bode a Leonardo).
Lo studio delle fonti è comunque elemento che Passavant ha sempre ben presente
come complementare e coadiuvante rispetto all’attività attribuzionistica. In
merito mi permetto di consigliare la lettura del
recente saggio dedicato da Susanna Avery-Quash e Corina Meyer al carteggio
intercorso fra Passavant ed Eastlake
fra 1845 e 1846 [5].
Dóra Sallay
«Pratichissimo della scuola senese»: Johann Anton Ramboux (1790-1866) conoscitore
(pp. 39-51)
«Pratichissimo della scuola senese»: Johann Anton Ramboux (1790-1866) conoscitore
(pp. 39-51)
Johann Anton Ramboux è noto
soprattutto per la sua straordinaria attivista di ‘divulgatore’ iconografico
dell’arte religiosa dei primitivi italiani. La sua scelta di vita fu
determinata da un profondo senso religioso maturato all’ombra dei Nazareni
tedeschi. Nel corso di due o tre prolungati soggiorni in Italia (i due sicuri
sono del 1816-1822 e del 1833-1842/3) Ramboux copiò un numero impressionante di
opere sacre soprattutto del centro Italia. L’abilità di Ramboux come
disegnatore e copista (recentemente
ai suoi disegni e acquarelli è stata dedicata una mostra fotografica online
organizzata proprio dal «Kunst») è però solo il prerequisito che lo portò a
pubblicare una serie di volumi di litografie destinati a far conoscere le opere
al grande pubblico.
Fra il 1837 e il 1842, peraltro,
Ramboux non si limitò a continuare la sua incessante attività di testimone
visivo delle opere, ma iniziò anche a collezionarle, con particolare
riferimento ai primitivi senesi. Siena fu, infatti, l’area in cui l’erudito
concentrò le sue attività di ricerca, stringendo una lunga e duratura amicizia
con gli ambienti colti della città, dai
fratelli Milanesi a Carlo Pini. Un’amicizia che proseguì anche
quando Ramboux tornò definitivamente in Germania (fra 1842 e 1843), divenendo
curatore del Wallraf Museum di Colonia e rimanendovi fino alla morte.
Il ricercatore non pubblicò studi
sull’arte senese e proprio per questo la sua connoisseurship è passata in secondo piano rispetto alle capacità di
illustratore e copista. Un esame attento del catalogo ch’egli stesso pubblicò
nel 1862 a descrizione della sua collezione personale (dispersa dopo la morte)
mostra, tuttavia, alcuni aspetti caratteristici: in assenza di dati certi sulla
sua formazione, evidenzia come Ramboux conoscesse molto bene le fonti, antiche
e moderne (cfr. p. 42), e come tendesse, in linea di massima, in sede
attributiva a rifarsi a quanto già precedentemente pubblicato. Dove le buone
doti di connoisseur emergono è,
ovviamente, quando ci si trova di fronte a opere che furono ‘dimenticate’
storicamente dalla letteratura artistica e che proprio grazie a Ramboux
tornavano alla ribalta. Il discorso vale in particolar misura, come ovvio, per
i primitivi. I corpora delle opere dei senesi Giovanni di Paolo, Sano di Pietro,
Matteo di Giovanni, Guidoccio Cozzarelli, Neroccio de’ Landi si infoltiscono
proprio grazie al conoscitore tedesco e, anche quando le attribuzioni si
dimostrano non corrette, schiudono comunque nuove strade di ricerca su cui si
innesteranno in seguito altri studiosi.
David Ekserdjian
Gustav Fredrich Wagen (1794-1868) and the Treasures of Art in Great Britain
(pp. 52-60)
Gustav Fredrich Wagen (1794-1868) and the Treasures of Art in Great Britain
(pp. 52-60)
L’autore fornisce esempi della connoussership di Gustav Waagen tratti
dalla sua opera principale, i Treasures
of Art in Great Britain (tre volumi pubblicati nel 1854) seguiti subito
dopo da un tomo supplementare intitolato Galleries
and Cabinets of Art in Great Britain (1857). La traduttrice del tedesco dei
volumi era, ancora una volta (si veda Passavant più sopra), Elizabeth Rigby,
ovvero Lady Eastlake. Frutto dell’espansione dei precedenti Kunstwerke und Künstler in England und Paris,
per quanto riguarda la sola parte inglese (ne era uscita una traduzione inglese
col titolo Works of Art and Artists in
England nel 1838), i Treasures e
le Galleries giungono quando Waagen è
direttore da più di vent’anni della Gemäldegalerie berlinese, conducendo
campagne di acquisizione di centinaia di opere in collaborazione con von
Ruhmor, e professore di storia dell’’arte (la prima cattedra della disciplina
in assoluto) alla locale Università dal 1844.
Tramite il richiamo a una serie
di attribuzioni Ekserdjian segnala fondamentalmente alcuni aspetti: non sono
noti i criteri con cui Waagen prendeva appunti sulle opere che vedeva, ma è
estremamente probabile che avesse taccuini come tutti i grandi conoscitori
dell’epoca; certo è che Waagen dimostra una memoria visiva straordinaria (si
veda il caso delle attribuzioni a Giorgio Gandini del Grano, pittore parmense
minore di inizio Cinquecento – cfr. p. 57); e, soprattutto, emerge nello
studioso un’innata capacità di riconoscere nelle opere la qualità (uno degli
aspetti più importanti della connoussership
secondo quanto scrive Mina Gregori nella sua introduzione al presente volume).
Per quanto mi riguarda mi sembra
giusto richiamare a questo punto due scritti di Waagen recensiti in questo blog
da Francesco Mazzaferro: nulla hanno a che vedere, direttamente, col
‘prototipo’ del conoscitore, ma, a mio avviso, testimoniano come, nel praticare
quotidianamente questo ruolo, lo studioso avesse comunque una particolare
attenzione (di stampo idealistico) all’individualità dell’artista: si
tratta delle due recensioni che scrisse per
l’antologia Lettere d’artisti di
Ernst Karl Guhl, pubblicata fra 1853 e 1856.
Gustavo Frizzoni (1840-1919), Wilhelm Bode e l’eredità del Cicerone
![]() |
Frontespizio della prima edizione del Cicerone di Jacob Burckardt (1855) Fonte: https://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/burckhardt1855/0001/image |
Le vicende editoriali de Il Cicerone. Guida al godimento delle opere
d’arte in Italia, pubblicato da Burckhardt (1818-1897) nel 1855 si rivelano
di particolare interesse e ci introducono in qualche modo, nell’ambito degli
atti che stiamo commentando, ai grandi conoscitori della seconda metà
dell’Ottocento, italiani o tedeschi che essi fossero. Uno di questi fu appunto
Gustavo Frizzoni, mentre su Wilhelm von Bode (1845-1929) avremo modo di tornare
nel prossimo saggio. Frizzoni fu, di fatto, l’alter-ego di Giovanni Morelli. Il
titolo del contributo di Aiello richiama in particolare un episodio, una
lettera che Frizzoni inviò all’anziano Burckhardt nel 1888 a commento della
quinta edizione del Cicerone, in cui,
di fatto, si suggeriva una serie di modifiche ad attribuzioni presentate
nell’opera.
Dobbiamo però, prima, fare un
passo indietro tornando all’enorme successo editoriale dell’opera (non però in
ambito italiano, dove l’unica traduzione italiana è del 1952). Nel mondo di
lingua tedesca se ne contano una decina di edizioni fino a fine secolo. La
seconda è del 1869, successiva quindi di quasi quindici anni rispetto alla
prima e mostra già una caratteristica che sarà propria, in maniera molto più
evidente, di tutte le altre. Non è a cura di Burckhardt (che pure mantiene una
supervisione generale), ma a seguirne la redazione è Alfred von Zahn, che si
affida a un gruppo di collaboratori ed esperti per i necessari aggiornamenti e
completamenti. Fra essi compare anche Gustavo Frizzoni. In prossimità
dell’uscita della terza (1873), Zahn muore, tanto che l’introduzione è scritta
da Wilhelm von Bode, e proprio a von Bode (grande amico di Burckhardt e figura
cardine del mondo dell’arte guglielmino) è affidata la cura anche della quarta
(1879). Siamo di fronte a uno stravolgimento editoriale: mentre Zahn si era
premurato di mantenere l’impostazione originale, Bode la rivede in toto e
Burckhardt (che pure mantiene una supervisione di facciata) diventa quasi un
marchio, un po’ come potremmo dire oggi dello Zingarelli per il noto vocabolario
della lingua italiana. Sono anni in cui Bode e Morelli esprimono pareri molto
diversi su questioni nodali dell’attribuzionismo (ad esempio sull’opera
pittorica di Verrocchio), e soprattutto il ‘metodo scientifico’ morelliano è
poco gradito al grande studioso tedesco, che per molti versi appare più vicino
a Cavalcaselle. I rapporti personali sono difficili e anche i giudizi espressi
sulla nuova edizione del Cicerone ne
risentono: Frizzoni esprime riserve sull’opera. In mezzo a tutti, ovviamente,
c’è Burckhardt, che però, amico personale di Bode e probabilmente più vicino
alla sua sensibilità, chiarisce di essere fuori dal mondo della connoisseurship, e di avere un orizzonte
idealista che poco ha a che fare con questioni di attribuzione. Scrive nel
1882: “È invero cosa stupenda arrivare a
conoscere un maestro attraverso le sue opere, penetrarne lo spirito; vi è però
una ragione e un vantaggio anche nell’altra cosa, nel non preoccuparsi se
l’attribuzione del quadro sia esatta, purché esso generi in noi le sensazioni
della bellezza, purché esso faccia appello al nostro intimo ideale e ci appaia
come simbolo del sublime” (p. 65).
La quinta edizione del Cicerone (1884) è la goccia che fa
traboccare il vaso. Frizzoni nemmeno la recensisce. Solo quattro anni dopo,
in seguito a schermaglie che vedono coinvolti Hugo von Tschudi, allievo di Bode, e lo
stesso Morelli, ne fornisce una lettura in cui si fa una sorta di inventario di
tutti i nodi irrisolti e contestabili presenti nell’opera. Qualche mese dopo
scrive direttamente a Burckhardt, ripetendo in sostanza le stesse lamentele.
Burckhardt, ancora una volta, si tira fuori, ma fa capire di aver perso ogni
entusiasmo nei confronti di un’opera che, a circa trentacinque anni
dall’iniziale pubblicazione, non sente più sua. In realtà ben poche delle
osservazioni di Frizzoni saranno accolte nella sesta edizione dell’opera
(1893), ma nel frattempo il fronte morelliano si rinforza grazie all’arrivo
dall’America di un giovanissimo Bernard Berenson (1865-1959), che, in uno
scritto del 1894, la cui paternità non è certa, ma assai probabile, rincara la
dose e soprattutto mette in evidenza un aspetto fondamentale, ovvero che in
quarant’anni il Cicerone ha perso la
sua ragion d’essere originaria, la “qualità
d’opera d’arte spiccatamente individuale”, trasformandosi piuttosto in una
sorta di repertorio e sottolineando quindi l’esigenza di tornare all’edizione
del 1853 per coglierne appieno gli indubbi pregi.
Francesco Caglioti
Su Wilhelm von Bode (1845-1929)
(pp. 73-86)
Su Wilhelm von Bode (1845-1929)
(pp. 73-86)
Wilhelm von Bode è figura
fondamentale del mondo artistico guglielmino. La sua personale parabola
professionale coincide, di fatto, con il II Impero tedesco. Bode prende
servizio nei musei berlinesi come assistente nel 1872 e lascia alla fine del
1920, dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale, la caduta degli Hoenzollern
e la nascita della Repubblica di Weimar. In quei cinquant’anni, scalando tutti
i gradini delle istituzioni museali berlinesi, Bode si afferma come la vera e
propria incarnazione della politica culturale guglielmina in ambito artistico,
creando un polo museale di assoluta eccellenza nella capitale tedesca. Scrive
Caglioti in merito: “Tutta la sua
frenetica operosità fu spesa, con successi enormi, nel procurare a Berlino
quella ricchezza e articolazione di raccolte pubbliche necessarie a una delle
massime capitali europee, recuperando i ritardi che la città neo-imperiale
aveva maturato nel frattempo rispetto a Parigi, Vienna, San Pietroburgo e
Londra” (p. 76). I veri modelli di riferimento di Bode sono i musei
inglesi: il British Museum, il South Kensington (oggi Victoria & Albert),
la National Gallery e la National Portrait Gallery. È ad essi che lo studioso si
ispira (e non è l’unico nel mondo di lingua tedesca: si
pensi a Gottfried Semper per il South Kensigton) e con cui entra in
competizione, sempre alla ricerca di opere d’arte (specie fiamminghe e
italiane) da acquistare a prezzi bassi per poi dimostrare, con le sue
attribuzioni, che si trattava di autentici capolavori. I metodi di Bode, in
questa ansia d’acquisizioni, non sempre sono ortodossi. Camillo Miceli, nel suo
articolo su Hermann Voss e la riapertura postbellica del «Kunst»
a Firenze, nell’autunno 1822 (vedi oltre), mette in evidenza come von Bode
avesse spesso inviato nel capoluogo toscano giovani studiosi che, oltre a approfondire
le loro ricerche, avevano l’incarico di cercare di individuare occasioni
d’acquisto particolarmente allettanti. E Caglioti aggiunge: “Se noi italiani volessimo ricostruire da un
punto di vista inedito la faticosa storia dei primi provvedimenti di tutela nel
nuovo Stato unitario, almeno fino alle leggi del 1902-03, potremmo seguire le
mosse di Bode, viaggiatore e compratore indefesso nelle regioni del Centro e
del Nord, e risoluto a portarsi via perfino, e per fortuna invano, l’altare con
il San Sebastiano di Antonio Rossellino a Empoli, o il polittico di Luca
Signorelli ad Arcevia, o il Trittico Portinari di Hugo van der Goes” (pp.
78-79). Del resto è noto che lo stesso Adolfo Venturi (dal 1888 a capo della
Direzione Centrale delle Antichità e delle Belle Arti, di fronte ai
comportamenti soprattutto di Bode, cercò un punto d’incontro coi direttori di
musei stranieri, invitandoli a far parte delle commissioni che decidevano per
le esportazioni delle opere d’arte italiane e cercando di responsabilizzarli
sul tema della conservazione del patrimonio peninsulare [6].
Come capita sovente quando si ha
a che fare con un grande conoscitore (e, in questo caso, di un conoscitore con
competenze quasi universali rispetto alla produzione artistica) a fare notizia
sono gli errori, più che la corretta assegnazione delle opere. In merito
Caglioti ne segnala due, cercando di contestualizzarli. Il primo riguarda il San Giovannino mediceo, da lui ritenuto
opera del giovane Michelangelo (oggi attribuita invece a Domenico Pieratti, e
quindi successiva di quasi un secolo in termini di esecuzione). Va detto che
anche all’epoca l’opera fu oggetto di dibattito, e proprio i dubbi sulla sua
paternità fecero sì che van Bode (convinto della mano michelangiolesca) potesse
acquistarla a prezzo relativamente basso. Non si può dimenticare che all’epoca
i musei berlinesi non possedevano sculture di Michelangelo e si trattava dunque
anche di una questione di prestigio internazionale: quasi tutte le capitali
europee potevano vantarne uno (e anche lì abbondavano, a essere onesti, i
falsi). Molto simile è la questione della cosiddetta Pala Grifi, che già
Passavant, come abbiamo visto, aveva assegnato al catalogo di Marco d’Oggiono.
Riscoperta nei depositi della Gëmaldegalerie, Bode non aveva esitato
ad assegnarla a Leonardo: anche qui si trattava, a dire il vero, dell’urgenza
di possedere una copia del celeberrimo artista.
E sempre a proposito di Leonardo
non si può tacere della vicenda attributiva che più critiche sollevò nei
confronti di von Bode, ovvero quella relativa al busto in cera della Flora, acquistato nel 1909 in
Inghilterra a prezzo bassissimo e poi dichiarato essere opera di Leonardo.
Anche in questo caso, le implicazioni politiche erano evidenti: gli esperti
tedeschi erano riusciti a giocare un brutto scherzo a quelli inglesi. Tuttavia,
qualche mese, dopo sulla stampa inglese uscì un articolo in cui si sosteneva
che la Flora era opera dello scultore
contemporaneo Richard Cockle Lucas. La vicenda e tutto ciò che ne conseguì
ebbero una eco enorme in tutta Europa e rischiarono di minare dalle fondamenta
la credibilità di Bode, direttore di tutti i musei di Berlino da cinque anni. In
merito Caglioti non ha certo paura di esporsi e ritiene che “i tempi siano ormai maturi non certo per
salutare in essa [n.d.r nella Flora] un
capolavoro di Leonardo, ma altrettanto certamente per riconoscervi un
interessante esercizio plastico della cerchia leonardesca” (p. 86).
Resta comunque, intatta, l’enorme
qualità visiva della connoisseurship
di von Bode; resta il fatto che quasi tutti i conoscitori di cui parleremo di
qui in avanti fecero esperienza sotto la sua egida o, se in contrasto, non
poterono comunque fare a meno di riconoscerne l’autorevolezza; resta - vorrei
aggiungere – che è anche grazie a von Bode che il centro dell’arte tedesca si
sposta da Monaco a Berlino; e (giustamente non oggetto di questo intervento) resta
il suo rapporto con gli artisti contemporanei (a
partire dalla sua pluridecennale amicizia con Max Liebermann) e con
i direttori di gallerie d’arte e i grandi mercanti [7].
Fine della Parte Seconda
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NOTE
[3] Su Lady Eastlakes si veda
quanto scritto da Julie Sheldon in Susanna
Avery-Quash, Julie Sheldon, Art for the
Nation. The Eastlakes and the Victorian Art World, London, The
National Gallery, 2011.
[4] Si veda La
donna che amava i colori. Mary P. Merrifield: Lettere dall’Italia (1845-1846),
a cura di Giovanni Mazzaferro, Milano, Officina Libraria, 2018.
[5] Susanna Avery-Quash e Corina
Meyer, ‘Substituting an approach to
historical evidence for the vagueness of speculation’: Charles Lock Eastlake
and Johann David Passavant’s contribution to the professionalization of art
historical study through source-based research in Journal
of Art Historiography, N. 18/2018.
[6] Si veda Giacomo Agosti, “Storici
dell’arte”, “Conoscitori” e “Funzionari di musei”: i colleghi tedeschi di
Adolfo Venturi a cavallo tra XIX e XX secolo in Kunstliteratur als Italienerfahrung [La
letteratura artistica come esperienza dell'Italia], a cura di Helmut
Pfotenhauer, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1991.
[7] A questo proposito mi sembra il caso di segnalare che a Berna, fra l’8 e il 9 novembre di quest’anno si svolgerà il convegno Wilhelm von Bode and the Art Market, che sembra importante occasione di riflessione sull’argomento.
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