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venerdì 26 ottobre 2018

I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento. A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova. Parte Seconda


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I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento
A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova


Milano, Officina Libraria, 2018

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda

Moretto da Brescia, Santa Giustina da Padova e un donatore (attribuita al Moretto da Carl Friedrich von Rumohr - cfr. p. 20), Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Fonte: Wikimedia Commons

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Chiara Battezzati.
Carl Friedrich von Rumohr (1785-1843) tra Milano e Brescia: riflessioni e nuove letture

(pp. 15-26)

Il contributo di Chiara Battezzati fa riferimento alla presenza di Carl Friedrich von Rumohr in Lombardia e alle capacità di conoscitore che dimostra di avere, più in generale, con la pittura lombarda. Lo studio prende l’abbrivio dai Drey Reisen nach Italien (1832) per poi analizzare un articolo assai meno noto, dedicato al Moretto, apparso sulla rivista «Echo» nel 1837. Battezzati ha avuto modo di affrontare l’argomento in maniera più estesa in un numero monografico della rivista «Concorso», alla cui recensione, già pubblicata in questo blog, si rimanda. Sui Drey Reisen, che evidenziano, oltre alle capacità di conoscitore di von Rumohr, il suo interesse per le fonti (di cui sono massima espressione le Italienische Forschungen (1827-1831)) e la sostanziale commistione fra questioni estetiche e storia dell’arte, tipica ancora di quegli anni, rinvio alla recensione apparsa anch’essa su questo blog a cura di Francesco Mazzaferro.


Alfonso Litta, Miriam Laffranchi
Johann David Passavant (1787-1861) in Lombardia, fra i taccuini di Francoforte e gli articoli sul «Kunst-Blatt»

(pp. 27-38)

Alfonso Litta e Miriam Laffranchi sono coloro che più tempo hanno dedicato, in questi anni, all’approfondimento della figura di Johann David Passavant. Con una differenza: mentre Litta ha avuto modo di pubblicare le sue ricerche in Johann David Passavant, Contributi alla storia delle antiche scuole di pittura in Lombardia. Silvana editoriale, 2015, alla cui recensione si rimanda, Laffranchi non è (ancora) riuscita a dare alle stampe la trascrizione del primo e di parte del secondo dei trentasette taccuini che lo studioso ha lasciato in eredità allo Städel Museum di Francoforte, istituzione museale che con Passavant ha un debito storico enorme. Mi si perdonerà quindi se mi concentrerò soprattutto su quest’ultimo aspetto. I taccuini di Passavant cominciano cronologicamente con il secondo viaggio italiano (1834-35) e si concludono poco prima del 1860. Naturalmente non comprendono gli appunti relativi alla sola permanenza in Italia, ma si estendono a tutti i suoi viaggi di studio successivi, appunto, al 1834 (insisto sulla data perché il celebre viaggio in Inghilterra che portò alla pubblicazione del Kunstreise durch England und Belgien nel 1833, poi tradotto in inglese da Lady Eastlake nel 1836 [3], è ovviamente precedente e dunque non contemplato).

Laffranchi ha trascritto (mi pare di capire senza essere particolarmente agevolata nel suo compito dall’amministrazione degli archivi del museo) il primo taccuino e parte del secondo, per una complessiva ottantina di pagine manoscritte che si riferiscono al secondo viaggio lombardo. Ne viene finalmente ricostruito il percorso, gli incontri con antiquari, collezionisti, pittori e restauratori. Non è certo un caso (visto il lasso di tempo relativamente contenuto intercorso fra i due eventi) che molti dei personaggi citati siano quelli incontrati da Mary P. Merrifield nel suo viaggio italiano del 1845-46 [4]. Dagli appunti emerge, a giudizio della ricercatrice, un quadro più spontaneo delle attività di ricerche di Passavant, per forza di cose più misurato e meno ‘coraggioso’ nei suoi articoli scritti per il «Kunst-Blatt».

Passavant dimostra, peraltro, di avere difficoltà con la valutazione dello stile tardo-quattrocentesco lombardo (Bramantino in particolare), ma di essere capace di attribuzioni ‘profetiche’ come nel caso della Pala Grifi del Museo di Berlino, attribuita su base stilistica a Marco d’Oggiono (all’epoca ritenuta di Gaudenzio Ferrari, poi attribuita da Wilhelm von Bode a Leonardo). Lo studio delle fonti è comunque elemento che Passavant ha sempre ben presente come complementare e coadiuvante rispetto all’attività attribuzionistica. In merito mi permetto di consigliare la lettura del recente saggio dedicato da Susanna Avery-Quash e Corina Meyer al carteggio intercorso fra  Passavant ed Eastlake fra 1845 e 1846 [5].

Giovanni Antonio Boltraffio e Marco d'Oggiono, Cristo risorto con i santi Leonardo e Lucia (o Pala Grifi), 1491-1497 c., Berlino, Staatliche Museum, Gemäldegalerie
Fonte: Web Gallery of Art via Wikimedia Commons


Dóra Sallay
«Pratichissimo della scuola senese»: Johann Anton Ramboux (1790-1866) conoscitore

(pp. 39-51)

Johann Anton Ramboux è noto soprattutto per la sua straordinaria attivista di ‘divulgatore’ iconografico dell’arte religiosa dei primitivi italiani. La sua scelta di vita fu determinata da un profondo senso religioso maturato all’ombra dei Nazareni tedeschi. Nel corso di due o tre prolungati soggiorni in Italia (i due sicuri sono del 1816-1822 e del 1833-1842/3) Ramboux copiò un numero impressionante di opere sacre soprattutto del centro Italia. L’abilità di Ramboux come disegnatore e copista (recentemente ai suoi disegni e acquarelli è stata dedicata una mostra fotografica online organizzata proprio dal «Kunst») è però solo il prerequisito che lo portò a pubblicare una serie di volumi di litografie destinati a far conoscere le opere al grande pubblico.

Fra il 1837 e il 1842, peraltro, Ramboux non si limitò a continuare la sua incessante attività di testimone visivo delle opere, ma iniziò anche a collezionarle, con particolare riferimento ai primitivi senesi. Siena fu, infatti, l’area in cui l’erudito concentrò le sue attività di ricerca, stringendo una lunga e duratura amicizia con gli ambienti colti della città, dai fratelli Milanesi a Carlo Pini. Un’amicizia che proseguì anche quando Ramboux tornò definitivamente in Germania (fra 1842 e 1843), divenendo curatore del Wallraf Museum di Colonia e rimanendovi fino alla morte.

Il ricercatore non pubblicò studi sull’arte senese e proprio per questo la sua connoisseurship è passata in secondo piano rispetto alle capacità di illustratore e copista. Un esame attento del catalogo ch’egli stesso pubblicò nel 1862 a descrizione della sua collezione personale (dispersa dopo la morte) mostra, tuttavia, alcuni aspetti caratteristici: in assenza di dati certi sulla sua formazione, evidenzia come Ramboux conoscesse molto bene le fonti, antiche e moderne (cfr. p. 42), e come tendesse, in linea di massima, in sede attributiva a rifarsi a quanto già precedentemente pubblicato. Dove le buone doti di connoisseur emergono è, ovviamente, quando ci si trova di fronte a opere che furono ‘dimenticate’ storicamente dalla letteratura artistica e che proprio grazie a Ramboux tornavano alla ribalta. Il discorso vale in particolar misura, come ovvio, per i primitivi. I corpora delle opere dei senesi Giovanni di Paolo, Sano di Pietro, Matteo di Giovanni, Guidoccio Cozzarelli, Neroccio de’ Landi si infoltiscono proprio grazie al conoscitore tedesco e, anche quando le attribuzioni si dimostrano non corrette, schiudono comunque nuove strade di ricerca su cui si innesteranno in seguito altri studiosi.


David Ekserdjian
Gustav Fredrich Wagen (1794-1868) and the Treasures of Art in Great Britain

(pp. 52-60)

L’autore fornisce esempi della connoussership di Gustav Waagen tratti dalla sua opera principale, i Treasures of Art in Great Britain (tre volumi pubblicati nel 1854) seguiti subito dopo da un tomo supplementare intitolato Galleries and Cabinets of Art in Great Britain (1857). La traduttrice del tedesco dei volumi era, ancora una volta (si veda Passavant più sopra), Elizabeth Rigby, ovvero Lady Eastlake. Frutto dell’espansione dei precedenti Kunstwerke und Künstler in England und Paris, per quanto riguarda la sola parte inglese (ne era uscita una traduzione inglese col titolo Works of Art and Artists in England nel 1838), i Treasures e le Galleries giungono quando Waagen è direttore da più di vent’anni della Gemäldegalerie berlinese, conducendo campagne di acquisizione di centinaia di opere in collaborazione con von Ruhmor, e professore di storia dell’’arte (la prima cattedra della disciplina in assoluto) alla locale Università dal 1844. 

Tramite il richiamo a una serie di attribuzioni Ekserdjian segnala fondamentalmente alcuni aspetti: non sono noti i criteri con cui Waagen prendeva appunti sulle opere che vedeva, ma è estremamente probabile che avesse taccuini come tutti i grandi conoscitori dell’epoca; certo è che Waagen dimostra una memoria visiva straordinaria (si veda il caso delle attribuzioni a Giorgio Gandini del Grano, pittore parmense minore di inizio Cinquecento – cfr. p. 57); e, soprattutto, emerge nello studioso un’innata capacità di riconoscere nelle opere la qualità (uno degli aspetti più importanti della connoussership secondo quanto scrive Mina Gregori nella sua introduzione al presente volume).

Per quanto mi riguarda mi sembra giusto richiamare a questo punto due scritti di Waagen recensiti in questo blog da Francesco Mazzaferro: nulla hanno a che vedere, direttamente, col ‘prototipo’ del conoscitore, ma, a mio avviso, testimoniano come, nel praticare quotidianamente questo ruolo, lo studioso avesse comunque una particolare attenzione (di stampo idealistico) all’individualità dell’artista: si tratta delle due recensioni che scrisse per l’antologia Lettere d’artisti di Ernst Karl Guhl, pubblicata fra 1853 e 1856.

Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori (visti da Waagen nel 1835 nella collezione del Conte di Radnor - cfr. p. 54), 1533, Londra, The National Gallery.
Fonte: https://artsandculture.google.com/asset/bQEWbLB26MG1LA 

Patrizio Aiello
Gustavo Frizzoni (1840-1919), Wilhelm Bode e l’eredità del Cicerone


Frontespizio della prima edizione del Cicerone di Jacob Burckardt (1855)
Fonte: https://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/burckhardt1855/0001/image

Le vicende editoriali de Il Cicerone. Guida al godimento delle opere d’arte in Italia, pubblicato da Burckhardt (1818-1897) nel 1855 si rivelano di particolare interesse e ci introducono in qualche modo, nell’ambito degli atti che stiamo commentando, ai grandi conoscitori della seconda metà dell’Ottocento, italiani o tedeschi che essi fossero. Uno di questi fu appunto Gustavo Frizzoni, mentre su Wilhelm von Bode (1845-1929) avremo modo di tornare nel prossimo saggio. Frizzoni fu, di fatto, l’alter-ego di Giovanni Morelli. Il titolo del contributo di Aiello richiama in particolare un episodio, una lettera che Frizzoni inviò all’anziano Burckhardt nel 1888 a commento della quinta edizione del Cicerone, in cui, di fatto, si suggeriva una serie di modifiche ad attribuzioni presentate nell’opera.

Dobbiamo però, prima, fare un passo indietro tornando all’enorme successo editoriale dell’opera (non però in ambito italiano, dove l’unica traduzione italiana è del 1952). Nel mondo di lingua tedesca se ne contano una decina di edizioni fino a fine secolo. La seconda è del 1869, successiva quindi di quasi quindici anni rispetto alla prima e mostra già una caratteristica che sarà propria, in maniera molto più evidente, di tutte le altre. Non è a cura di Burckhardt (che pure mantiene una supervisione generale), ma a seguirne la redazione è Alfred von Zahn, che si affida a un gruppo di collaboratori ed esperti per i necessari aggiornamenti e completamenti. Fra essi compare anche Gustavo Frizzoni. In prossimità dell’uscita della terza (1873), Zahn muore, tanto che l’introduzione è scritta da Wilhelm von Bode, e proprio a von Bode (grande amico di Burckhardt e figura cardine del mondo dell’arte guglielmino) è affidata la cura anche della quarta (1879). Siamo di fronte a uno stravolgimento editoriale: mentre Zahn si era premurato di mantenere l’impostazione originale, Bode la rivede in toto e Burckhardt (che pure mantiene una supervisione di facciata) diventa quasi un marchio, un po’ come potremmo dire oggi dello Zingarelli per il noto vocabolario della lingua italiana. Sono anni in cui Bode e Morelli esprimono pareri molto diversi su questioni nodali dell’attribuzionismo (ad esempio sull’opera pittorica di Verrocchio), e soprattutto il ‘metodo scientifico’ morelliano è poco gradito al grande studioso tedesco, che per molti versi appare più vicino a Cavalcaselle. I rapporti personali sono difficili e anche i giudizi espressi sulla nuova edizione del Cicerone ne risentono: Frizzoni esprime riserve sull’opera. In mezzo a tutti, ovviamente, c’è Burckhardt, che però, amico personale di Bode e probabilmente più vicino alla sua sensibilità, chiarisce di essere fuori dal mondo della connoisseurship, e di avere un orizzonte idealista che poco ha a che fare con questioni di attribuzione. Scrive nel 1882: “È invero cosa stupenda arrivare a conoscere un maestro attraverso le sue opere, penetrarne lo spirito; vi è però una ragione e un vantaggio anche nell’altra cosa, nel non preoccuparsi se l’attribuzione del quadro sia esatta, purché esso generi in noi le sensazioni della bellezza, purché esso faccia appello al nostro intimo ideale e ci appaia come simbolo del sublime” (p. 65).

La quinta edizione del Cicerone (1884) è la goccia che fa traboccare il vaso. Frizzoni nemmeno la recensisce. Solo quattro anni dopo, in seguito a schermaglie che vedono coinvolti Hugo von Tschudi, allievo di Bode, e lo stesso Morelli, ne fornisce una lettura in cui si fa una sorta di inventario di tutti i nodi irrisolti e contestabili presenti nell’opera. Qualche mese dopo scrive direttamente a Burckhardt, ripetendo in sostanza le stesse lamentele. Burckhardt, ancora una volta, si tira fuori, ma fa capire di aver perso ogni entusiasmo nei confronti di un’opera che, a circa trentacinque anni dall’iniziale pubblicazione, non sente più sua. In realtà ben poche delle osservazioni di Frizzoni saranno accolte nella sesta edizione dell’opera (1893), ma nel frattempo il fronte morelliano si rinforza grazie all’arrivo dall’America di un giovanissimo Bernard Berenson (1865-1959), che, in uno scritto del 1894, la cui paternità non è certa, ma assai probabile, rincara la dose e soprattutto mette in evidenza un aspetto fondamentale, ovvero che in quarant’anni il Cicerone ha perso la sua ragion d’essere originaria, la “qualità d’opera d’arte spiccatamente individuale”, trasformandosi piuttosto in una sorta di repertorio e sottolineando quindi l’esigenza di tornare all’edizione del 1853 per coglierne appieno gli indubbi pregi.


Francesco Caglioti
Su Wilhelm von Bode (1845-1929)

(pp. 73-86)        

Leonardo da Vinci, Ritratto di Ginevra de' Benci (attribuito a Leonardo da Wilhelm von Bode - cfr. p. 79), 1474-1478 circa, Washington, The National Gallery
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leonardo_da_Vinci_-_Ginevra_de%27_Benci_-_Google_Art_Project.jpg

Wilhelm von Bode è figura fondamentale del mondo artistico guglielmino. La sua personale parabola professionale coincide, di fatto, con il II Impero tedesco. Bode prende servizio nei musei berlinesi come assistente nel 1872 e lascia alla fine del 1920, dopo la sconfitta della Prima guerra mondiale, la caduta degli Hoenzollern e la nascita della Repubblica di Weimar. In quei cinquant’anni, scalando tutti i gradini delle istituzioni museali berlinesi, Bode si afferma come la vera e propria incarnazione della politica culturale guglielmina in ambito artistico, creando un polo museale di assoluta eccellenza nella capitale tedesca. Scrive Caglioti in merito: “Tutta la sua frenetica operosità fu spesa, con successi enormi, nel procurare a Berlino quella ricchezza e articolazione di raccolte pubbliche necessarie a una delle massime capitali europee, recuperando i ritardi che la città neo-imperiale aveva maturato nel frattempo rispetto a Parigi, Vienna, San Pietroburgo e Londra” (p. 76). I veri modelli di riferimento di Bode sono i musei inglesi: il British Museum, il South Kensington (oggi Victoria & Albert), la National Gallery e la National Portrait Gallery. È ad essi che lo studioso si ispira (e non è l’unico nel mondo di lingua tedesca: si pensi a Gottfried Semper per il South Kensigton) e con cui entra in competizione, sempre alla ricerca di opere d’arte (specie fiamminghe e italiane) da acquistare a prezzi bassi per poi dimostrare, con le sue attribuzioni, che si trattava di autentici capolavori. I metodi di Bode, in questa ansia d’acquisizioni, non sempre sono ortodossi. Camillo Miceli, nel suo articolo su Hermann Voss e la riapertura postbellica del «Kunst» a Firenze, nell’autunno 1822 (vedi oltre), mette in evidenza come von Bode avesse spesso inviato nel capoluogo toscano giovani studiosi che, oltre a approfondire le loro ricerche, avevano l’incarico di cercare di individuare occasioni d’acquisto particolarmente allettanti. E Caglioti aggiunge: “Se noi italiani volessimo ricostruire da un punto di vista inedito la faticosa storia dei primi provvedimenti di tutela nel nuovo Stato unitario, almeno fino alle leggi del 1902-03, potremmo seguire le mosse di Bode, viaggiatore e compratore indefesso nelle regioni del Centro e del Nord, e risoluto a portarsi via perfino, e per fortuna invano, l’altare con il San Sebastiano di Antonio Rossellino a Empoli, o il polittico di Luca Signorelli ad Arcevia, o il Trittico Portinari di Hugo van der Goes” (pp. 78-79). Del resto è noto che lo stesso Adolfo Venturi (dal 1888 a capo della Direzione Centrale delle Antichità e delle Belle Arti, di fronte ai comportamenti soprattutto di Bode, cercò un punto d’incontro coi direttori di musei stranieri, invitandoli a far parte delle commissioni che decidevano per le esportazioni delle opere d’arte italiane e cercando di responsabilizzarli sul tema della conservazione del patrimonio peninsulare [6].

Come capita sovente quando si ha a che fare con un grande conoscitore (e, in questo caso, di un conoscitore con competenze quasi universali rispetto alla produzione artistica) a fare notizia sono gli errori, più che la corretta assegnazione delle opere. In merito Caglioti ne segnala due, cercando di contestualizzarli. Il primo riguarda il San Giovannino mediceo, da lui ritenuto opera del giovane Michelangelo (oggi attribuita invece a Domenico Pieratti, e quindi successiva di quasi un secolo in termini di esecuzione). Va detto che anche all’epoca l’opera fu oggetto di dibattito, e proprio i dubbi sulla sua paternità fecero sì che van Bode (convinto della mano michelangiolesca) potesse acquistarla a prezzo relativamente basso. Non si può dimenticare che all’epoca i musei berlinesi non possedevano sculture di Michelangelo e si trattava dunque anche di una questione di prestigio internazionale: quasi tutte le capitali europee potevano vantarne uno (e anche lì abbondavano, a essere onesti, i falsi). Molto simile è la questione della cosiddetta Pala Grifi, che già Passavant, come abbiamo visto, aveva assegnato al catalogo di Marco d’Oggiono. Riscoperta nei depositi della Gëmaldegalerie, Bode non aveva esitato ad assegnarla a Leonardo: anche qui si trattava, a dire il vero, dell’urgenza di possedere una copia del celeberrimo artista.

E sempre a proposito di Leonardo non si può tacere della vicenda attributiva che più critiche sollevò nei confronti di von Bode, ovvero quella relativa al busto in cera della Flora, acquistato nel 1909 in Inghilterra a prezzo bassissimo e poi dichiarato essere opera di Leonardo. Anche in questo caso, le implicazioni politiche erano evidenti: gli esperti tedeschi erano riusciti a giocare un brutto scherzo a quelli inglesi. Tuttavia, qualche mese, dopo sulla stampa inglese uscì un articolo in cui si sosteneva che la Flora era opera dello scultore contemporaneo Richard Cockle Lucas. La vicenda e tutto ciò che ne conseguì ebbero una eco enorme in tutta Europa e rischiarono di minare dalle fondamenta la credibilità di Bode, direttore di tutti i musei di Berlino da cinque anni. In merito Caglioti non ha certo paura di esporsi e ritiene che “i tempi siano ormai maturi non certo per salutare in essa [n.d.r nella Flora] un capolavoro di Leonardo, ma altrettanto certamente per riconoscervi un interessante esercizio plastico della cerchia leonardesca” (p. 86).

La tavola del busto in cera della Flora pubblicata in Francesco Malaguzzi Valeri, Leonardo da Vinci e la scultura, Bologna, Zanichelli, 1922 con attribuzione alla maniera leonardesca
Fonte: https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Francesco_Malaguzzi_Valeri_-_Leonardo_da_Vinci_e_la_scultura,_Bologna,_1922.djvu/154

Resta comunque, intatta, l’enorme qualità visiva della connoisseurship di von Bode; resta il fatto che quasi tutti i conoscitori di cui parleremo di qui in avanti fecero esperienza sotto la sua egida o, se in contrasto, non poterono comunque fare a meno di riconoscerne l’autorevolezza; resta - vorrei aggiungere – che è anche grazie a von Bode che il centro dell’arte tedesca si sposta da Monaco a Berlino; e (giustamente non oggetto di questo intervento) resta il suo rapporto con gli artisti contemporanei  (a partire dalla sua pluridecennale amicizia con Max Liebermann) e con i direttori di gallerie d’arte e i grandi mercanti [7].


Fine della Parte Seconda
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NOTE

[3] Su Lady Eastlakes si veda quanto scritto da Julie Sheldon in Susanna Avery-Quash, Julie Sheldon, Art for the Nation. The Eastlakes and the Victorian Art World, London, The National Gallery, 2011.

[4] Si veda La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield: Lettere dall’Italia (1845-1846), a cura di Giovanni Mazzaferro, Milano, Officina Libraria, 2018.

[5] Susanna Avery-Quash e Corina Meyer, ‘Substituting an approach to historical evidence for the vagueness of speculation’: Charles Lock Eastlake and Johann David Passavant’s contribution to the professionalization of art historical study through source-based research in Journal of Art Historiography, N. 18/2018.

[6] Si veda Giacomo Agosti, “Storici dell’arte”, “Conoscitori” e “Funzionari di musei”: i colleghi tedeschi di Adolfo Venturi a cavallo tra XIX e XX secolo in Kunstliteratur als Italienerfahrung [La letteratura artistica come esperienza dell'Italia], a cura di Helmut Pfotenhauer, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1991.

[7] A questo proposito mi sembra il caso di segnalare che a Berna, fra l’8 e il 9 novembre di quest’anno si svolgerà il convegno Wilhelm von Bode and the Art Market, che sembra importante occasione di riflessione sull’argomento.


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