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giovedì 3 maggio 2018

Jessica Lack, [Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]. Parte Prima


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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Jessica Lack,
[Perché siamo 'artisti'? 100 Manifesti dell'arte nel mondo]

Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos
London, Penguin Modern Classics, 2017, 502 pagine.

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Prima

Fig. 1) La copertina dell’antologia di Jessica Lack, pubblicata da Penguin Modern Classics nel 2017

Ogni buona antologia richiede coraggio e coerenza nella selezione dei testi, ed è destinata a fornire al lettore un panorama profondamente differente a seconda dei parametri utilizzati. Questa di Jessica Lack, studiosa indipendente con un passato alla Tate Gallery e al quotidiano britannico The Guardian, è un’ottima antologia di letteratura artistica [1], centrata sull’analisi di cento manifesti di artisti o gruppi di artisti del XX secolo. Nel titolo la parola artisti è scritta tra virgolette, a mio parere a significare due cose:  primo, che l’antologia non presenta solamente i testi di pittori e scultori, ma anche di artisti della performance e dell’azione diretta; secondo, che proprio l’essere artisti è il tema che accomuna i manifesti. Nessuno o quasi di questi ultimi – è bene dirlo subito – rientra però nei canoni ‘tradizionali’ della storia dell’arte occidentale così come la conosciamo. 
  
Penguin Modern Classics ha nel suo catalogo, sin dal 2011, un altro titolo dedicato ai manifesti d’artista più ‘tradizionali’ del XX secolo. Si tratta di “100 Artists' Manifestos: From the Futurists to the Stuckists” [2], a cura di Alex Danchev (1955-2016), famoso professore di geopolitica, relazioni internazionali e storia militare che, in parallelo, si è dedicato alla storia dell’arte (scrivendo saggi su Braque e Cézanne) e alla letteratura artistica (ha curato una traduzione inglese delle lettere di Cezanne). Nessuno dei manifesti selezionati da Danchev compare nell’antologia di Lack del 2016.  Entrambi gli autori, tuttavia, forniscono un’interpretazione politica dell’arte del XX secolo. In un articolo comparso prima della sua recente scomparsa, Danchev ha scritto: “Contrariamente a ciò che si crede correntemente, sono gli artisti e non i politici a creare un nuovo ordine internazionale” [3]. Vedremo come, per molti aspetti, l’antologia della Lack percorra la stessa strada: “Quel che semmai li unisce – scrive quest’ultima nell’introduzione, riferendosi ai cento manifesti che ha scelto – è il credo nell’arte come forza vitale in grado di fornire maggior potere” [4].

Non si può, poi, non svolgere una breve considerazione sulla domanda che compare nel titolo del volume: “Perché siamo ‘artisti’?” Nella storia della critica d’arte, la questione di che cosa muova gli artisti a creare è divenuta centrale con Alois Riegl (1858-1905), esponente della Scuola di Vienna del tardo Novecento e studioso intriso di cultura nietzschiana. Riegl si chiede come spiegare i momenti di rottura della storia dell’arte, e, in particolare, quelle fasi che sono spesso passate alla storia come momenti di decadenza, ma che a suo parere rivelano invece una particolare capacità innovativa.  È il caso, ad esempio, dell’arte tardo-romana e del barocco, in cui vengono – nel primo caso – violati i modelli formali dell’arte greco-romana e – nel secondo caso – accentuati a dismisura gli aspetti di fantasia già presenti nell’iconografia cinquecentesca. Per Riegl tutto ciò si spiega con la volontà dell’artista (il termine tedesco è Kunstwollen) di rappresentare – soprattutto in termini spirituali – le novità del suo tempo. Con Riegl nasce l’idea che l’artista non possa che modificare l’arte del passato, in quanto interprete, sempre, del presente. Non so se l’autrice sarebbe d’accordo (moltissimi fra i manifesti da lei raccolti vanno in direzione opposta a un’interpretazione ‘eroica’ ed individualista dell’arte), ma il suo volume è a mio parere un’antologia su come il Kunstwollen abbia continuato a manifestarsi nel XX secolo.


Un'antologia di “World Art” 

L’antologia è, dunque, una raccolta di cento manifesti dell’arte mondiale. Il mondo dell’autrice, tuttavia, è molto diverso da quello che ci aspetteremmo. Invano il lettore cercherebbe qui i manifesti dei futuristi e dei surrealisti, quelli dei gruppi del dopoguerra (come COBRA), o gli scritti che hanno segnato la nascita dell’arte pop o di quella concettuale. Il mondo di Lack (al contrario di quello di Danchev, già menzionato) esclude totalmente i paesi della ‘civiltà occidentale’. L’autrice propone una rilettura critica e radicale dell’essere artista nel mondo del ventesimo secolo. E a mio parere, in questo riesame, segue un criterio teleologico. A questo proposito, vorrei segnalare alcuni enunciati che, pur non dichiarati dall’autrice, mi sembrano sottintendere la selezione di Lack. Primo: l’arte deve servire a cambiare il mondo: sono quindi esclusi tutti i manifesti legati in qualche modo all’idea dell’arte per l’arte. Secondo: l’arte ha il compito di perseguire un processo di riscatto del mondo intero, inteso come umanità globale: l’antologia, quindi, presenta la traduzione in inglese di testi provenienti da ogni continente. Terzo: poiché la storia dell’arte è – nel suo insieme – legata a criteri concettuali occidentali (ovvero europei e nordamericani), l’unico modo per assicurare il raggiungimento di una visione dell’arte globale è quello di ignorare del tutto le correnti del mondo occidentale e dar corpo a un’antologia che sia estranea alla cultura prevalente nel campo dell’estetica e della critica d’arte. Solo in tal modo si può davvero liberare la “World Art” dalla sua ‘centralità’ occidentale.

Insomma, Why are we ‘artists’? è un’antologia d’arte contemporanea senza l’Occidente o addirittura contro l’Occidente. La grandissima parte dei testi selezionati, infatti, non è stata scritta da artisti europei o statunitensi; fanno eccezione, da un lato, gli scritti di artisti o gruppi di artisti viventi in occidente ma appartenenti a minoranze etniche che si associano alla cultura postcoloniale (rivendicando lo stravolgimento delle tesi fondamentali dell’estetica predominante, e in particolare la necessità di superare l’arte e l’estetica ‘bianca’) e dall’altro i manifesti di artiste vicine al femminismo radicale (contro il predominio maschile nel mondo dell’arte). Di conseguenza i tradizionali argomenti oggetto di dibattito all’interno dell’arte dell’Occidente non sono più percepiti come fondamentali nell’antologia: tutti i manifesti che a essa fanno riferimento (siano legati all’avanguardia più estrema o al recupero della classicità, siano espressione estetica di un pensiero radicato nel comunismo o al contrario consoni con il mondo dell’arte nelle economie di mercato) sono sistematicamente esclusi. Il discrimine radicale per essere accolti nella World Art non è più la libertà o l’eguaglianza sociale, ma il riconoscimento dell’indipendenza dei popoli post-coloniali. Per questo il primo scritto dell’antologia è del filosofo e storico dell’arte dello Sri Lanka Ananda Kentish Coomaraswamy (1877-1947), che scrive nel 1909. È lo stesso anno in cui Marinetti pubblica il manifesto del futurismo su Le Figaro per rifiutare ogni arte tradizionale, ma quello di  Coomaraswamy è un testo in cui si propugna il rifiuto dell’arte inglese, sotto l’ispirazione dei dipinti di Abanindranath Tagore (1871–1951), rappresentante del movimento Swadeshi e nipote del famoso poeta e premio nobel per la letteratura Rabindranath Tagore (1861-1941).

Sotto l’impulso del movimento Swadeshi, la provincia indiana del Bengala aveva perseguito per quattro anni, nel primo quinquennio del Novecento, una politica radicale di boicottaggio delle importazioni di beni inglesi. Coomaraswamy aderisce a tale politica. Si lamenta, infatti, che l’India moderna e anglicizzata non sia più capace di produrre bellezza, abbandonando il design tradizionale; e tuttavia osserva anche come il movimento autonomistico Swadeshi, nel tentativo di produrre localmente suppellettili e beni di consumo di massa per sostituire le importazioni, sia a rischio di dimenticare la necessità della bellezza [5]. Secondo il filosofo, anche un’India politicamente ed economicamente indipendente, ma incapace di pensare e agire secondo la propria tradizione spirituale, sarebbe stata insufficiente per conquistare il cuore della gente [6].

Non avete mai pensato – scrive Coomaraswamy – che il vostro dovere sia quello di rendere belle le nostre vite e il nostro ambiente, e al tempo stesso di renderle morali? Infatti senza bellezza non vi può essere una vera moralità e senza moralità una vera bellezza” [7]. Il filosofo parla di prostituzione dell’arte indiana [8], di imitazione servile del modo di vestire occidentale [9], di mancanza di vero e proprio amore per l’India e di sciocco ammiccamento per lo stile di vita praticato nelle verdi periferie delle città inglesi [10]. “La verità è che senza una comprensione dell’arte, la manifattura indiana non può essere effettivamente ripristinata. È suicida competere con l’Europa sulla base dei bassi costi. La competizione dovrebbe essere sulla qualità” [11].

L’ultimo manifesto, in senso cronologico, presente nell’antologia di Jessica Lack è il testo letto da una militante per i diritti dei migranti, l’artista cubana Tania Bruguera (1968-), specializzata in creazioni artistiche tramite performance e video. Di fronte all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Uomo a Ginevra, nel 2012, la Bruguera afferma: “L’arte non è un bene di lusso. L’arte è un bisogno sociale primario a cui ciascuno ha diritto. L’arte è un modo di strutturare il pensiero, di essere coscienti di se stessi e degli altri al tempo stesso. È una metodologia in costante trasformazione per la ricerca del qui ed ora. L’arte è un invito a porre domande: è il luogo sociale del dubbio, del voler capire e del voler cambiare la realtà. L’arte non è solamente una dichiarazione del presente, ma anche una richiesta per un futuro diverso e migliore. Perciò, è un diritto non solamente quello di godere dell’arte, ma anche di essere capaci di crearla. L’arte è un bene comune che non deve essere interamente compreso nel momento in cui lo si trova. L’arte è uno spazio di vulnerabilità dal quale ciò che è sociale è decostruito per costruire ciò che è umano. Gli artisti non hanno solamente il diritto di dissentire, ma il dovere di farlo. Gli artisti hanno il diritto di dissentire non solamente dagli aspetti affettivi, morali, filosofici o culturali, ma anche da quelli economici e politici. Gli artisti hanno il diritto di dissentire dal potere, dallo status quo. Gli artisti hanno il diritto di essere rispettati e protetti quando dissentono” [12].

I manifesti che Jessica Lack ci offre, nel quadro della World Art, sono dunque tutti legati al tema di come artisti asiatici, africani e latino-americani possano creare un mondo più libero, recuperando l’autonomia della tradizione artistica ed educando, nei loro ambiti, le rispettive opinioni pubbliche a liberarsi dalle categorie estetiche del continente europeo o dell’America settentrionale. Una situazione del tutto particolare è quella dei manifesti politici dei paesi dell’ex Blocco di Varsavia (gli unici dove la presenza europea sia molto ampia). Qui l’autrice non seleziona i testi ufficiali, che ovviamente appoggiavano la critica anti-capitalista e anti-colonialista, ma quelli dei dissidenti che cercano di boicottare il sistema estetico ufficiale. “Per gli artisti nell’Est europeo comunista, invece, l’influenza del marxismo è stata molto più ambivalente. Alla fine degli anni Cinquanta molti si sono trovati di fronte a una scelta sempre più netta: abbandonare la sperimentazione creativa e la libera espressione per esaltare le gioie del comunismo nell’arte di stato del realismo socialista, oppure entrare in una sorta di clandestinità. Ne è risultata – dal momento che ovviamente molti hanno scelto la seconda opzione – un’era prolifica di arte effimera, di performance e happening, e di manifesti d’artisti, molti dei quali presero forme dadaiste o molto metaforiche nel tema” [13].

Insomma, la lettura dell’antologia offre una risposta sostanzialmente univoca e coerente al tema posto sin dal suo titolo. L’arte è vista come espressione politica di una volontà radicale di cambiamento, così totale da trascendere in fondo tutti i temi classici della lotta politica europea nel secolo scorso ed annunciare quelli del nuovo secolo per il pianeta: lo scontro da un lato tra chi sostiene le ragioni di un mondo globalizzato, sorretto da un’opinione pubblica cosmopolita, e chi invece vuole l’affermazione della propria realtà etnica, come unica espressione della propria individualità culturale. Jessica Lack si schiera risolutamente con il secondo gruppo. Dato che si tratta di un’antologia di manifesti politici, non si può infatti fare a meno di notare che l’autrice individua – nel corso dell’intero secolo passato – alcune delle premesse ideologiche degli avvenimenti più recenti: la nascita di un ‘sovranismo’ affermativo e antieuropeo, non solamente in Europa, ma in molte aree del mondo, che si fonde molte volte con il movimento antiglobalizzazione. Infatti, nel loro sforzo di liberazione dagli schemi concettuali precedenti, moltissimi dei manifesti nell’antologia non cercano di influenzare l’arte occidentale, ma di crescere senza di essa, teorizzando il nazionalismo come programma di emancipazione. Gli artisti che ne sono autori non si pongono il problema di conquistare il mercato mondiale, le biennali, le riviste d’arte, la critica globale, ma di radicarsi nel loro territorio. Non si confrontano pari a pari con i pensatori dell’estetica occidentale, ma la rimuovono.


Primo tentativo di analisi critica

Oltre ad essere interessato all’arte e alla letteratura artistica, mi sento profondamente europeo ed al tempo stesso cittadino del mondo. Qual è il mio approccio a questa rilettura dell’arte contemporanea, che sostanzialmente distingue e separa queste due dimensioni della mia identità? Come reagire a una rassegna di nazionalismo estetico nel pianeta? Innanzi tutto, nonostante quella non sia affatto la mia convinzione, con interesse e rispetto. Si tratta di scritti e orientamenti artistici che non conosco, e dunque molto ho appreso. Non si può comprendere a fondo il mondo se non capendo che molti degli avvenimenti recenti, che sembrano improvvisi e inaspettati, sono in realtà il risultato di movimenti sotterranei che sono andati sviluppandosi per decenni. Seguendo la linea di interpretazione politica dell’antologia, i cento manifesti precedono e in qualche modo definiscono culturalmente le premesse per molti degli avvenimenti degli ultimi dieci anni, che hanno visto, ad esempio, i governi e le opinioni pubbliche di alcune parti del mondo (ad esempio i cosiddetti BRICS - Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – creati nel 2008) assumere posizioni sempre più determinate nel rivendicare un’identità differente da quella dell’Occidente. Quegli avvenimenti non sono dunque solamente il frutto di interessi politici ed economici, ma rivendicazioni d’indipendenza culturale. Non credo al futuro del mondo come forma di nuova guerra fredda tra blocchi, ma occorre comprendere che non si tratta solamente di tendenze passeggere. 

Ho poi riflettuto in tre direzioni. Mi sono prima di tutto chiesto quali siano le basi filosofiche e ideologiche di questo movimento che identifica una propria estetica in opposizione a quella occidentale e ho cercato di analizzarne alcuni testi che mi sono sembrati particolarmente ricchi di motivazioni. Ne parlerò in questa prima parte del mio saggio. Mi sono poi posto la domanda se una lettura dell’arte dei cento manifesti sia possibile solo come espressione di un antagonismo politico nei confronti dell’occidente, oppure se non sia, in verità, l’alba di un nuovo cosmopolitismo estetico, allargato all’intero pianeta. Ho fatto questo tentativo comparando i manifesti dell’America Latina inclusi in Why Are We ‘Artists’? con il catalogo della recente mostra A Tale of Two Worlds, organizzata a Francoforte sul Meno e a Buenos Aires con l’obiettivo (del tutto diverso da quello di Jessica Lack) di identificare un rapporto dialettico tra ciò che è successo in America Latina, in Europa e negli Stati Uniti tra gli anni Quaranta e Ottanta del secolo scorso (si rimanda alla seconda parte del post).  E, infine, ho riflettuto su quali lezioni un europeo internazionalista possa comunque ricavare dall’antologia di Jessica Lack, concentrandomi sui manifesti politici dal mondo arabo (terza e ultima parte). Il tutto, ovviamente senza abbandonare il terreno della letteratura artistica.


Le basi culturali di un’arte senza l’Occidente

Tra i cento manifesti dell’antologia, tre mi sembrano più interessanti per comprendere come sia stata elaborata e giustificata l’idea dell’indipendenza artistica dalle categorie estetiche occidentali. Il primo è opera di Barbara Jones-Hogu (1938–2017), artista afroamericana recentemente scomparsa e cofondatrice del movimento AFRI-COBRA: Si tratta di: “Storia, filosofia ed estetica di AFRI-COBRA”, un testo del 1973. Siamo a Chicago, in un ambito dove la comunità degli artisti di colore trova prima ispirazione nella lotta per i diritti civili negli Stati Uniti e poi nella rivendicazione di un’unità culturale tra tutte le popolazioni nere in Africa e nel mondo. Il secondo manifesto è scritto dagli artisti malesiani Sulaiman Esa (1941-) e Rezda Piyadasa (1939-2007) e si intitola “Verso una realtà mistica”: i due sono tra i teorici di un’arte asiatica metafisicamente slegata da quella europea. Il terzo manifesto è “Note preliminari per un MANIFESTO NERO” del 1975-1976. L’autore è Rasheed Araeen (1935-) artista concettuale pakistano trasferitosi nel 1974 a Londra e tuttora residente nella capitale britannica. Si tratta di un testo legato a una versione radicale del pensiero terzomondista, in cui tutti i popoli decolonizzati sono visti come parte di una comunità politica unita contro il mondo occidentale, e alleata delle collettività immigrate nell’occidente (che egli definisce come comunità nere, indipendentemente dal colore della loro pelle; dunque un asiatico che vive a Londra – come Araeen stesso – è, per l’autore, un ‘nero’) [14].

Prima di analizzare i tre testi bisogna riflettere su come queste tesi non siano rimaste testimonianza di un terzomondismo marxista degli anni Settanta, forse oggi invecchiato, ma si siano trasformate in nuove concezioni oggi rappresentate nel mondo della cultura di vari continenti del mondo, e molto più presenti di quanto in Europa si possa credere. Può essere utile leggere in proposito Provincialising Europe, uno scritto pubblicato nel 2000 dallo storico e filosofo indiano Dipesh Chakrabaty (1949-), attivo a Chicago, e pubblicato quattro anni dopo in italiano, in cui si teorizza una riduzione dell’Europa (intesa qui nel senso di cultura europea) allo stato di provincia, in tal modo escludendo e impedendo che il pensiero europeo possa avere valore universale come sistema di riferimento per il mondo intero. Vi si contesta il concetto – nato con la rivoluzione francese e confermato dalla filosofia ottocentesca da Kant ad Hegel – che esista uno “spirito del mondo” tramite il quale avvenimenti e desideri dell’umanità possano essere interpretati in modo unitario. Oggetto della contestazione sono tutti i concetti della “modernità politica” (per usare le parole di Chakrabaty), cui viene sottratto valore universale e negato il potere esplicativo della storia: “Concetti come cittadinanza, lo stato, la società civile, la sfera pubblica, i diritti umani, l’uguaglianza davanti alla legge, l’individuo, la differenza tra pubblico e privato, l’idea di soggetto, democrazia, sovranità popolare, giustizia sociale, razionalità scientifica e così via portano il peso del pensiero e della storia d’Europa” [15]. Come studioso appartenente alla corrente del pensiero post-coloniale, lo storico si riconosce come parte della modernità politica, e dunque ammette l’inevitabilità dell’utilizzo lessicale di questi concetti ogni volta che si scriva su temi sociali, ma si propone di creare una nuova narrativa che non si collochi più in una prospettiva europea. Per scrivere la storia dell’Asia meridionale decide, perciò, di sottolineare tutti gli elementi di continuità con la tradizione indiana (messa per iscritto, a seconda dei secoli, in sanscrito, persiano ed arabo) prevalente per diversi secoli prima dell’arrivo dei colonizzatori, invece di applicare a quel mondo i concetti dell’universalismo liberale o socialista. Chakrabaty si pone dunque la missione di trasformare elementi generalmente dimenticati della cultura dell’Asia meridionale in qualcosa di vivente e alternativo, che possa spiegare il presente. A suo parere, lo studio delle scienze politiche deve evolvere rafforzarando lo studio della dimensione nazionale del pensiero (teorizzando un nuovo nazionalismo in politica), disintermediando quel sistema globale di valori che egli considera in realtà l’espansione abusiva della narrativa europea.  


Storia, filosofia ed estetica di AFRI-COBRA (1973)  

Ma torniamo alla letteratura artistica con Barbara Jones-Hugo e il suo manifesto su Storia, filosofia ed estetica di AFRI-COBRA del 1973. COBRA, a dire il vero, fu già la sigla utilizzata nel primo dopoguerra da un gruppo di espressionisti astratti europei (la sigla stava per Copenaghen Bruxelles Amsterdam). Nell’ambito del mondo di colore della Chicago degli anni settanta, COBRA significa, invece, “Coalition of Black Revolutionary Artists” (Alleanza degli artisti rivoluzionari neri) e AFRI-COBRA ne rappresenta l’evoluzione semantica: “African Commune of Bad Relevant Artists”: la comune africana degli artisti arrabbiati ed impegnati. Assumendo il nome AFRI-COBRA, il gruppo decide di uscire dalla semplice prospettiva di una minoranza etnica statunitense e di porsi l’obiettivo internazionale di unire tutte le popolazioni nere sotto un’unica estetica etnica, in qualsiasi parte del mondo esse si trovino.

Il manifesto narra la nascita e l’evoluzione dei nuovi parametri iconografici, distinguendo tra la prima fase ‘nazionale’ (COBRA) e la seguente ‘internazionale’ (AFRI-COBRA). Il gruppo di artisti, originariamente riunito a Chicago nel 1968, - scrive Jessica Lack - “era coinvolto nei movimenti per i diritti civili, in contatto con artisti e poeti del Gruppo Surrealista di Chicago, e aveva precedentemente lavorato al murale collettivo Wall of Respect (1967) a Bronzeville, Chicago, che mostrava gli eroi neri. Era grazie a progetti come il murale di Bronzeville (poi successivamente distrutto nel 1971) che questi artisti avevano sperato di unire le disperate comunità afro-americane, scoprendo però che rappresentazioni eroiche di tipo convenzionale non erano sufficienti” [16]. Vi era  bisogno di parametri estetici nuovi, ovvero – e qui si tratta di un’espressione della Jones-Hogu – di valorizzare “qualità visive specifiche innate e intrinseche del nostro gruppo etnico” [17].

Alla prima riunione del gruppo COBRA, nel 1968 – composto, oltre che da Barbara Jones-Hogu,  anche da Jeff Donaldson (1932-2004), Jae Jarrell (1935-), Wadsworth Jarrell (1929-) e Gerald Williams (1941-) – gli artisti identificano gli elementi costitutivi della loro estetica: “colori brillanti, la figura umana, linee e contorni a volte presenti e a volte assenti [lost and found line], uso di lettere [lettering] e immagini che esplicitino le condizioni sociali, economiche e politiche del nostro gruppo etnico” [18]. I membri del gruppo decidono immediatamente di assumere una funzione politica: “Non era fantasia o arte per l’arte, era arte specifica e funzionale all’espressione di concetti sulla nostra esistenza come popolo nero” [19].

Per questo motivo COBRA identifica un “punto di vista funzionale”, che rappresenta “una dichiarazione di verità, azione, educazione, condizioni e modo di sentirsi del nostro popolo” [20] e che si esprime in alcuni stilemi iconografici.

A. L’approccio visivo deve essere centrato sull’uomo con figure frontali e dirette per segnalare forza, determinazione, profondità e orgoglio.
B. Il tema dell’opera deve essere completamente comprensibile all’osservatore, e perciò l’impiego delle lettere deve essere usato per estendere e chiarire l’approccio visivo. Le lettere devono essere incorporate nella composizione come parte dell’approccio visivo e non essere usate come titolo.
C. L’approccio visivo deve identificare i nostri problemi e offrire una soluzione, un modello di comportamento o atteggiamento.
D. L’approccio visivo deve educare, deve parlare al nostro passato, presente o futuro
” [21].  

Se si pensa che, in quegli anni, l’arte statunitense era caratterizzata dalla pop art oppure dal concettualismo, è evidente come la centralità della figura umana, la chiarezza dei temi (ad esempio tramite la visione frontale), il fine educativo siano invece caratteristici di questo movimento etnico (per certi aspetti viene da pensare ai cicli di pittura murale medievale, che si ponevano il problema di educare una popolazione largamente analfabeta, o alla pittura controriformata propugnata dalla Chiesa dopo il Concilio di Trento).

Nuovi membri si aggiungono: Sherman Beck (1942-), Carolyn Lawrence (1940-), Napoleone Henderson (1943-), Omar Lama e Nelson Stevens (1938-), fino a quando il gruppo non cambia nome in “AFRI-COBRA”, con questa motivazione: “Tutti i neri – qualunque sia il loro paese – hanno lo stesso problema: il controllo della terra e dell’economia da parte di europei ed euro-americani” [22]. Con l’ampliamento a una dimensione globale, i principi guida divengono più elaborati, e si distinguono in “concetti filosofici” e “principi estetici” [23]. I concetti filosofici vengono così descritti:

A – IMMAGINI, un dovere verso l’uomo, ispirato ai popoli africani e alle loro esperienze, IMMAGINI che svolgano funzioni a cui i popoli africani possano riferirsi direttamente facendone esperienza. Arte per il popolo - il popolo riflette l’arte e l’arte è il popolo – e non per i critici.
B – IDENTIFICAZIONE per definire e chiarire il nostro impegno a sostegno delle lotte dei popoli africani che intraprendono una guerra per la loro sopravvivenza e liberazione.

C – PROGRAMMATICA, arte che si occupa di concetti che offrono soluzioni positive e fattibili ai nostri problemi individuali, locali, nazionali e internazionali.

D – MODI D’ESPRESSIONE che possano essere utilizzati per tecniche di riproduzione di massa come la ‘Poster Art’, in modo che chiunque voglia possa avere con sé un’immagine.

E – GRANDIOSITÀ ESPRESSIVA, che non faccia appello alla serenità, ma si occupi di ciò che è eternamente sublime, invece che della bellezza effimera. Arte che susciti emozioni e faccia appello ai sensi[24].   


I principi estetici, scrive la Jones-Hogu, “non sono stati esclusivamente tratti dagli artisti del gruppo, ma dalle forme d’arte che abbiamo potuto ereditare come popolo africano” [25]. Sono anch’essi definiti in cinque categorie.

A - LIBERA SIMMETRIA, l’uso di ripetizione ritmica sincopata che cambia continuamente colore, tessitura, forme, dimensioni, modello, movimento, aspetto, ecc..
B – MIMESI NEL PUNTO CENTRALE, disegno che denota il punto d’incontro tra il reale e l’irreale, l’oggettivo ed il non aggettivo, il più e il meno. Un punto esattamente mediano tra l’astratto assoluto e il naturalismo assoluto.
C – VISIBILITÀ, chiarezza di forma e linea, basata sull’interessante irregolarità che si prova in un cerchio o in un oggetto organico disegnato a mano, il senso di movimento, crescita, cambiamento e tocco manuale.
D – LUMINOSITÀ, ‘splendore’, letterale e figurativo, come si può vedere da vestiti e dalla striatura di scarpe, capelli (che siano colorati o lavorati all’africana), mobili laminati, faccia, ginocchia o pelle.
E – COLORE, colori sgargianti, colori brillanti con sensibilità e armonia
” [26].  

Nell’estate 1970 AFRI-COBRA esce dall’ambito di Chicago e tiene una mostra dal titolo “Dieci [artisti] alla ricerca di una nazione”, prima allo Studio Museum di Harlem (https://www.studiomuseum.org/) e poi al NCAAA di Boston (Museum of the National Center of Afro-American Artists http://ncaaa.org/). Il successo conforta gli artisti, che si pongono allora il tema di trovare strumenti di produzione che riducano il costo delle opere e permettano la diffusione delle immagini all’interno della comunità nera, tradizionalmente più povera di quella bianca. Viene dunque adottata la produzione in serie di manifesti serigrafici (tecnica di cui fa largo uso anche la pop art americana). Una delle conseguenze inattese del successo è che cinque membri ricevono offerte da istituzioni accademiche e centri di belle arti della California e di altre località molto lontane da Chicago. La comunità dei dieci artisti che, sino ad allora, vivevano fra loro in simbiosi (gli artisti si sono incontrati ogni due settimane per discutere temi e immagini) è perciò a rischio. La Jones-Hogu scrive il manifesto nel 1973 per proporre nuovi orientamenti ai rimanenti cinque membri di Chicago: il ruolo fondamentale dell’individuo e della famiglia, la necessità di sostenere con l’immagine i bisogni educativi e la crescita culturale delle persone, l’attestazione dei bisogni economici e sociali, il ruolo della politica e della religione. Se si pensa che in quegli anni negli Stati Uniti l’arte ‘alternativa’ propugna l’uso di allucinogeni per produrre arte, il manifesto di AFRI-COBRA è, in realtà, un testo di grande conservazione dei costumi.

Così Barbara Jones-Hogu conclude il manifesto: “Infatti, AFRI-COBRA può indirizzarsi verso l’affermazione e la riaffermazione ripetuta del bisogno di organizzare e dare un obiettivo e fini precisi al nostro popolo, in modo che divenga un’entità più forte e coesa e nella direzione di un nazionalismo razziale. AFRI-COBRA non affermerà solamente i nostri problemi e soluzioni, ma anche le nostre emozioni, le nostre gioie, il nostro amore, il nostro atteggiamento, il nostro carattere, e la totalità delle nostre risposte emotive e intellettuali e dei nostri sentimenti. L’arte può essere una forza di liberazione – un approccio positivo in reazione allo stato di necessità e alla direzione del nostro popolo. L’immaginario visivo dovrà condurci a riunirci e a proiettarci come popolo in un’unità – una comunità che si muove verso una meta comune e un destino comune. NOI DI AFRI-COBRA SAPREMO CONTRIBUIRE A CHE CIÒ SI VERIFICHI” [27].

  
Verso una realtà mistica (1974)

Con il manifesto “Towards a Mystical Reality” ritorniamo in Asia. Il catalogo della mostra omonima, tenutasi a Kuala Lumpur nel 1974, è disponibile su internet (https://openresearch-repository.anu.edu.au/handle/1885/105176). I due autori del manifesto sono Sulaman Esa (1941-) e Redza Piyadasa (1939-2007). Dopo anni di permanenza a Londra, dalla fine degli anni Sessanta i due appartengono alla cosiddetta “New Scene” di Kuala Lumpur, una costellazione di giovani artisti che esplora il passaggio tra pittura e scultura ispirandosi a motivi costruttivisti, nel senso di una valorizzazione della natura materiale delle opere d’arte (si veda la Marakesh Series di Piyadasa).

Nel 1972 i due artisti testimoniano per l’ultima volta la loro partecipazione a sperimentazioni formali di gusto occidentale (con la mostra “Dokumentasi 1972”) e nel 1974 offrono invece una nuova lettura dell’arte contemporanea di stampo asiatico con “Towards a Mystical Reality”. Si tratta di una mostra estremamente interessante, dove sono esposte sculture-installazioni che hanno realizzato e firmato in comune. Scrive Jessica Lack: alla mostra i due presentano un’arte che “consiste in ricordi della vita di ogni giorno, come un impermeabile trovato in una discarica, una gabbia d’uccello dove  l’inquilino è stato liberato, una pianta in un vaso di cui i due artisti si sono occupati per molti mesi e un tessuto per serigrafia non più utilizzabile, impiegato in precedenza per fare belle stampe. Attraverso questi oggetti banali, essi illustrano la loro convinzione che l’artista sia al tempo stesso un creatore d’arte e un creatore di idee. Le reazioni alla loro mostra sono sia di grande esaltazione sia di rigetto radicale: lo scrittore Salleh Ben Joned [1941-] urina su una copia del manifesto che Esa e Piyadasa hanno scritto in inglese per il loro catalogo” [28].

Jessica Lack chiarisce immediatamente che quella di Esa e Piyadasa non è “arte per l’arte”:  “Esa e Piyadasa sono profondamente colpiti dalla violenza razziale [contro le minoranze cinesi] a Kuala Lumpur nel 1969, che aveva condotto a un lungo periodo di leggi d’emergenza, e credono che l’arte abbia un ruolo nel creare un’identità nazionale unitaria superando le fratture della società postcoloniale malese [si veda fig. 23) A proposito del 13 maggio 1969 di Redza Piyadasa, un’opera del 1970]. Il duo dichiara inoltre che è necessario creare in Asia una realtà visiva completamente nuova, più rigorosa dal punto di vista intellettuale, al fine di contrastare il pensiero artistico prevalente in occidente. Cercando di definire la natura precisa della loro visione alternativa, i due artisti affermano l’essenza metafisica posseduta da ogni opera d’arte, sostenendo che mentre l’arte occidentale concentra la propria attenzione sulla forma esterna, gli artisti asiatici hanno sempre cercato di dare enfasi allo spirito innato all’interno delle loro opere” [29].

Prima di analizzare il manifesto va detto che Piyadasa ed Esa si sono poi allontanati dal manifesto del 1974, che fra l’altro incitava gli artisti ad abbandonare la produzione di immagini pittoriche per abbracciare sculture ispirate a un concettualismo mistico di matrice asiatica. Innanzi tutto è cessata la produzione comune. Redza Piyadasa ha sperimentato composizioni alternative e, dopo essere poi ritornato alla pittura figurativa, si è dedicato negli ultimi decenni di vita a ritratti pittorici di famiglie malesi (le Malaysian series), mentre Sulaiman Esa – pur rimanendo nell’ambito di un’arte mistica – ha abbracciato temi ispirati dall’arte islamica, dedicandosi sempre più alla produzione di immagini artistiche realizzate tramite tessuti.

Il manifesto si apre con l’affermazione che il problema dell’artista moderno in Malesia è comune a quello di tutti i colleghi asiatici negli ultimi cinquant’anni: essi “devono utilizzare idiomi e stili che non sono per niente autoctoni rispetto alle rispettive tradizioni culturali” [30]. Ne nasce un dilemma, per ogni serio artista contemporaneo in Asia, tra l’interesse per manifestazioni e tecniche dell’arte moderna tipiche dell’occidente e l’identità culturale degli artefici, dilemma che, in ultima analisi, è un risultato della lunga dominazione coloniale.

I due scrivono di rifiutare tutte le correnti precedenti dell’arte malese che si riferiscono sia all’espressionismo astratto sia al costruttivismo della New Scene [31];  affermano però di non voler far riferimento nemmeno a forme tradizionali di arte etnica (rimangono esponenti di un’arte d’avanguardia). Utilizzando lo stampatello per sottolineare l’enfasi dell’affermazione, Esa e Piyadase dichiarano: “Noi cerchiamo invece di lavorare al di fuori della centralità CHe l’arte di ispirazione occidentale ASSEGNA ALla forma. Quel che cerchiamo di fare è gettare i semi per un pensiero che un giorno poSSA liberare gli artisti malesi dalla loro dipendenza dalle influenze occidentali” [32]. 

La sfida per il pittore moderno malese è, infatti, superare la tentazione di agire semplicemente per creare quadri – senza poi doverne giustificare il significato – e comprendere invece che il suo essere artista consiste non solamente nel produrre un’immagine, ma anche elaborare un concetto, collocandosi sia nell’ambito della storia dell’arte sia in quello delle idee [33]. Uno degli errori da evitare è, in particolare, quello di far propria la teoria romantica ottocentesca della “unicità” dell’artista e delle sue opere, e la visione della sacralità dell’arte come forma di sacerdozio [34].
  
La fonte d’ispirazione dell’artista malese moderno deve invece essere il modo di far arte che è prevalso in Asia per molti secoli. “Alcune osservazioni interessanti possono essere fatte guardando le forme di arte che si sono manifestate nel corso dei secoli in Asia. Mentre nel passato gli artisti hanno prodotto opere che riflettevano l’atteggiamento filosofico e religioso che era alla base del loro modo di vivere ed operare, oggi vi è una mancanza quasi totale di un impegno in questo senso. (…) I moderni artisti asiatici hanno in gran parte optato per una attitudine scientifico-razionalista, ignorando le considerazioni mistiche e religiose che avevano contribuito a produrre le grandi tradizioni artistiche dell’Asia nel passato” [35]. E qui non posso che segnalare una contraddizione: mentre la mistica occidentale del ‘sacerdozio dell’arte’ è considerata inappropriata, quella di origine religiosa orientale è vista come una preziosa fonte di ispirazione. L’affermazione del manifesto che alla logica bisogna sostituire sentimento e intuizione [36] sarebbe in realtà stata sottoscritta da tutti i romantici europei della seconda metà dell’Ottocento.

Nel manifesto si torna allo stampatello per sottolineare la convinzione dei due autori: “SiaMO certi che vi siano modi alternativi per avvicinarsi alla realtà, e il punto di vista occidentale, empirico e umanista, non è l’unico valido. Come tale, la tendenza tra gli artisti malesi moderni a soccombere al punto di vista europeo sulla realtà – che ha avuto inizio nel rinascimento europeo (e in realtà in Grecia) - sembra indicativa di una facile capitolazione al punto di vista scientifico della realtà” [37]. 

Quali sono i due pilastri su cui si deve invece basare la riflessione artistica di stampo asiatico? In primo luogo, quel che conta deve essere non il ‘vedere’ l’arte, ma il ‘concepirla’ [38]. L’arte deve dunque divenire “dialettica e concettuale” [39] e potersi confrontare con “idee pure” [40]. Le opere mistiche coprodotte da Redza Piyadasa e Sulaiman Esa per la mostra del 1974 non vanno intese, insomma, come oggetti frutto di manipolazione fisica, ma come idee che permettono al pubblico di ritrovare il senso profondo della vita [41] attraverso una comunione spirituale [42]. L’arte deve dunque consentire al pubblico – senza dover far uso di droghe – quelle stesse esperienze che in occidente si cercano attraverso gli allucinogeni [43]. In secondo luogo, bisogna sopprimere l’idea dell’artista come individuo creatore (l’arte riproduce la realtà), e sostituirla con quella di un soggetto indeterminato (nonentity) capace di entrare in contatto mistico con la realtà [44].

I due autori affermano inoltre che la transizione dell’arte globale da un modello centrato sull’occidente ad uno centrato sull’oriente è già in corso: molte delle sperimentazioni anti-formali in Giappone (citano Yoko Ono), ma anche in occidente (dai dadaisti a Yves Klein, da Piero Manzoni a John Cage) sono in realtà ispirate alla spiritualità orientale [45]. Anche nel campo della critica è in atto una nuova consapevolezza: essi citano le tesi del volume “Art in East and West - An Introduction through Comparisons” dello studioso statunitense Benjamin Rowland, (1904-1972), secondo cui la capacità di Wu-Daozi (pittore leggendario del settimo secolo dopo Cristo) di cogliere il flusso delle cose sarebbe superiore al titanismo di Michelangelo nella Cappella Sistina [46]. 

Anche dal punto di vista iconografico, alla logica occidentale basata sulla prospettiva centrale, sulla geometria euclidea e sulla narrazione di episodi uno successivo all’altro, bisogna sostituire la logica taoista di una visione “periferica (…) che considera la realtà come un’infinita successione di eventi. Mentre nell’occidente la tendenza è stata quella di isolare aspetti della realtà e studiarli intenzionalmente, nell’estremo oriente la tendenza è stata quella di osservare la realtà nella sua interezza” [47]. Se Cézanne arriva a interpretare la realtà isolando in essa forme geometriche (cubi, sfere, cilindri), se gli artistici cinetici occidentali (Moholy Nagy, Calder, Tingely) hanno bisogno di introdurre il movimento nelle loro opere, il pittore asiatico non può e non deve distinguere tra oggetti e azioni, natura e universo, spazio e tempo [48]. Il manifesto propone dunque che ogni opera statica sia al tempo stesso concepita come cinetica, senza bisogno di materializzare il movimento (in quanto pura documentazione di esperienze mentali) [49]. Vengono dunque a dissolversi i concetti estetici tradizionali dell’occidente: “bellezza, armonia, struttura, stile, simbolismo e tecnica” [50], tutti sostituiti dalla contemplazione “delle forze, delle energie e delle inesplicabili leggi della realtà all’interno della quale lo spettatore esiste e funziona” [51].

Il manifesto si conclude ricordando che, nella logica taoista, anche gli oggetti più banali posseggono uno spirito e che la loro contemplazione consente di cogliere l’essenza degli eventi. Dunque non vi è differenza tra quello che il pubblico può percepire nella mostra e nella vita di ogni giorno: “Sembra necessario ricordare infine che la visione della realtà che noi affermiamo mentre ci occupiamo di fenomeni non è tanto fenomenologica, ma mistica e spirituale. Le esperienze a cui sottoponiamo lo spettatore, come tali, non dovrebbero concludersi con questa mostra, ma continuare con la comprensione da parte sua che egli non costituisce null’altro se non un nuovo congiungimento nell’intera serie di ‘processi’ che è il mistero della vita stessa. Scegliendo di contemplare il più banale degli eventi lo spettatore - noi speriamo – si troverà faccia a faccia con il mistero della propria esistenza in un universo infinito e in eterna evoluzione” [52].


Note preliminari per un MANIFESTO NERO (1975-1976)

Il manifesto di Rasheed Araeen ha natura eminentemente politica. Jessica Lack spiega che l’artista è stato ispirato da due eventi diversi, occorsi subito dopo il suo trasferimento dal Pakistan a Londra: la lettura dell’opera Les damnés de la terre (1961) di Franz Fanon (1925-1961), filosofo e psicologo, teorico del processo di decolonializzazione, e una serie di atti di violenza da parte della polizia, forse ispirati da una logica di repressione delle lotte delle minoranze etniche, che culmina nell’uccisione di un giovane di colore a Leeds. Araeen reagisce scegliendo l’impegno politico all’interno dei movimenti anticoloniali più radicali. Il suo manifesto è pubblicato nel gennaio 1978 nel primo numero della rivista Black Phoenix (così chiamata perché l’arte nera deve, a suo parere, rinascere, come l’araba fenice, risorgendo rinnovata dalle sue ceneri bianche [53]). Si è già detto che, a differenza del testo di Barbara Jones-Hogu che si rivolge a tutte le comunità nere nel mondo, il concetto di ‘nero’ in questo manifesto comprende tutti i gruppi etnici presenti nell’occidente in seguito alla colonizzazione, oltre agli abitanti di tutti i paesi di quello che viene rivendicato come “Terzo mondo”. Tra l’altro nel manifesto si legge che tra la nuova arte nera e quella bianca (compresa quella degli artisti d’avanguardia) non vi può e non vi deve essere nessun dialogo, fin quando non sarà acquisita una nuova posizione d’uguaglianza [54].

I temi su cui l’artista si interroga all’inizio del manifesto sono: in quale modo i paesi del Terzo Mondo cercano di reclamare il loro spazio nell’era moderna? Perché la loro voce non viene udita? E quali sono le alternative che sono a loro disposizione? [55] E, infine, perché, anche in paesi che intendono ripristinare la loro cultura originale, i risultati in tema d’arte “spesso tendono a conformarsi agli standard creati in Occidente?” [56] In parte la ragione è politica: la questione dell’arte contemporanea nel terzo mondo – scrive Araeen – non ha connotati esclusivamente estetici e formali, ma deriva dagli equilibri politici e dai contesti culturali dopo una lunga colonizzazione. In parte, tuttavia, la responsabilità risiede anche nel Terzo Mondo, per una mancanza di dialogo tra le sue componenti, per una mancanza di chiarezza sugli obiettivi ideologici e per un’eccessiva dipendenza dagli esperti europei di arte asiatica e africana [57]. “Ed è per questo che gli artisti del Terzo Mondo oggi accettano in generale la ‘supremazia’ dell’Occidente nell’arte contemporanea, qualunque sia lo stile sviluppato o prodotto nei suoi maggiori centri d’arte” [58]. Come scritto anche nei testi precedentemente commentati, anche per Araeen questa dicotomia è fonte di alienazione che bisogna eliminare. Per questo motivo “è essenziale non cadere negli sbagli dell’atteggiamento occidentale, che tende a occultare la verità. Da un lato, l’interpretazione occidentale della storia dell’umanità è spesso completamente faziosa a svantaggio dei popoli non europei e delle loro acquisizioni culturali; e dall’altro, mentre ignora le vere dinamiche degli sviluppi della storia, pone grande enfasi sulle conquiste individuali degli uomini occidentali, che apparentemente combattono contro ogni difficoltà” [59].

Araeen spiega infatti che – al contrario di quello che si afferma nell’occidente (siamo ancora negli anni in cui spesso prevalgono nelle ex potenze coloniali le ragioni di chi giustifica l’esistenza degli imperi con la scusa della ‘diffusione della civiltà’) – il periodo coloniale è stato il momento più grave di prevaricazione nella storia dell’umanità.

Utilizzando lo stampatello per aumentare l’enfasi delle proprie parole, l’artista aggiunge che “assegnare alla civiltà europea il ruolo di strada maestra è uno degli sviluppi piÙ catastrofici che si siano verificati nella storia dell’umanitÀ, perché ha distrutto o soppresso le altre culture e civiltà. (…) Questa percezione occidentale del mondo lo ha ridotto oggi a un ‘villaggio globale’ con un occidente ricco, ma volgare, al suo centro, circondato da popoli alla fame con ciotole per l’elemosina nelle loro mani” [60]. La priorità per gli artisti del Terzo Mondo deve essere dunque quella di “liberarsi dal dominio straniero prima di poter creare la propria arte e cultura contemporanea” [61]. Parte di questo compito consiste nel rendere cosciente la borghesia dei paesi colonizzati che – a fronte di privilegi – essa coltiva una cultura, anche in campo estetico (non solamente nelle belle arti, ma anche nel cinema, nel teatro,  nella stampa) che ha ricevuto dagli antichi colonizzatori e ha il solo obiettivo di prolungare la dipendenza e consolidare l’“aggressione intellettuale” [62].

Quali sono le proposizioni di Araeen nel campo dell’arte? Egli manifesta una fortissima ostilità nei confronti di tutte le correnti dell’avanguardia occidentale, dall’espressionismo astratto con i suoi action painters alla Pop Art, che definisce tutte come forma di propaganda del consumismo americano [63]. Ha parole dure anche nei confronti di Picasso [64], un “Re Mida che trasforma ogni cosa in oro” [65] e dell’ansia degli artisti d’avanguardia di “cambiare per il solo amore del cambiamento” [66]; a questi atteggiamenti contrappone invece la capacità di Diego Riveira di “ritornare al proprio popolo e dedicarsi alla sua realtà” [67].

Anche Araeen – come gli autori dei manifesti precedenti – nega all’arte occidentale il diritto di chiamarsi internazionale, dal momento che la considera esclusivamente transatlantica o, meglio ancora, imperialista [68]. “Che cosa vi è d’internazionale nelle immagini della Coca Cola, di Marylin Monroe, delle pin-up, le ragazze di copertina, della bandiera americana, degli hamburger, ecc…? Queste immagini sono, ovviamente, le immagini etniche della cultura americana e non vi sono ragioni per le quali non debbano giocare un ruolo nello sviluppo della sua arte. Ma quando queste immagini vengono universalizzate attraverso una proiezione internazionale, la loro funzione cambia. Esse non sono più le immagini ‘innocue’ della cultura popolare o gli ambasciatori innocenti dell’arte e della cultura americana all’estero con la sua glorificazione della Pop Art nel mondo ‘sottosviluppato’, ma rendono impossibile la promozione di valori autoctoni e il loro sviluppo attuale nel Terzo Mondo” [69].

L’artista pachistano spiega, da Londra, gli stessi dilemmi con cui si confrontano Barbara Jones-Hogu negli Stati Uniti ed Esa e Piyadasa in Malesia: “Quando i giovani artisti in Asia, in Africa e nei Caraibi hanno cercato di emergere dalle nebbie del colonialismo, si sono trovati esposti a un dilemma. Da un lato, erano coscienti che le loro forme tradizionali avrebbero dovuto giocare un ruolo determinante negli sviluppi contemporanei, rispecchiando non solamente lo spirito di un paese indipendente, ma anche il loro tempo. Dall’altro, essi si sono trovati accerchiati da forme occidentali che divenivano sempre più invadenti dopo l’indipendenza. E poiché la maggioranza di loro era alienata dal popolo e aspirava invece a divenire parte del nuovo ambiente socio-culturale che si stava sviluppando nelle città – in cui i valori occidentali iniziavano ad avere un ruolo predominante – i modelli occidentali non solo offrivano loro un’alternativa più attraente, ma anche carriere lucrative” [70]. Ne nascono forme di mediocre imitazione dell’arte d’avanguardia occidentale che, in realtà, a parere dell’artista, non sono altro che arte neo-coloniale [71].

Esistono però alcune alternative reali, che non consistono in un isolamento nell’arte etnica e nel ritorno al passato (Araeen rifiuta ogni revival), ma riconoscono i progressi tecnici dell’arte contemporanea, e mettono a profitto in modo innovativo la spiritualità dei paesi (scultura africana, arte islamica) [72]. In tal modo l’arte del Terzo Mondo non cerca di ritagliarsi uno spazio all’interno di quella occidentale, ma rivendica un ruolo globale [73], adottando nuovi metodi e nuove forme [74] che non coincidano con gli esperimenti radicali di anti-arte [75] o con l’adozione dei modelli del socialismo reale [76], ed anzi utilizzando tutti gli strumenti disponibili per la creazione artistica [77]. Il manifesto conclude: “Non offriamo qui alcuna ricetta o prescrizione. Non possiamo credere in soluzioni già pronte. L’arte non si può sviluppare sulla base di una serie di regole, ma solamente attraverso un processo evolutivo in tempo reale che generi nuove idee in ogni fase della trasformazione” [78].

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NOTE

[1] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? 100 World Art Manifestos, London, Penguin Modern Classics, 2017, 501 pagine.

[2] Danchev, Alex - 100 artists' manifestos: from the futurists to the stuckists, London, Penguin Modern Classics, 2011, 453 pagine.

[3] Si veda: https://www.theguardian.com/books/2016/sep/11/alex-danchev-biography.

[4] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. xiii.

[5] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 2.

[6] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 3.

[7] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 3.

[8] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 3.

[9] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 3.

[10] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 4.

[11] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 5.

[12] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 461-462.

[13] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. xvi-xvii.

[14] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 246.

[15] Chakrabarty, Dipesh - Provincializing Europe: Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, Princeton University Press, 301 pagine. Citazione a pagina 4.

[16] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 188.

[17] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 189.

[18] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 189.

[19] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 190.

[20] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 190.

[21] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 190.

[22] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 191.

[23] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 191.

[24] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 191-192.

[25] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 192.

[26] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 192.

[27] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 199.

[28] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 203.

[29] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 203.

[30] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 204.

[31] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 208-209.

[32] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 205.

[33] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 207.

[34] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 207-208.

[35] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 209-210.

[36] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 221.

[37] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 210.

[38] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 214.

[39] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 214.

[40] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 215.

[41] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 220.

[42] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 221.

[43] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 220.

[44] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 216.

[45] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 212.

[46] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 216.

[47] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 224.

[48] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 226-227.

[49] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 227.

[50] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 228.

[51] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 229.

[52] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 232.

[53] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 282.

[54] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 282.

[55] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 247.

[56] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 247.

[57] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 247-248.

[58] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 248.

[59] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 248-249.

[60] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 250-251.

[61] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 252.

[62] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 254.

[63] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 263.

[64] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 268.

[65] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 268.

[66] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 265.

[67] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 263.

[68] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 264.

[69] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 263.

[70] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 259.

[71] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 260.

[72] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 261.

[73] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, pp. 262-263.

[74] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 281.

[75] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 281.

[76] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 282.

[77] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 278.

[78] Lack, Jessica - Why Are We 'Artists'? (citato) …, p. 283. 



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