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Thea Burns
Compositiones variae.
A Late Eight-century Craftsman’s Technical Treatise Reconsidered
[Le Compositiones variae. Nuove considerazioni su un trattato tecnico artigianale di fine VIII secolo]
Londra, Archetype Publications, 2017, 224 pagine
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Le Compositiones variae (o Compositiones
ad tingenda musiva o Compositiones
lucenses) sono un insieme di prescrizioni per le tecniche artistiche
conservate all’interno del Codice 490 della Biblioteca Capitolare Feliniana di
Lucca. Si tratta di uno dei ricettari più famosi di questo tipo di letteratura;
i tanti esperti che vi hanno studiato sopra a partire dalla loro riscoperta,
operata dall’erudito francese Jean Mabillon nel 1686, concordano nel dire che
furono scritte attorno alla fine del 700 d.C.
Va subito detto che questo volume
non presenta un nuovo commento o una nuova edizione critica delle Compositiones. Non è dato quindi leggere
né l’originale latino né una traduzione in lingua moderna. Per quanto riguarda
l’italiano faccio riferimento all’edizione pubblicata da Adriano Caffaro nel
2003 [1]. Si tratta di una precisa scelta metodologica; quando ci troviamo di
fronte a un manoscritto – scrive l’autrice – ci sono due tipi di informazioni
che ci raggiungono: da un lato il contenuto del testo, dall’altro l’oggetto (il
manoscritto) nella sua stessa fisicità, che, se esaminato scientificamente, ci
permette di svolgere considerazioni sulle sue origini e sulla sua storia. I
manoscritti sono, per definizione, oggetti unici, anche quando si tratta di
copie di altri testi. È la nostra moderna idea di autorialità di un’opera che ci
spinge a cercarne la versione originale, ma ciò non toglie che ciascuna delle
tappe in cui si è svolta la tradizione di un determinato testo abbia un suo
significato ben preciso.
Nel caso specifico, l’origine
delle ricette contenute nelle Compositiones
variae non è chiara, per mancanza di altri testimoni in merito. C’è chi
vede un legame delle Compositiones
con i Papiri egizi di Leida e Stoccolma, chi considera il manoscritto come una
versione molto corrotta di informazioni della cosiddetta ‘prima alchimia
storica’ (si veda in merito la recensione a Mappae clavicula), ovvero del patrimonio tecnologico sulla lavorazione dei metalli
presente in Egitto e poi transitato nel mondo greco. Secondo molti queste
conoscenze (almeno nella loro valenza tecnica e non nel significato
‘filosofico’ attribuito all’alchimia nel Rinascimento) sarebbero giunte in
Italia sul finire della parabola dell’Impero Romano. Le Compositiones variae ne sarebbero appunto un esempio (e alcuni dati
sono indiscutibili: ad esempio, una ricetta della Compositiones è la traslitterazione in caratteri latini di un
originale greco. Cfr. p. 2). C’è chi è andato addirittura oltre, e ha messo in
evidenza la somiglianza delle Compositiones
con le iscrizioni cuneiformi su alcune tavolette assire trovate a Ninive che
parlano di fabbricazione del vetro, dei metalli e dei pigmenti.
Molto probabilmente – l’autrice
ha ragione – non riusciremo mai a ricomporre un quadro generale e a delineare
il cosiddetto ‘stemma’ (per semplificare: l’albero genealogico) delle Compositiones. Ma anche se ne fossimo
stati in grado, il punto sottolineato dall’autrice è che tutta questa
attenzione rivolta alla ricostruzione di una storia e di una cronologia
dell’opera, priva della dovuta attenzione le singole tappe che la compongono
nella loro fisicità e quello che esse sono in grado di raccontarci sulla società
in cui sono state elaborate, a partire dall’esame del codice che contiene le
ricette.
Il Codice 490 e Lucca
Il Codice 490 della Biblioteca
Capitolare di Lucca è in realtà un codice miscellaneo che contiene decine di
testi (o frammenti dei medesimi) di opere a noi più o meno note, come, ad
esempio, il Liber Pontificalis e le Etimologie di Isidoro di Siviglia. Se
posso sottolineare un elemento di riflessione è che il codice, per il solo
fatto che esiste, crea un problema agli studiosi; quello della trasmissione
della cultura nei secoli più bui del Medioevo; una circolazione che – secondo
la tradizione – si vorrebbe rinchiusa esclusivamente all’interno dei monasteri
e che invece qui sfugge a questa realtà, tant’è che si è supposto che a Lucca
esistesse uno scriptorium (ovvero un
centro di trascrizione) ‘laico’ o una “scuola” di scrittura sopravvissuta in
qualche modo alla disintegrazione dell’impero romano e alle invasioni
barbariche. In realtà un elemento in comune rispetto alla cultura monasterile
c’è, ed è il fatto che, almeno nelle sue unità più significative, tutti i testi
del codice hanno argomento di carattere religioso. A fare eccezione sono
proprio le Compositiones, che
nell’ambito del Codice (costituito da 355 folii) vanno dal folio 217r al 231r.
[2]. In realtà, tuttavia, se esaminiamo il momento storico della Lucca di quel
periodo (cfr. capitolo tre) e il contesto artistico e artigianale della città
(cfr, capitolo sei) la presenza delle Compositiones
risulta comunque coerente perché riferita all’interesse del locale vescovado
per la realizzazione di manufatti artistici a corredo degli ambienti ecclesiastici.
Senza stare a considerarne le
antiche origini etrusche e romane, vale la pena sottolineare l’importanza della
città di Lucca in epoca longobarda. Lucca era capitale del ducato longobardo di
Toscana, collocata in una posizione strategica lungo la via Francigena, che
collegava la città a Pavia (la capitale longobarda) e più in generale al resto
d’Europa, ma soprattutto era luogo di passaggio di pellegrini da e verso Roma e
presumibilmente centro di commercio sia pur su scala ridotta. Nel 773 la città
cade sotto il dominio di Carlo Magno e dei carolingi. È in questa realtà storica,
ovvero in una Lucca di prima età carolingia che si deve quindi collocare la
creazione fisica del codice 490, o, quanto meno, delle unità che lo
costituiscono (probabilmente in origine fra loro separate). Contrariamente a
quanto si possa pensare, il passaggio dal dominio longobardo a quello
carolingio non deve essere stato una rivoluzione. Così sembrerebbe, almeno in
ambito ecclesiastico. Il vescovo della città, il longobardo Peredeo, fu portato
in Francia e (per così dire) ‘rieducato’ alle nuove esigenze del mondo di Carlo
Magno; dopo di che tornò a Lucca e mantenne la sua carica fino alla morte. La
figura del vescovo non aveva solo valenza religiosa. Molto probabilmente il
vescovo era anche il principale proprietario terriero della zona e giocava un
ruolo politico non indifferente a livello locale. Alla sua morte (780) gli
successero prima Giovanni e poi Giacomo, entrambi figli del longobardo
Teutperto. Se un passaggio di consegne vi fu, fra longobardi e carolingi, ciò
avvenne quindi in maniera graduale, senza la sostituzione e l’esautoramento
immediato delle famiglie più importanti della parte sconfitta. Naturalmente il
prezzo da pagare, per chi restava con posizioni di responsabilità era
immedesimarsi nella politica del vincitore.
È noto che nel 789 Carlo Magno
emanava la celebre ‘Admonitio generalis’,
che propugnava una profonda riforma del mondo ecclesiastico e del modello
educativo. Da un punto di vista
religioso ciò stava a significare un progressivo avvicinamento all’autorità
papale. Il modello educativo proponeva invece la creazione di scuole che
avessero sede nelle locali cattedrali e in ogni monastero, in cui mettere in
atto un processo di sostanziale alfabetizzazione (rivolta fondamentalmente a
nobili e clero). Venivano codificate norme ben precise per la scrittura; si
raccomandava la chiarezza dei testi e la loro leggibilità; standardizzare la
lingua scritta voleva dire in primo luogo rendere più efficiente un sistema
governato da norme universali.
Non sappiamo esattamente quando
la riforma carolingia cominciò a dare i suoi frutti a Lucca, ma una cosa è
certa. Le Compositiones (o, meglio, i
testi che compongono il codice 490) non rientrano in questa prospettiva e sono
anzi testimonianza di una scrittura piena di errori, ma soprattutto di
convenzioni che mutavano a seconda di chi fosse incaricato di scrivere (si contano
almeno una decina di scribi). Appare corretto, insomma, collocare il codice 490
come il risultato estremo di un mondo che rapidamente cambiava e che sarebbe
stato sostituito di lì a poco da nuove (e più semplici) regole.
Il fatto poi che il codice nel
suo complesso sia privo di un indice (o di una tavola delle materie) e di una numerazione che serva a distinguere fra i vari scritti che lo compongono
suggerisce (come vedremo meglio dopo) che gli scritti che contiene abbiano
avuto una loro vita individuale prima di essere rilegati nel volume che è
giunto sino a noi.
Maestranza lucchese di cultura longobarda. Pluteo con frammento di croce e animali, 600-620 d.C. circa Fonte: Sailko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons |
Evidenze fisiche dal Codice 490 e un’ipotesi sulla sua formazione
L’esame fisico del Codice 490 è
facilitato dal fatto che oggi i fogli che lo compongono sono conservati sciolti
e che, a parte, è conservata anche la rilegatura in cui erano uniti. Il primo e
l’ultimo erano incollati direttamente all’interno della copertina in pelle del
volume. Proprio per questo presentano una colorazione marrone che è dovuta al
prolungato contatto con la pelle stessa. Ma l’esame attento dell’esemplare
dimostra che questi due fogli in origine non facevano parte del codice. Se si
fa attenzione ai buchi lasciati dai tarli sulla copertina è facile osservare
che ad essi corrispondono analoghi buchi sulle attuali seconda e penultima
pagina del codice, ma non sulla prima e sull’ultima. Non solo, la seconda e la
penultima pagina presentano macchie e scoloriture del testo dovute chiaramente
al contatto prolungato con la copertina.
Un elemento da tenere in
considerazione, tuttavia, è che tali caratteristiche compaiono anche in molti
dei quaderni che costituiscono la prima o ultima pagina di singole opere
contenute nel codice, chiaro indice che tali quaderni furono tenuti sciolti e
non protetti per un lungo periodo, ed ebbero dunque una loro vita autonoma. Il
termine tecnico con cui li si indica è quello di libelli. È del tutto logico, peraltro, pensare che scritti brevi di
natura liturgica potessero essere più funzionali per il loro utilizzo se
conservati sciolti (e che addirittura potessero essere piegati e trasportati
all’interno di sacche o tasche). Riunirli in un unico volume presupponeva
preoccuparsi della loro conservazione nel lungo periodo. Non è detto che tale
consapevolezza ‘storica’ (o semplicemente curiosità) sia intervenuta subito.
L’autrice avanza ad esempio un’ipotesi
sulla genesi del codice di questo tipo: “io propongo […] che quando le
informazioni nei singoli testi che oggi costituiscono il Codice 490 divennero
datate, probabilmente in un qualche momento nel corso della riforma
ecclesiastica portata avanti sotto Carlo Magno, furono sostituite da altre più
aggiornate che il clero di Lucca preferì consultare. Inoltre, le pratiche della
scrittura e la lingua potrebbero essere cambiate a tal punto che la loro
lettura [dei testi antichi] divenne poco pratica o impossibile. In questo
scenario, i contenuti sfusi dell’attuale Codice 490, ancora nel formato di
libri o libelli singoli, furono messi da parte in una cassa, in un armadio o su
uno scaffale e lì dimenticati. […] A un certo punto, forse durante le riforme
del quindicesimo secolo [3], e sicuramente prima della visita di Mabillon a
Lucca nel 1686, i molteplici libelli tenuti sciolti sarebbero stati messi
insieme e legati a corde per proteggerli e conservarli. Le corde (di cui sono
rimaste tracce anche oggi) furono poi inserite in una rilegatura in legno; non
è chiaro quando furono poi aggiunte la copertina in piena pelle e le fibbie
giunte sino a noi” (pp. 76-78).
Maestranza lucchese di cultura longobarda. Lastra frammentaria con croce fiorita, 600-650 d.C. Fonte: Sailko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons |
Datazione
Se questa ipotesi fosse vera la
questione della datazione del codice diventa molto più complicata (ma anche
forse meno importante). È chiaro che le singole unità furono scritte in tempi fra
loro diversi, forse non così ravvicinati come la critica è stata indotta a
ritenere pensando che la creazione fisica del codice stesso fosse anch’essa da
farsi risalire alla fine dell’VIII secolo o all’inizio del successivo. Normalmente
(per la presenza di date in alcuni testi, ma anche su basi paleografiche) si
ritiene che la redazione degli scritti vada compresa fra 787 e 816 d.C.
L’autrice ritiene tuttavia che sia un errore metodologico attribuire la data di
redazione di un testo a tutti gli altri, e non si può che convenirne. Ciò che
non viene detto, ma che personalmente non ho potuto fare a meno di pensare, è
che se la ricostruzione di Burns fosse vera, e se cioè le unità costitutive del
codice fossero testi divenuti improvvisamente ‘vecchi’ in seguito alla riforma
carolingia, tale riforma partì – come visto – nel 789. È del tutto logico pensare che
le nuove regole ci misero qualche anno prima di arrivare a Lucca, e verrebbe
intuitivamente da ritenere che il grosso degli scritti possa essere di qualche
decennio precedente rispetto a quanto ritenuto sino ad ora.
Crocetta d'oro longobarda, da Lucca, VI-VII sec. d.C. Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
Un testo non-letterario?
Il lavoro di Burns porta
all’esposizione di un’ipotesi di lavoro semplice, ma contemporaneamente
affascinante. In fondo è del tutto logico pensare che la vera ‘fortuna’ dei
testi tramandatici nel Codice 490 sia stata quella di essere stati accantonati
e non usati per un lungo periodo (evitando quindi che si danneggiassero) per
poi essere riscoperti in un secondo momento.
Eppure sarei poco sincero se dicessi
che l’approccio metodologico dell’autrice mi convince pienamente. A mio
giudizio lo studio dell’oggetto fisico deve essere complementare rispetto
all’analisi paleografica e filologica dei singoli testi. Credo che Burns non
avrebbe problemi a ribattere che la pensa anch’ella così, e che il suo lavoro è
solo una parte di un ideale dittico a cui va affiancato un lavoro mirato sui
testi.
Tuttavia c’è ancora qualcosa che
non mi convince, ed è il fatto che in ben due occasioni (p. 1 e p. 81),
parlando delle Compositiones variae,
l’autrice le definisca come “a non-literary text” (“un testo non letterario”).
Ecco, su quest’aspetto temo di non poter essere d’accordo. Le Compositiones sono a tutti gli effetti
parte integrante di un genere letterario che è quello della letteratura delle
ricette, con sue regole, figure retoriche e modalità di trasmissione. Il fatto
che, nel caso specifico, il testimone che ci è giunto sia particolarmente
corrotto non vuol dire che noi lo si possa inserire in una non-letteratura. Mi
rifaccio in particolare agli atti del seminario “Trattati e ricettari per
colori. Una metodologia di studio nell’ambito delle scienze umanistiche, Milano
6 dicembre 2013” oggi consultabili gratuitamente sul numero 16/2016 di Studi di Memofonte. In particolare riporto qui di seguito quanto scrivono Sandra Baroni
e Paola Travaglio nella loro Premessa metodologica a proposito della mancata
ricerca dei testi relativi alla tradizione di un manoscritto (p. 18): “Non
ricercare questi testi ha portato alla convinzione errara che le Compositiones lucenses siano il
‘monumento’ della trattatistica d’arte nel Medioevo, «il più antico tra i manuali che
l’Alto Medioevo dedica all’arte di fare arte», mentre sono invece solo la
preziosa ma – per danni di trasmissione – scombinata testimonianza dell’antica
traduzione latina di un’opera ellenistica in origine perfettamente organizzata
e coerente. Questa visse del mondo tardoantico prima in greco e poi in latino,
e il testo rimase pressoché integro almeno fino alla riforma carolingia, quando
cominciarono a manifestarsi problemi di consecutio,
non facilmente ripristinabili e in seguito destinati solo ad aumentare nel
corso della tradizione”.
Non è assolutamente detto che si
giunga mai a un’ipotesi convincente su come fosse l’opera in origine. In
qualche caso sono emersi dei riscontri (quattro ricette delle Compositiones, ad esempio, sono
praticamente identiche ad altrettante prescrizioni di Mappae Clavicula [4]); e d’altra parte è sacrosanto partire dal
dato fisico per ragionare sulla nascita materiale dell’opera e anche
sull’ambiente che la produsse. Purché non si dimentichi che le due cose sono
intimamente legate fra loro e che entrambe possono arricchire il nostro
patrimonio di conoscenze sulla letteratura tecnica, un genere particolarmente
insidioso, ma sicuramente appassionante.
NOTE
[1] Adriano Caffaro, Scrivere in oro. Ricettari medievali d’arte
e artigianato (secoli IX-XI). Codici di Lucca e Ivrea, Napoli, Liguori,
2003. Va detto che l’edizione non gode di particolare considerazione
nell’ambito degli addetti ai lavori.
[2] In realtà il codice presenta
una numerazione dei fogli che è stata apposta con un timbro molto probabilmente
alla fine del 1800. Pur utilizzandola per comodità, Burns chiarisce subito che
“la numerazione dei fogli sfortunatamente porta con sé l’effetto psicologico di
attribuire all’attuale sequenza un significato più definitivo di quanto in
realtà non sia” (p. 22).
[3] L’autrice fa riferimento a
una revisione complessiva del patrimonio librario ecclesiastico decisa come
conseguenza dei concili di Costanza (1414-1418) e Basilea (1431-1449). La
revisione comprendeva la redazione di nuovi inventari del patrimonio librario, la
restaurazione e la rilegatura dei materiali più fragili.
[4] Si veda Mappae clavicula. Alle origini dell’alchimia in Occidente. A cura
di Sandro Baroni, Giuseppe Pizzigoni e Paola Travaglio, 2013, pp. 46-47.
molto bello e avvincente!
RispondiEliminaMa si parla di un ricettario senza aggiungere le ricette?
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