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Hans Ulrich Obrist
Lives of the Artists, Lives of the Architects
[Vite degli Artisti, Vite degli Architetti]
London, Allen Lane, 2015, 544 pagine
(recensione di Francesco Mazzaferro)
Parte Seconda: Mostre d'arte e dialogo interdisciplinare
Parte Seconda: Mostre d'arte e dialogo interdisciplinare
[Versione originale: gennaio-febbraio 2016 - nuova versione: aprile 2019]
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Fig, 2) Annotazioni sul libro di Obrist |
Il rapporto fra Obrist e gli artisti che intervista si snoda affrontando fondamentalmente
due temi. Il primo è l’evoluzione del concetto di mostra d’arte. Il secondo è
il dialogo interdisciplinare, in particolare quello fra arte ed architettura
(senza escludere altre casistiche). Su tutto ciò Obrist sollecita le opinioni
di interlocutori di età e generazioni molto diverse, che ripercorrono con lui lo
sviluppo di questi temi nel corso del Novecento. In questa parte svolgeremo alcune riflessioni
sull’evoluzione dell’esposizione d’arte e sul dialogo delle discipline in
generale. Successivamente ci dedicheremo al dialogo tra arte ed architettura.
Rapportati per decenni con una concezione di mostra che (pur
nell’ininterrotto evolvere di nuove forme d’avanguardia) continua ad essere
caratterizzata dalla presenza di oggetti in uno spazio definito (installazioni
comprese), e dunque rimane ancora nel quadro tradizionale inaugurato
nell’Ottocento, gli artisti cercano nuovi orizzonti, e concepiscono forme di
esibizione ormai al limite dell’immaterialità. Sarebbe però sbagliato cogliere
in queste inquietudini un desiderio di pura stravaganza. Per Obrist non si
tratta necessariamente di forme moderne di ‘arte per l’arte’, ma anzi di una
ricerca che va al di là di ogni forma di estemporaneità, e aggiunge (in alcuni
casi sostituendola) la dimensione temporale della durata dell’esibizione a
quella spaziale. L’arte costringe il pubblico a confrontarsi con il fattore che
è oggi divenuto più scarso nella nostra vita: il tempo, la durata, l’impiego
della giornata.
Si tratta di una preoccupazione di Obrist, ma anche di molti artisti
contemporanei, ormai stanchi di eventi puntuali ma effimeri. Fin dai tempi di
Duchamp l’arte contemporanea aveva cercato di combinare l’idea di tempo con
quello di spazio. Ma la soluzione era stata spesso quella di far riferimento a
un effetto sorpresa giocato in tempi brevi.
Invece la francese Dominique Gonzalez-Foerster (1965-) sogna esibizioni
che coprano cicli temporali lunghissimi (cinquanta o cent’anni) e che siano
“informate da un lungo processo, una pratica infinita” [8]. È lei ad inventare,
nel 2009, il concetto di ‘cronotopos’ come opera d’arte. Attualmente le è
dedicata una mostra al Centre Pompidou il cui titolo dice tutto: “Dominique
Gonzalez-Foerster, 1887-2058”: “Sono sempre stata frustrata dal vedere come i
visitatori si fermino di fronte ad un’opera d’arte solamente per qualche
secondo. Questo mi fa pensare che un’opera d’arte debba conquistare in qualche
modo il visitatore in una manciata di secondi ed in pochi metri quadrati. Io
avevo solamente un modello per elaborare questo tema: la letteratura. Vedi,
appena hai una narrazione potenziale, l’inizio di un testo, allora appare la
dimensione tempo. E in quel caso, uso delle tracce invece del testo, creando
una specie di trappola che trattenga il visitatore perché contempli l’arte un
po’ più a lungo. Esplorando la dimensione del tempo, penso che ci sia riuscito
di apportare un cambiamento alla mostra.” [9]
L’irruzione della dimensione temporale spiega non solamente le maratone
artistiche della durata di 24 ore organizzate da Obrist a Londra alla Serpentine Gallery, ma anche le ‘esibizioni temporanee’, di cui egli è uno dei promotori.
Si deve per esempio a lui e all’artista francese Philippe Parreno (1964-) ‘Il Tempo del Postino’ [10] (il titolo originale
è in italiano), una mostra collettiva (‘Group Show’) proposta prima a
Manchester nel 2007 e poi a Basilea nel 2009. Obrist e Parreno non offrono uno
spazio agli artisti, ma mettono a loro disposizione tempo, offrendo una
possibilità “di combinare musica, luce, performance ed oggetti. L’idea è di
metter tutto in scena e creare una sorta di scenografia.” [11] Parreno
aggiunge: “Il Tempo del Postino è
un’esibizione basata sul tempo. Gli artisti sono stati invitati a proporre
un’opera d’arte, per esempio un quadro, che sarà mostrato solamente per un
momento limitato. (…) Si propone insomma di visitare un’area di esibizione
senza muoversi – un viaggio attraverso un museo senza spostarsi. Ognuno degli
artisti appare l’uno a fianco dell’altro, ma non insieme fra loro, sulla base
di un’idea antica di condivisione del tempo; tuttavia essi costituiscono un
soggetto, sollevando ancora una volta la questione del collettivo, una
polifonia delle voci come un soggetto.” [12] L’esibizione dura tre ore e viene
riproposta a teatro per alcune serate successive, combinando fra loro aspetti
di un’opera lirica e di una performance di gruppo.
Nella formazione di Dominique Gonzalez-Foerster e Philippe Parreno un ruolo
fondamentale è stato giocato dalla mostra ‘Les Immatériaux’ al Centre Pompidou [13]. Dice la Gonzalez-Foerster: “fu una
mostra memorabile. (…) Quel che penso fosse realmente bello in ‘Les Immatériaux’ era l’esplorazione di
tutte le dimensioni di luce e suono per mezzo dell’infrarosso e del testo. Il
movimento del visitatore era tenuto in piena considerazione.” Insomma, la
mostra non si limitava ad un’esibizione di oggetti, ma riproduceva un ambiente
di libertà. “Per me l’esibizione diventa fossilizzata quando oggetti molteplici
sono legati l’un l’altro come se fossero tanti punti. Invece è liberata quando
l’idea di muoversi attraverso l’esposizione diviene un fattore decisivo: quando
diversi livelli sensoriali sono sollecitati; quando non siamo limitati
all’impulso ottico, visuale; e quando le nostre azioni sono condizionate da
quello che sentiamo. La dimensione sinestetica è fondamentale” [14].
Va nella stessa direzione l’idea di una “mostra senza oggetti, con
progetti” di Philippe Parreno: “Per noi era così ovvio che noi avevamo
addirittura oltrepassato l’oggetto per andare direttamente all’esibizione senza
oggetti, ma con progetti; rimpiazzavamo l’oggetto con il progetto e ci
convincevamo che quello era un bel modo di fare arte. Io ancora credo che fare
un’esposizione sia un atto creativo; a me solo era così chiaro che senza
esibizioni non esiste un’opera d’arte.” [15]
Se Obrist vede, all’inizio del ventunesimo secolo, una tendenza al
passaggio dalla centralità dello spazio a quella del tempo, le esibizioni
sperimentali negli anni ’60 del Novecento erano invece nate proprio sul
concetto di una fruizione nuova nel rapporto tra pubblico e spazio. Obrist ha
occasione di raccogliere la testimonianza di uno degli inventori della Pop Art, Richard Hamilton (1922-2011). “Non
m’interessava molto l’architettura come una pratica, ma mi appassionavano gli
interni. Dopo aver guadagnato un po’di soldi al Festival of Britain realizzando modelli nel 1951, ancora studente avevo avuto la possibilità di prendere un
mutuo e costruirmi una casa. Stavo già pensando a come disegnare gli spazi
interni, mentre non mi preoccupavo degli esterni (che è quello di cui si
occupano gli architetti) (…) Quel che era particolarmente nuovo nell’esperienza
di una mostra come strumento era di imparare ad organizzare una forma che
richiede il movimento dello spettatore nello spazio. Si possono fare molte
esperienze diverse: ti può capitare di sedere sulla poltrona al cinema mentre
guardi un’immagine che si muove proiettata sullo schermo; puoi leggere un
libro; puoi assorbire informazioni in molti modi diversi. Ma la mostra presenta
l’informazione in un modo tale che il pubblico è costretto a muoversi al suo
interno, e non può essere diretta ad uno spettatore statico. Ho molto pensato a
questo tema, fino a quando ho fatto una mostra con Victor Pasmore nel 1957 che
ho chiamato ‘An Exhibit’ [n.d.r. allestita
prima all’Hatton Gallery, Newcastle e poi all’Institute of Contemporary Arts di
Londra]. Avevo iniziato a capire che ci sono certe cose che possono essere
fatte nello spazio e che sono difficili da visualizzare, sono difficili da
comprendere o elaborare sulla sola base di un piano e di un’altezza. Piano ed
altezza sono gli strumenti che gli architetti hanno dovuto capire da tempo
immemorabile. Gli architetti hanno dovuto lavorare sul piano, sulla
distribuzione dello spazio su un piano, e poi sull’elevazione di muri.
Limitarsi a piani rettilinei e a quel che loro potesse capitare ha impedito di
comprendere lo spazio come unità. Non appena si mette tutto su carta, prendendo
appunti e disegnando, si ritorna al mondo bidimensionale, piano ed elevazione.
E tuttavia ho pensato a Gaudí e capito che non avrebbe mai potuto produrre quel
che ha fatto se non si fosse mosso nello spazio e non avesse preso decisioni su
di esso.” [16]
Obrist chiede: “Gli elementi in ‘An
Exhibit’ erano sospesi. Come
funzionava il sistema?” [17] “Ho creato
un sistema – spiega Hamilton – dove si potevano appendere ovunque fogli di
plexigas di dimensione standard, in una griglia tridimensionale di circa 33
centimetri. Insomma, la possibilità di appendere fogli verticali, orizzontali e
ad angoli retti tra loro era quasi infinita. La mostra non aveva alcun tema.
Era autoreferenziale, nel senso del termine che ad esso ha assegnato Frank
Stella. Mi resi conto che sarebbe stato impossibile concepire i rapporti nel
modo normale di piano ed altezza; essi si sarebbero creati progressivamente
nello spazio stesso, da un elemento all’altro. Una volta fatto il
primo passo, inserendo un piano nello spazio, si inseriva di conseguenza un secondo piano, e così via. Il tutto si sarebbe sviluppato
in modo organico.” [18] “Che cosa
sarebbe successo… se non si fosse trattato di null’altro se non mettere piani
in relazione tra loro?… Come ha scritto Alloway nel poster/catalogo: ‘Il
significato di ‘An Exhibit’ dipende
ormai dalle decisioni dei visitatori, così come – in una fase precedente – dipendeva
dagli artisti (…). È un gioco, un labirinto, una cerimonia completata dalla
partecipazione dei visitatori’.” [19]
Obrist discute con l’artista serba Marina Abramović (1946-), forse la più
famosa delle performance artists
contemporanee, il futuro dell’'arte in tempo reale' e dei musei. “La base di un
performance in tempo reale è il dialogo con il pubblico. Il pubblico completa
la performance. Il pubblico è altrettanto importante del lavoro dell’artista.
Sicuramente dobbiamo concentrare l’attenzione sul pubblico.” [20] “Quanto più
si smette di credere alle cose, tanto più la gente viene nei musei per trovare
una qualche forma di spiritualità artistica.” [21] Sono i musei a doversi
adattare a questa funzione, e non viceversa gli artisti a dover dipendere dalla
disponibilità di spazi museali. “I musei devono essere adattati, e devono
essere strutturati in modo tale che possano essere realmente uno spazio di
sperimentazione, un tipo di laboratorio, un mondo sperimentale, e non mostrare
un prodotto finito che nessuno possa toccare.” [22] “Siamo qui a servire la
società, come l’ossigeno: a portare nuova consapevolezza. Vorrei veramente
pensare al pubblico. Noi dimentichiamo sempre il pubblico, ma è il pubblico a
completare l’opera d’arte. Il pubblico è molto, molto importante. (…) Laddove
si trovano spettatori per guardare un’opera d’arte, il luogo è sacro. Senza
platee l’arte non esiste. L’arte è fatta per il pubblico, noi siamo qui a
servire la società e siamo qui a produrre una sorta di ponte.” [23]
Il dialogo interdisciplinare
Obrist introduce il termine di ‘promiscuità collaborativa’ [24] associandola alla città di Grenoble, una delle capitali della sperimentazione estetica europea. Là si sono formati la Gonzalez-Foerster e Parreno, nell’ultimo quarto del ventesimo secolo. Un dialogo tra artisti – scrive Obrist – è sempre esistito; adesso è invece l’ora del dialogo fra discipline. E rivolgendosi alla Gonzalez-Foerster: “Tu mi sembri un esempio perfetto di questo sviluppo, dal momento che hai lavorato con musicisti, compositori, architetti, e hai fatto uso della letteratura. Vorrei chiederti se anche tu pensi che vi sia stato un movimento, un cambiamento in questa direzione”. “Sì, è chiarissimo” risponde Dominique. “Mi sono accorta che il dialogo dove le differenze sono più ampie spesso genera risultati più produttivi che con altri artisti. Nel dialogo tra artisti, si finisce sempre per parlare con un linguaggio simile. E quanto a me, sono molto curiosa su come funzionano le altre cose, che siano in architettura o musica o letteratura.” [25]
Il dialogo interdisciplinare contribuisce, secondo la Gonzalez-Foerster,
anche al tema del “completo rinnovamento dell’idea della mostra, affrontando
altre dimensioni temporali, altri formati, altri modi di lavorare. E quando ci
si confronta in tal modo con altri modi di lavorare (posto che architettura e
musica hanno davvero altri modi di lavorare) si capisce come una mostra possa
essere affascinante nella sua dimensione di laboratorio. È il tema della tua
mostra ‘Laboratorio’ [n.d.r. Gonzalez-Foerster si sta rivolgendo qui a Obrist che ha
curato la mostra insieme a B. Vanderlinden ad Anversa nel 1999]: l’ipotesi è che
per persone che provengono da discipline diverse (un biologo, un architetto,
uno scrittore) la mostra sia una forma molto soddisfacente perché è molto più
veloce e molto più avvincente. Ci sono molti architetti che si appassionano
immediatamente all’idea di fare mostre, perché normalmente hanno a che fare con
scadenze e con vincoli del tutto differenti. Insomma, credo che la mostra sia
forse la forma sperimentale per eccellenza.” [26]
Anche ‘Questo è il domani’ (This is
Tomorrow), la prima mostra dedicata alla pop art, tenutasi alla Whitechapel
Art Gallery di Londra nel 1956, fu un evento interdisciplinare. Un gruppo di
artisti, architetti, scultori decise di proporre una riflessione comune sul
trattamento dello spazio e sulle illusioni visive, traendo ispirazione dai
prodotti della cultura di massa. Ne parla Richard Hamilton. “Tutte queste
immagini della cultura popolare erano messe in relazione e confrontate tra
loro, in modo tale che il modo in cui vedevamo le cose potesse essere informato
da illusioni visuali dirette.”
“Alcune di queste illusioni visuali erano prese da libri, ma molte
consistevano nel trattamento dello spazio.” “Distorsioni visuali?” chiede
Obrist. “Sì. Abbiamo condotto quel tipo d’esperienza che si può trovare nei Rotoreliefs di Marcel Duchamp. Sono
illusioni ottiche. Marcel ha sempre considerato splendido che si trattasse di
un’illusione spaziale monoculare. (…) Questi due temi, la nuova cultura
popolare e l’ottica (…) sono stati combinati e presentati nel modo più
drammatico e galvanizzante possibile. Il jukebox suonava continuamente e le
persone potevano scegliere la musica. Non dovevano mettere le monetine nella
macchina, e come risultato essa veniva usata di continuo e nessuno poteva
sentire quel che voleva perché la loro musica preferita poteva arrivare una o due
ore dopo. Avevamo anche un microfono in una delle numerose sale della
struttura. Un microfono nel muro con una didascalia che diceva: ‘parlate qui’.
La gente parlava, ma non sapeva che vi era un amplificatore (…) che trasmetteva
quel che dicevano. Vicino ad una riproduzione in dimensioni reali di Marilyn
Monroe vi era una gigantesca bottiglia di Guinness: vederle insieme, una
accanto all’altra, rinforzava questa asimmetria con cui era costruito lo spazio.”
[27]
Anche per un’altra artista americana della stessa generazione, Nancy Spero
(1926-2009), il riferimento obbligato negli anni ‘60 è la filosofia francese:
in questo caso l’esistenzialismo. Spero osserva che l’arte di protesta può
esprimersi anche senza ricorrere allo scontro, ovvero “nella maniera che
descrive la posizione delle donne filosoficamente; come diceva Simone de
Beauvoir: non in parallelo, ma in un angolo. L’arte degli uomini è piú
polemica, come un botto.” [30]. L’arte esprime resistenza in forme diverse da
quella della pura e semplice opposizione, come nel caso della serie Pitture nere (Black Paintings). “È l’epoca di Sartre, ed è arte esistenziale.
Queste figure sono l’una attaccata all’altra. Di solito sono un maschio ed una
femmina, ma possono essere molte cose: da maschi a femmine, da femmine a
maschi.” [31] I dipinti sono prodotti sovrapponendo colori scuri a colori molto
chiari: “Ho usato i colori migliori e più belli, ed ho dipinto e ridipinto e
sfregato ed i colori sono diventati sempre più grigi e neri. Tanto più sfregavo
tanto più apparivano le immagini. Prima dipingevo e poi sfregavo.” [32]
Con Felix Gonzalez-Torres (1957-1996) si impone invece la figura del filosofo Walter Benjamin e l’impatto sull’arte contemporanea del suo famoso saggio “L’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica”, dove la modernità si identifica con la scomparsa dell’aura dell’opera d’arte. È Benjamin a condurre Felix Gonzalez-Torres all’idea “che l’opera d’arte in realtà non esiste; le opere vengono distrutte, perché non vi è mai un originale” [33]. Dopo l’incontro con gli scritti di Benjamin, Gonzalez-Torres inizia a realizzare pile di fogli di carta che gli spettatori possono staccare e portare con sé, fino all’esaurimento dell’opera. “Quando iniziai a fare queste pile nel 1981, era perché (può sembrare strano) in quegli anni a New York tutti gli artisti lottavano per avere uno spazio sulle pareti; tutti gli spazi sulle pareti erano già riservati. Quando si partecipava ad una mostra collettiva, si finiva per prendersi a pugni per qualche centimetro. Così mi sono detto: al diavolo i muri, farò qualcosa sul pavimento.” [34]
Il sudafricano Ernest Mancoba (1904-2002), un altro dei (quasi) centenari
intervistato nel volume, si ribella alla ‘dittatura della filosofia’ nell’arte
dell’emisfero settentrionale; a suo avviso la filosofia ha prodotto una
divaricazione artificiale tra arte figurativa ed astratta “che provoca , sempre
più, una terribile atomizzazione nella vera essenza della vita. In nessun’altra
disciplina come nelle arti questa dicotomia sistematica ha prodotto una tale
distruzione delle vere fondamenta dell’identità umana, che appartengono alla
natura, ma al tempo stesso partecipano all’essenza di un essere ideale. (…) Così
abbiamo perso la capacità di unire nella nostra visione gli aspetti esteriori e
quelli interiori.” [35]
Sarebbe l’arte africana, invece, a porre un freno alla deriva della
dittatura della filosofia nell’arte: “Quando vediamo una scultura africana con,
ad esempio, una testa enorme e gambe corte, la consideriamo brutta e la
giudichiamo priva di valore. Ma per un artista africano non conta tanto il
rispetto di certe regole (anche se anch’egli lavora secondo certi canoni
particolari) che possano rendere belle una cosa, ma la capacità dell’opera di
evocare l’essenza interiore grazie alla forza del suo aspetto esteriore. Egli
usa tutti i mezzi, sia figurativi ed astratti, a tal fine. Quando negli anni
della giovinezza ho fatto la Madonna
Bantu, ho lavorato utilizzando certi canoni europei o classici che alcuni
seguaci della concezione di progresso nell’arte giudicheranno sorpassati. (…)
Ma il pubblico, spero, se sono abbastanza fortunato da essere compreso e
ascoltato, può sentire che sotto la superficie della muffa classica batte un
cuore africano. Si fa così strada lo spirito interno, prima di tutto
nell’innovazione assoluta, nel mondo sudafricano, di prendere una donna di
colore per rappresentare la Vergine Maria, ed in secondo luogo nel calore di un
polso che, sia pure provvisoriamente contenuto nella rigidità dello stile,
sottopelle o sulla superficie alza la voce e minaccia di liberarsi.” [36]
Il dialogo fra discipline è anche necessariamente un confronto (anzi, una
competizione), con le tecnologie, prima fra tutte la fotografia. Viene da
pensare all’antico dibattito sul ‘paragone fra le arti’. I pittori si trovano
esposti alla concorrenza della fotografia, ma gli esiti della sfida sono a
volte inattesi: è la pittura a vincere.
David Hockney (1937-), il maggiore pittore inglese vivente, afferma, non
senza un certo grado d’orgoglio, che “un tempo (…) molti pensavano che la
fotografia avrebbe rimpiazzato la pittura. In realtà, la pittura sta
conquistando la fotografia.” [37] Hockney è un artista che ha riflettuto
moltissimo sul rapporto tra arte e strumenti ottici (ed in particolare sulla camera oscura e la camera lucida), dedicando anni interi allo studio dell’arte
fiamminga (Campin, Van Eyck, Wan der Weyden) e seicentesca (Caravaggio, Rembrandt) nel tentativo
di scoprire quali accorgimenti ottici gli artisti utilizzassero per catturare e
combinare immagini. A questo tema ha dedicato un corposo saggio, dal titolo “Secret Knowledge”, che sarà oggetto di
un’analisi separata in questo blog come uno dei maggiori contributi di artisti
contemporanei allo studio dell’arte dei secoli precedenti.
Hockney, che pure aveva realizzato a lungo quadri partendo da collages di
foto Polaroid, scattate da angolazioni diverse, ed aveva addirittura fatto in
seguito sperimentazioni con Photoshop, ad un certo punto decide di chiudere con
la fotografia. “La prima mostra che facemmo con le polaroid si chiamava ‘Disegnare
con una macchina fotografica’ [Drawing
with a Camera] (…) Infatti ho posto alla fine della mostra i disegni che ho
fatto con la camera lucida, in tal modo segnalando la fine dei miei esperimenti
con la fotografia. Ero convinto di aver compreso la realtà storica di quel che
era successo, e come la macchina fotografica fosse divenuta una parte
importante della nostra vita. Ho capito che a quel punto potevo metter via la
macchina fotografica. Sai, Van Gogh odiava la fotografia e, se ci pensi,
Cézanne e Monet volevano far capire che vedevano le cose in un altro modo. Hai
visto la mostra di Picasso e Matisse a Londra [n.d.r. alla Tate Modern nel 2002]? La
vidi la prima volta con Lucien Freud e Frank Auerbach. Ci andammo molto presto
una mattina, quando era vuota, e ci rimanemmo due ore. Era meravigliosa. Mentre
stavamo uscendo dalla mostra attraverso l’uscita sul retro del museo, vi erano
quattro grandi fotografie – probabilmente acquisizioni recenti – appese sul
muro. Lucien Freud e Frank Auerbach le oltrepassarono senza guardarle, ma io mi
fermai e pensai tra me e me: bene, queste fotografie fanno sembrare il mondo
terribilmente noioso, mentre Picasso e Matisse lo hanno fatto vedere come
terribilmente interessante. Io preferisco l’emozione. Le fotografie erano recenti,
e ciò implica che stiamo facendo passi all’indietro; non comprendiamo più che
cosa è la fotografia o che cosa ha realizzato nel passato. Capisci quel che
voglio dire? Se intendi la storia in modo un po’ diverso, puoi fare ritorno
alla pittura con una fiducia incredibile. Gli argomenti sulla morte della
pittura non mi interessano più. Io penso che sia la fotografia a morire o
almeno a cambiare. Con Photoshop la fotografia sta diventando più simile alla
pittura.” [38]
Sul tema del rapporto tra pittura e fotografia (in un contesto storico che
richiama i maestri del passato) Obrist discute anche con Gerhard Richter
(1932-), il maggiore dei pittori tedeschi viventi, che ha sperimentato nuove
tecniche, tra le quali quella di dipingere sopra una fotografia. Il curatore
svizzero avvia la conversazione: “Tu parli anche della fotografia come disegno
– o, come la camera oscura, che Vermeer ha utilizzato – nel senso che
costituisce una fase preliminare nella realizzazione di un quadro. Si inverte
in tal modo il primato della fotografia, di cui si pensava che avesse dato la
nascita al modernismo infrangendo le barriere. Tu invece usi semplicemente la
fotografia per fare un quadro, quindi come cosa del tutto ovvia.” Risponde
Richter: “È il primo passaggio nella pratica tradizionale della pittura. Nel
passato i pittori andavano all’aperto e facevano degli schizzi. Noi prendiamo
delle istantanee. È anche per contrastare la tendenza a prendere la fotografia
troppo sul serio.” [39]
NOTE
[8] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, Lives
of the Architects, 2015, Allen Lane. Citazione a p. 69.
[9] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 65.
[11] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 63.
[12] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 360.
[13] Già citata nella prima parte di questo post. Si veda
anche Francesco Mazzaferro, Il dialogo tra un filosofo e un pittore:Jean-François Lyotard e Jacques Monory. Parte Seconda. Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p.
53.
[14] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 55.
[15] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 367.
[16] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 438.
[17] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 439.
[18] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 439.
[19] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 440.
[20] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 261.
[21] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 255.
[22] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 255.
[23] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 256.
[24] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 50.
[25] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 50.
[26] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 51.
[27] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 445.
[28] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 84.
[29] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
pp. 85-86.
[30] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 324.
[31] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 324.
[32] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 325.
[33] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 114.
[34] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 113.
[35] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 104.
[36] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
pp. 104-105.
[37] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 39.
[38] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 33-34.
[39] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
pp. 159-160.
[40] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 36.
[41] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 189.
[42] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted,
p. 216.
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