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mercoledì 20 gennaio 2016

Hans Ulrich Obrist. [Vite degli Artisti, Vite degli Architetti]. Londra, 2015. Parte Seconda


English Version

Hans Ulrich Obrist
Lives of the Artists, Lives of the Architects
[Vite degli Artisti, Vite degli Architetti]

London, Allen Lane, 2015, 544 pagine
(recensione di Francesco Mazzaferro)

Parte Seconda: Mostre d'arte e dialogo interdisciplinare

[Versione originale: gennaio-febbraio 2016 - nuova versione: aprile 2019]

Fig, 2) Annotazioni sul libro di Obrist



Il rapporto fra Obrist e gli artisti che intervista si snoda affrontando fondamentalmente due temi. Il primo è l’evoluzione del concetto di mostra d’arte. Il secondo è il dialogo interdisciplinare, in particolare quello fra arte ed architettura (senza escludere altre casistiche). Su tutto ciò Obrist sollecita le opinioni di interlocutori di età e generazioni molto diverse, che ripercorrono con lui lo sviluppo di questi temi nel corso del Novecento.  In questa parte svolgeremo alcune riflessioni sull’evoluzione dell’esposizione d’arte e sul dialogo delle discipline in generale. Successivamente ci dedicheremo al dialogo tra arte ed architettura.


L’evoluzione del concetto di mostra d'arte

Rapportati per decenni con una concezione di mostra che (pur nell’ininterrotto evolvere di nuove forme d’avanguardia) continua ad essere caratterizzata dalla presenza di oggetti in uno spazio definito (installazioni comprese), e dunque rimane ancora nel quadro tradizionale inaugurato nell’Ottocento, gli artisti cercano nuovi orizzonti, e concepiscono forme di esibizione ormai al limite dell’immaterialità. Sarebbe però sbagliato cogliere in queste inquietudini un desiderio di pura stravaganza. Per Obrist non si tratta necessariamente di forme moderne di ‘arte per l’arte’, ma anzi di una ricerca che va al di là di ogni forma di estemporaneità, e aggiunge (in alcuni casi sostituendola) la dimensione temporale della durata dell’esibizione a quella spaziale. L’arte costringe il pubblico a confrontarsi con il fattore che è oggi divenuto più scarso nella nostra vita: il tempo, la durata, l’impiego della giornata.

Si tratta di una preoccupazione di Obrist, ma anche di molti artisti contemporanei, ormai stanchi di eventi puntuali ma effimeri. Fin dai tempi di Duchamp l’arte contemporanea aveva cercato di combinare l’idea di tempo con quello di spazio. Ma la soluzione era stata spesso quella di far riferimento a un effetto sorpresa giocato in tempi brevi.  Invece la francese Dominique Gonzalez-Foerster (1965-) sogna esibizioni che coprano cicli temporali lunghissimi (cinquanta o cent’anni) e che siano “informate da un lungo processo, una pratica infinita” [8]. È lei ad inventare, nel 2009, il concetto di ‘cronotopos’ come opera d’arte. Attualmente le è dedicata una mostra al Centre Pompidou il cui titolo dice tutto: “Dominique Gonzalez-Foerster, 1887-2058”: “Sono sempre stata frustrata dal vedere come i visitatori si fermino di fronte ad un’opera d’arte solamente per qualche secondo. Questo mi fa pensare che un’opera d’arte debba conquistare in qualche modo il visitatore in una manciata di secondi ed in pochi metri quadrati. Io avevo solamente un modello per elaborare questo tema: la letteratura. Vedi, appena hai una narrazione potenziale, l’inizio di un testo, allora appare la dimensione tempo. E in quel caso, uso delle tracce invece del testo, creando una specie di trappola che trattenga il visitatore perché contempli l’arte un po’ più a lungo. Esplorando la dimensione del tempo, penso che ci sia riuscito di apportare un cambiamento alla mostra.” [9]

L’irruzione della dimensione temporale spiega non solamente le maratone artistiche della durata di 24 ore organizzate da Obrist a Londra alla Serpentine Gallery, ma anche le ‘esibizioni temporanee’, di cui egli è uno dei promotori. Si deve per esempio a lui e all’artista francese Philippe Parreno (1964-) ‘Il Tempo del Postino’ [10] (il titolo originale è in italiano), una mostra collettiva (‘Group Show’) proposta prima a Manchester nel 2007 e poi a Basilea nel 2009. Obrist e Parreno non offrono uno spazio agli artisti, ma mettono a loro disposizione tempo, offrendo una possibilità “di combinare musica, luce, performance ed oggetti. L’idea è di metter tutto in scena e creare una sorta di scenografia.” [11] Parreno aggiunge: “Il Tempo del Postino è un’esibizione basata sul tempo. Gli artisti sono stati invitati a proporre un’opera d’arte, per esempio un quadro, che sarà mostrato solamente per un momento limitato. (…) Si propone insomma di visitare un’area di esibizione senza muoversi – un viaggio attraverso un museo senza spostarsi. Ognuno degli artisti appare l’uno a fianco dell’altro, ma non insieme fra loro, sulla base di un’idea antica di condivisione del tempo; tuttavia essi costituiscono un soggetto, sollevando ancora una volta la questione del collettivo, una polifonia delle voci come un soggetto.” [12] L’esibizione dura tre ore e viene riproposta a teatro per alcune serate successive, combinando fra loro aspetti di un’opera lirica e di una performance di gruppo.

Nella formazione di Dominique Gonzalez-Foerster e Philippe Parreno un ruolo fondamentale è stato giocato dalla mostra ‘Les Immatériaux’ al Centre Pompidou [13]. Dice la Gonzalez-Foerster: “fu una mostra memorabile. (…) Quel che penso fosse realmente bello in ‘Les Immatériaux’ era l’esplorazione di tutte le dimensioni di luce e suono per mezzo dell’infrarosso e del testo. Il movimento del visitatore era tenuto in piena considerazione.” Insomma, la mostra non si limitava ad un’esibizione di oggetti, ma riproduceva un ambiente di libertà. “Per me l’esibizione diventa fossilizzata quando oggetti molteplici sono legati l’un l’altro come se fossero tanti punti. Invece è liberata quando l’idea di muoversi attraverso l’esposizione diviene un fattore decisivo: quando diversi livelli sensoriali sono sollecitati; quando non siamo limitati all’impulso ottico, visuale; e quando le nostre azioni sono condizionate da quello che sentiamo. La dimensione sinestetica è fondamentale” [14].


Va nella stessa direzione l’idea di una “mostra senza oggetti, con progetti” di Philippe Parreno: “Per noi era così ovvio che noi avevamo addirittura oltrepassato l’oggetto per andare direttamente all’esibizione senza oggetti, ma con progetti; rimpiazzavamo l’oggetto con il progetto e ci convincevamo che quello era un bel modo di fare arte. Io ancora credo che fare un’esposizione sia un atto creativo; a me solo era così chiaro che senza esibizioni non esiste un’opera d’arte.” [15]

Se Obrist vede, all’inizio del ventunesimo secolo, una tendenza al passaggio dalla centralità dello spazio a quella del tempo, le esibizioni sperimentali negli anni ’60 del Novecento erano invece nate proprio sul concetto di una fruizione nuova nel rapporto tra pubblico e spazio. Obrist ha occasione di raccogliere la testimonianza di uno degli inventori della Pop Art, Richard Hamilton (1922-2011). “Non m’interessava molto l’architettura come una pratica, ma mi appassionavano gli interni. Dopo aver guadagnato un po’di soldi al Festival of Britain realizzando modelli nel 1951, ancora studente avevo avuto la possibilità di prendere un mutuo e costruirmi una casa. Stavo già pensando a come disegnare gli spazi interni, mentre non mi preoccupavo degli esterni (che è quello di cui si occupano gli architetti) (…) Quel che era particolarmente nuovo nell’esperienza di una mostra come strumento era di imparare ad organizzare una forma che richiede il movimento dello spettatore nello spazio. Si possono fare molte esperienze diverse: ti può capitare di sedere sulla poltrona al cinema mentre guardi un’immagine che si muove proiettata sullo schermo; puoi leggere un libro; puoi assorbire informazioni in molti modi diversi. Ma la mostra presenta l’informazione in un modo tale che il pubblico è costretto a muoversi al suo interno, e non può essere diretta ad uno spettatore statico. Ho molto pensato a questo tema, fino a quando ho fatto una mostra con Victor Pasmore nel 1957 che ho chiamato ‘An Exhibit [n.d.r. allestita prima all’Hatton Gallery, Newcastle e poi all’Institute of Contemporary Arts di Londra]. Avevo iniziato a capire che ci sono certe cose che possono essere fatte nello spazio e che sono difficili da visualizzare, sono difficili da comprendere o elaborare sulla sola base di un piano e di un’altezza. Piano ed altezza sono gli strumenti che gli architetti hanno dovuto capire da tempo immemorabile. Gli architetti hanno dovuto lavorare sul piano, sulla distribuzione dello spazio su un piano, e poi sull’elevazione di muri. Limitarsi a piani rettilinei e a quel che loro potesse capitare ha impedito di comprendere lo spazio come unità. Non appena si mette tutto su carta, prendendo appunti e disegnando, si ritorna al mondo bidimensionale, piano ed elevazione. E tuttavia ho pensato a Gaudí e capito che non avrebbe mai potuto produrre quel che ha fatto se non si fosse mosso nello spazio e non avesse preso decisioni su di esso.” [16]

Obrist chiede: “Gli elementi in ‘An Exhibit’ erano  sospesi. Come funzionava il sistema?” [17]  “Ho creato un sistema – spiega Hamilton – dove si potevano appendere ovunque fogli di plexigas di dimensione standard, in una griglia tridimensionale di circa 33 centimetri. Insomma, la possibilità di appendere fogli verticali, orizzontali e ad angoli retti tra loro era quasi infinita. La mostra non aveva alcun tema. Era autoreferenziale, nel senso del termine che ad esso ha assegnato Frank Stella. Mi resi conto che sarebbe stato impossibile concepire i rapporti nel modo normale di piano ed altezza; essi si sarebbero creati progressivamente nello spazio stesso, da un elemento all’altro. Una volta fatto il primo passo, inserendo un piano nello spazio, si inseriva di conseguenza un secondo piano, e così via. Il tutto si sarebbe sviluppato in modo organico.” [18]  “Che cosa sarebbe successo… se non si fosse trattato di null’altro se non mettere piani in relazione tra loro?… Come ha scritto Alloway nel poster/catalogo: ‘Il significato di ‘An Exhibit’ dipende ormai dalle decisioni dei visitatori, così come – in una fase precedente – dipendeva dagli artisti (…). È un gioco, un labirinto, una cerimonia completata dalla partecipazione dei visitatori’.” [19]

Obrist discute con l’artista serba Marina Abramović (1946-), forse la più famosa delle performance artists contemporanee, il futuro dell’'arte in tempo reale' e dei musei. “La base di un performance in tempo reale è il dialogo con il pubblico. Il pubblico completa la performance. Il pubblico è altrettanto importante del lavoro dell’artista. Sicuramente dobbiamo concentrare l’attenzione sul pubblico.” [20] “Quanto più si smette di credere alle cose, tanto più la gente viene nei musei per trovare una qualche forma di spiritualità artistica.” [21] Sono i musei a doversi adattare a questa funzione, e non viceversa gli artisti a dover dipendere dalla disponibilità di spazi museali. “I musei devono essere adattati, e devono essere strutturati in modo tale che possano essere realmente uno spazio di sperimentazione, un tipo di laboratorio, un mondo sperimentale, e non mostrare un prodotto finito che nessuno possa toccare.” [22] “Siamo qui a servire la società, come l’ossigeno: a portare nuova consapevolezza. Vorrei veramente pensare al pubblico. Noi dimentichiamo sempre il pubblico, ma è il pubblico a completare l’opera d’arte. Il pubblico è molto, molto importante. (…) Laddove si trovano spettatori per guardare un’opera d’arte, il luogo è sacro. Senza platee l’arte non esiste. L’arte è fatta per il pubblico, noi siamo qui a servire la società e siamo qui a produrre una sorta di ponte.” [23]


Il dialogo interdisciplinare

Obrist introduce il termine di ‘promiscuità collaborativa’ [24] associandola alla città di Grenoble, una delle capitali della sperimentazione estetica europea. Là si sono formati la Gonzalez-Foerster e Parreno, nell’ultimo quarto del ventesimo secolo. Un dialogo tra artisti – scrive Obrist – è sempre esistito; adesso è invece l’ora del dialogo fra discipline. E rivolgendosi alla Gonzalez-Foerster: “Tu mi sembri un esempio perfetto di questo sviluppo, dal momento che hai lavorato con musicisti, compositori, architetti, e hai fatto uso della letteratura. Vorrei chiederti se anche tu pensi che vi sia stato un movimento, un cambiamento in questa direzione”. “Sì, è chiarissimo” risponde Dominique. “Mi sono accorta che il dialogo dove le differenze sono più ampie spesso genera risultati più produttivi che con altri artisti. Nel dialogo tra artisti, si finisce sempre per parlare con un linguaggio simile. E quanto a me, sono molto curiosa su come funzionano le altre cose, che siano in architettura o musica o letteratura.  [25]

Il dialogo interdisciplinare contribuisce, secondo la Gonzalez-Foerster, anche al tema del “completo rinnovamento dell’idea della mostra, affrontando altre dimensioni temporali, altri formati, altri modi di lavorare. E quando ci si confronta in tal modo con altri modi di lavorare (posto che architettura e musica hanno davvero altri modi di lavorare) si capisce come una mostra possa essere affascinante nella sua dimensione di laboratorio. È il tema della tua mostra ‘Laboratorio [n.d.r. Gonzalez-Foerster si sta rivolgendo qui a Obrist che ha curato la mostra insieme a B. Vanderlinden ad Anversa nel 1999]: l’ipotesi è che per persone che provengono da discipline diverse (un biologo, un architetto, uno scrittore) la mostra sia una forma molto soddisfacente perché è molto più veloce e molto più avvincente. Ci sono molti architetti che si appassionano immediatamente all’idea di fare mostre, perché normalmente hanno a che fare con scadenze e con vincoli del tutto differenti. Insomma, credo che la mostra sia forse la forma sperimentale per eccellenza.” [26]

Anche ‘Questo è il domani’ (This is Tomorrow), la prima mostra dedicata alla pop art, tenutasi alla Whitechapel Art Gallery di Londra nel 1956, fu un evento interdisciplinare. Un gruppo di artisti, architetti, scultori decise di proporre una riflessione comune sul trattamento dello spazio e sulle illusioni visive, traendo ispirazione dai prodotti della cultura di massa. Ne parla Richard Hamilton. “Tutte queste immagini della cultura popolare erano messe in relazione e confrontate tra loro, in modo tale che il modo in cui vedevamo le cose potesse essere informato da illusioni visuali dirette.

Alcune di queste illusioni visuali erano prese da libri, ma molte consistevano nel trattamento dello spazio.” “Distorsioni visuali?” chiede Obrist. “Sì. Abbiamo condotto quel tipo d’esperienza che si può trovare nei Rotoreliefs di Marcel Duchamp. Sono illusioni ottiche. Marcel ha sempre considerato splendido che si trattasse di un’illusione spaziale monoculare. (…) Questi due temi, la nuova cultura popolare e l’ottica (…) sono stati combinati e presentati nel modo più drammatico e galvanizzante possibile. Il jukebox suonava continuamente e le persone potevano scegliere la musica. Non dovevano mettere le monetine nella macchina, e come risultato essa veniva usata di continuo e nessuno poteva sentire quel che voleva perché la loro musica preferita poteva arrivare una o due ore dopo. Avevamo anche un microfono in una delle numerose sale della struttura. Un microfono nel muro con una didascalia che diceva: ‘parlate qui’. La gente parlava, ma non sapeva che vi era un amplificatore (…) che trasmetteva quel che dicevano. Vicino ad una riproduzione in dimensioni reali di Marilyn Monroe vi era una gigantesca bottiglia di Guinness: vederle insieme, una accanto all’altra, rinforzava questa asimmetria con cui era costruito lo spazio.” [27] 

Per molte delle controparti di Obrist la fonte principale della creazione artistica è la filosofia. È il caso dell’americana Elaine Sturtevant, (1924-) che nel 1965 avvia una pratica fino ad allora inedita: quella dell’appropriazione, ovvero la produzione di copie, con piccole varianti, di opere d’arte altrui (è il caso ad esempio di riproduzioni dei ritratti di Warhol, anche in questo caso di Marilyn Monroe).
Io immagino che la ripetizione sia differenza, la ripetizione aiuti a estendere i limiti, … la ripetizione sia movimento interiore e così via… ed insomma sia un concetto molto potente.” [28] L’artista americana trova conferma a questa sua convinzione nell’opera Differenza e Ripetizione di Gilles Deleuze, pubblicata nel 1968. Deleuze, insieme a Michel Foucault, diviene il suo punto di riferimento. Ma l’idea della riproduzione dell’arte altrui “non era sicuramente nata dal nulla. Mi sono formata su Nietzsche, Hegel, Spinoza e Schopenhauer, e tutti questi tipi strani. In quegli anni a New York gli espressionisti astratti e gli artisti pop erano molto, molto popolari; gli espressionisti astratti erano tutt’emozione sulla superficie, e gli artisti pop esprimevano la cultura di massa. Tutto ciò mi ha ovviamente indotto a riflettere su quale fosse la sotto-struttura dell’arte. Su quale fosse il potere, il potere silenzioso, dell’arte.” [29]    


Anche per un’altra artista americana della stessa generazione, Nancy Spero (1926-2009), il riferimento obbligato negli anni ‘60 è la filosofia francese: in questo caso l’esistenzialismo. Spero osserva che l’arte di protesta può esprimersi anche senza ricorrere allo scontro, ovvero “nella maniera che descrive la posizione delle donne filosoficamente; come diceva Simone de Beauvoir: non in parallelo, ma in un angolo. L’arte degli uomini è piú polemica, come un botto.” [30]. L’arte esprime resistenza in forme diverse da quella della pura e semplice opposizione, come nel caso della serie Pitture nere (Black Paintings). “È l’epoca di Sartre, ed è arte esistenziale. Queste figure sono l’una attaccata all’altra. Di solito sono un maschio ed una femmina, ma possono essere molte cose: da maschi a femmine, da femmine a maschi.” [31] I dipinti sono prodotti sovrapponendo colori scuri a colori molto chiari: “Ho usato i colori migliori e più belli, ed ho dipinto e ridipinto e sfregato ed i colori sono diventati sempre più grigi e neri. Tanto più sfregavo tanto più apparivano le immagini. Prima dipingevo e poi sfregavo.” [32]    

Con Felix Gonzalez-Torres (1957-1996) si impone invece la figura del filosofo Walter Benjamin e l’impatto sull’arte contemporanea del suo famoso saggio “L’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica”, dove la modernità si identifica con la scomparsa dell’aura dell’opera d’arte. È Benjamin a condurre Felix Gonzalez-Torres all’idea “che l’opera d’arte in realtà non esiste; le opere vengono distrutte, perché non vi è mai un originale” [33]. Dopo l’incontro con gli scritti di Benjamin, Gonzalez-Torres inizia a realizzare pile di fogli di carta che gli spettatori possono staccare e portare con sé, fino all’esaurimento dell’opera. “Quando iniziai a fare queste pile nel 1981, era perché (può sembrare strano) in quegli anni a New York tutti gli artisti lottavano per avere uno spazio sulle pareti; tutti gli spazi sulle pareti erano già riservati. Quando si partecipava ad una mostra collettiva, si finiva per prendersi a pugni per qualche centimetro. Così mi sono detto: al diavolo i muri, farò qualcosa sul pavimento.” [34]


Il sudafricano Ernest Mancoba (1904-2002), un altro dei (quasi) centenari intervistato nel volume, si ribella alla ‘dittatura della filosofia’ nell’arte dell’emisfero settentrionale; a suo avviso la filosofia ha prodotto una divaricazione artificiale tra arte figurativa ed astratta “che provoca , sempre più, una terribile atomizzazione nella vera essenza della vita. In nessun’altra disciplina come nelle arti questa dicotomia sistematica ha prodotto una tale distruzione delle vere fondamenta dell’identità umana, che appartengono alla natura, ma al tempo stesso partecipano all’essenza di un essere ideale. (…) Così abbiamo perso la capacità di unire nella nostra visione gli aspetti esteriori e quelli interiori.” [35]



Sarebbe l’arte africana, invece, a porre un freno alla deriva della dittatura della filosofia nell’arte: “Quando vediamo una scultura africana con, ad esempio, una testa enorme e gambe corte, la consideriamo brutta e la giudichiamo priva di valore. Ma per un artista africano non conta tanto il rispetto di certe regole (anche se anch’egli lavora secondo certi canoni particolari) che possano rendere belle una cosa, ma la capacità dell’opera di evocare l’essenza interiore grazie alla forza del suo aspetto esteriore. Egli usa tutti i mezzi, sia figurativi ed astratti, a tal fine. Quando negli anni della giovinezza ho fatto la Madonna Bantu, ho lavorato utilizzando certi canoni europei o classici che alcuni seguaci della concezione di progresso nell’arte giudicheranno sorpassati. (…) Ma il pubblico, spero, se sono abbastanza fortunato da essere compreso e ascoltato, può sentire che sotto la superficie della muffa classica batte un cuore africano. Si fa così strada lo spirito interno, prima di tutto nell’innovazione assoluta, nel mondo sudafricano, di prendere una donna di colore per rappresentare la Vergine Maria, ed in secondo luogo nel calore di un polso che, sia pure provvisoriamente contenuto nella rigidità dello stile, sottopelle o sulla superficie alza la voce e minaccia di liberarsi.” [36]

Il dialogo fra discipline è anche necessariamente un confronto (anzi, una competizione), con le tecnologie, prima fra tutte la fotografia. Viene da pensare all’antico dibattito sul ‘paragone fra le arti’. I pittori si trovano esposti alla concorrenza della fotografia, ma gli esiti della sfida sono a volte inattesi: è la pittura a vincere.

David Hockney (1937-), il maggiore pittore inglese vivente, afferma, non senza un certo grado d’orgoglio, che “un tempo (…) molti pensavano che la fotografia avrebbe rimpiazzato la pittura. In realtà, la pittura sta conquistando la fotografia.” [37] Hockney è un artista che ha riflettuto moltissimo sul rapporto tra arte e strumenti ottici (ed in particolare sulla camera oscura e la camera lucida), dedicando anni interi allo studio dell’arte fiamminga (Campin, Van Eyck, Wan der Weyden) e seicentesca (Caravaggio, Rembrandt) nel tentativo di scoprire quali accorgimenti ottici gli artisti utilizzassero per catturare e combinare immagini. A questo tema ha dedicato un corposo saggio, dal titolo “Secret Knowledge”, che sarà oggetto di un’analisi separata in questo blog come uno dei maggiori contributi di artisti contemporanei allo studio dell’arte dei secoli precedenti.

Hockney, che pure aveva realizzato a lungo quadri partendo da collages di foto Polaroid, scattate da angolazioni diverse, ed aveva addirittura fatto in seguito sperimentazioni con Photoshop, ad un certo punto decide di chiudere con la fotografia. “La prima mostra che facemmo con le polaroid si chiamava ‘Disegnare con una macchina fotografica [Drawing with a Camera] (…) Infatti ho posto alla fine della mostra i disegni che ho fatto con la camera lucida, in tal modo segnalando la fine dei miei esperimenti con la fotografia. Ero convinto di aver compreso la realtà storica di quel che era successo, e come la macchina fotografica fosse divenuta una parte importante della nostra vita. Ho capito che a quel punto potevo metter via la macchina fotografica. Sai, Van Gogh odiava la fotografia e, se ci pensi, Cézanne e Monet volevano far capire che vedevano le cose in un altro modo. Hai visto la mostra di Picasso e Matisse a Londra [n.d.r. alla Tate Modern nel 2002]? La vidi la prima volta con Lucien Freud e Frank Auerbach. Ci andammo molto presto una mattina, quando era vuota, e ci rimanemmo due ore. Era meravigliosa. Mentre stavamo uscendo dalla mostra attraverso l’uscita sul retro del museo, vi erano quattro grandi fotografie – probabilmente acquisizioni recenti – appese sul muro. Lucien Freud e Frank Auerbach le oltrepassarono senza guardarle, ma io mi fermai e pensai tra me e me: bene, queste fotografie fanno sembrare il mondo terribilmente noioso, mentre Picasso e Matisse lo hanno fatto vedere come terribilmente interessante. Io preferisco l’emozione. Le fotografie erano recenti, e ciò implica che stiamo facendo passi all’indietro; non comprendiamo più che cosa è la fotografia o che cosa ha realizzato nel passato. Capisci quel che voglio dire? Se intendi la storia in modo un po’ diverso, puoi fare ritorno alla pittura con una fiducia incredibile. Gli argomenti sulla morte della pittura non mi interessano più. Io penso che sia la fotografia a morire o almeno a cambiare. Con Photoshop la fotografia sta diventando più simile alla pittura.” [38]

Sul tema del rapporto tra pittura e fotografia (in un contesto storico che richiama i maestri del passato) Obrist discute anche con Gerhard Richter (1932-), il maggiore dei pittori tedeschi viventi, che ha sperimentato nuove tecniche, tra le quali quella di dipingere sopra una fotografia. Il curatore svizzero avvia la conversazione: “Tu parli anche della fotografia come disegno – o, come la camera oscura, che Vermeer ha utilizzato – nel senso che costituisce una fase preliminare nella realizzazione di un quadro. Si inverte in tal modo il primato della fotografia, di cui si pensava che avesse dato la nascita al modernismo infrangendo le barriere. Tu invece usi semplicemente la fotografia per fare un quadro, quindi come cosa del tutto ovvia.” Risponde Richter: “È il primo passaggio nella pratica tradizionale della pittura. Nel passato i pittori andavano all’aperto e facevano degli schizzi. Noi prendiamo delle istantanee. È anche per contrastare la tendenza a prendere la fotografia troppo sul serio.” [39]       

Gli artisti vivono comunque nel loro tempo, e necessariamente si confrontano con gli strumenti dell’elettronica che permeano la nostra società. Hockney, per esempio, spiega che, prima di dipingere, realizza un disegno, ne produce una scansione elettronica che può ingrandire fino a raggiungere dimensioni molto ampie, e infine dipinge sopra la scansione elettronica ingrandita. “Sì, ovviamente usiamo le tecnologie, ma non facciamo vedere che le usiamo. [Mostrando un’enorme tela:] Insomma, per fare quel dipinto così grande ho avuto bisogno del computer, altrimenti non avrei potuto. Ma ricordati: quella pittura così grande è stata tutta fatta dalla mia mano. Nessun altro ha dipinto il quadro.” [40]

La coppia di artisti Gilbert Prousch (1943 -) e George Passmore (1942-), universalmente nota come 'Gilbert and George', racconta come l’universalizzazione della tecnologia informatica abbia cambiato completamente il loro modo di lavorare. George spiega: “Sì, utilizziamo [l’elettronica] per continuare la nostra arte. Ci saranno cambiamenti, come ci sono sempre stati nella nostra arte. Quando iniziammo a fare quadri nel 1969, avevamo uno studio ed attrezzi completamente diversi. Ma poi abbiamo cambiato tutto e dopo due anni abbiamo cambiato ancora, e poi abbiamo introdotto il colore e di nuovo cambiato l’attrezzatura. E adesso questa è una nuova fase.” Gilbert aggiunge: “Crediamo sia un’altra tecnologia per consentirci di esprimerci in modo più veloce. Normalmente quando realizziamo un pezzo, è talmente difficile e artigianale, che forse (con la tecnologia) potremmo ridurre il lavoro di alcune ore e creare più immagini. Sarebbe straordinario. (…) Abbiamo sempre avuto l’idea di proiettare le nostre idee direttamente dai nostri cervelli sul muro. Ed ora siamo quasi nelle  condizioni di farlo. Questa sarebbe la macchina perfetta per noi.” [41] E aggiunge, per spiegare le soluzioni da loro adottate odiernamente: “Adesso scegliamo l’immagine e ne produciamo una scansione elettronica invece di proiettarla con un ingranditore. Questa è la grande differenza. Dopo aver scannerizzato l’immagine, con essa si può fare quel che si vuole. Ovviamente, eravamo in grado di fare determinate cose con l’ingranditore, ma con molti limiti. Adesso, una volta che hai estratto l’immagine, puoi farne quello che vuoi. Una volta coloravamo con uno strato di giallo o rosso. Ma adesso il computer produce qualsiasi strato – sembra sia stato disegnato specialmente per noi. Tuttavia noi ne produciamo solamente una copia, e solamente il pezzo reale è firmato, e così è fatta. In un certo senso (…) è come scrivere con immagini ed è molto personale. I negativi sono come parole – parole visive che vengono messe insieme per creare una storia.[42]

Fine della Parte Seconda
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NOTE

[8] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, Lives of the Architects, 2015, Allen Lane. Citazione a p. 69.

[9] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 65.

[10] Si veda http://iltempodelpostino.com/. L’opera dura tre ore.

[11] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 63.

[12] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 360.

[13] Già citata nella prima parte di questo post. Si veda anche Francesco Mazzaferro, Il dialogo tra un filosofo e un pittore:Jean-François Lyotard e Jacques Monory. Parte Seconda. Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 53.

[14] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 55.

[15] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 367.

[16] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 438.

[17] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 439.

[18] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 439.

[19] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 440.

[20] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 261.

[21] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 255.

[22] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 255.

[23] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 256.

[24] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 50.

[25] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 50.

[26] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 51.

[27] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 445.

[28] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 84.

[29] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, pp. 85-86.

[30] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 324.

[31] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 324.

[32] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 325.

[33] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 114.

[34] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 113.

[35] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 104.

[36] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, pp. 104-105.

[37] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 39.

[38] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 33-34.

[39] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, pp. 159-160.

[40] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 36.

[41] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 189.

[42] Obrist, Hans Ulrich - Lives of the Artists, quoted, p. 216.


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