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Cosimo Bartoli
(1503-1572)
Parte Seconda
Atti del Convegno internazionale
Mantova, 18-19 novembre – Firenze, 20 novembre 2009
A cura di Francesco Paolo Fiore e Daniela Lamberini
Firenze, Leo S. Olschki, 2011
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Cosimo Bartoli, Del modo di superare le distantie..., Venezia, Francesco de Franceschi, 1564 Fonte: http://brunelleschi.imss.fi.it/mediciscienze/imed.asp?c=70035 |
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N.B. SU COSIMO BARTOLI SI VEDA ANCHE: Giovanni Mazzaferro, Libri rari e belle scoperte: il De Architectura di Vitruvio postillato da Cosimo Bartoli
SU DANIELA LAMBERINI SI VEDA ANCHE: Daniela Lamberini, Il Sanmarino. Giovan Battista Belluzzi architetto militare e trattatista del Cinquecento
Daniela Lamberini, ‘Sic virtus’. Il codice di macchine di
Cosimo Bartoli
Con l’indicazione ‘ Codice di macchine’ Lamberini intende il
manoscritto E.B.16.5 vol. II conservato presso la Biblioteca Nazionale di
Firenze e intitolato (con nome attribuito probabilmente nel 1700) “Raccolta di
varie macchine e disegni di vasi antichi”. Il manoscritto (anonimo) è composto
di 270 pagine. Di queste, in realtà, solo le ultime due carte presentano una
serie di vasi. Il manoscritto è una raccolta di macchine: vi compaiono 235
disegni, in rarissimi casi (26) accompagnati da testi, diciture, numerazioni.
Le pagine scritte per intero sono tre. Vi sono invece 76 pagine lasciate in
bianco, destinate molto probabilmente ad accogliere proprio i testi
illustrativi delle apparecchiature presentate. L’esistenza del manoscritto è
nota dal 1980 e a partire dal 1991 Daniela Lamberini lo ha attribuito al Bartoli
sulla base della comparazione della calligrafia e dei disegni, che appaiono
tutti eseguiti da unica mano. Per Lamberini il manoscritto costituisce un
progetto, redatto attorno al 1567-1568 (quindi nel periodo finale della
permanenza di Bartoli a Venezia e, soprattutto, negli ultimi anni della sua
vita), per un manuale di meccanica applicata. C’è da aggiungere un ulteriore
elemento. Il manoscritto è conservato alla Biblioteca Nazionale, ma giunge
dalla Biblioteca Palatina. È estremamente probabile che sia arrivato nelle mani
di Francesco de’ Medici alla morte del Bartoli (o immediatamente prima). Fatto
sta che, una volta in possesso del codice, il Granduca diede incarico di
trasferirlo in bella copia. A occuparsi del progetto fu Bernardo Puccini, che fu
l’autore dei testi di commento alle macchine presenti in un nuovo manoscritto,
il Palatino 1077 della Biblioteca Nazionale di Firenze [9]. Lamberini ha avuto
modo di verificare che ben 189 disegni del Palatino 1077 sono copiati in realtà
dal manoscritto di Bartoli. Anche in questo caso, tuttavia, il progetto non fu
portato a compimento per la morte del Puccini (1575).
Si diceva che il “Codice di macchine” è un trattato
incompleto di meccanica applicata. Così l’autrice del saggio parla della sua
funzione: “Pur incompiuta, questa sontuosa raccolta di macchine risponde
appieno alla duplice esigenza tutta cinquecentesca di rifare la machinatio degli antichi, includendo
accanto alle macchine del repertorio classico le invenzioni moderne. Il ricco
prontuario tecnico doveva servire da fonte d’ispirazione per gli studiosi,
matematici in primis […], e per gli artefici tutti: artisti, architetti e
ingegneri che, seguendo l’auctoritas
degli Antichi, venivano esortati ad emulare gli exempla. Ma al contempo, e soprattutto nel nostro caso, serviva da
dotto esercizio intellettuale per il sovrano e per i suoi gentiluomini,
naturali committenti; i quali per esercitare la Virtù confacente all’«huomo
nobile» avevano l’obbligo di conoscere, se non la fabbricazione, compito specifico
dei tecnici, certamente i principi meccanici di tali macchine, e apprenderne
con l’utilizzo i vantaggi politici e finanziari che esse potevano offrire in
termini d’investimento economico” (p. 211).
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Cosimo Bartoli, Codice di macchine Fonte: http://brunelleschi.imss.fi.it/mediciscienze/imed.asp?c=70073 |
Ciò non toglie che la raccolta dei disegni bartoliani sia
per buona parte una compilazione di modelli altrui. Il manoscritto può essere
suddiviso in prima istanza in tre parti: la prima contiene 43 disegni di mulini
e frantoi; la seconda parte riguarda macchine idrauliche destinate ad
attingere, sollevare e distribuire l’acqua; l’ultima propone 99 macchine da
cantiere. La maggior parte delle macchine proposte sono destinate ad essere
utilizzate con l’ausilio dell’acqua o a sollevare masse idrauliche (p. 160). La
prima e la terza parte dei disegni bartoliani hanno una fonte ben precisa,
ovvero il codice Saluzziano 148 di Francesco di Giorgio Martini. Come noto sin dall’edizione curata nel 1967 da Corrado Maltese [10] i manoscritti di
Francesco di Giorgio testimoniano un Trattato I e un Trattato II. Il Trattato
I, a sua volta, ci è giunto in due esemplari (che sono due copie da un
originale smarrito), il Saluzziano 148 e l’Ashburnham 361. Lamberini ritiene
appunto che Bartoli abbia potuto disporre di un esemplare molto simile al
Saluzziano 148. La fonte delle macchine bartoliane sarebbe dunque
sostanzialmente senese. Va però aggiunto che il Codice di macchine presenta anche una ventina di disegni che paiono
copiati dallo Zibaldone di Bonaccorso
Ghiberti (padre di Lorenzo Ghiberti). Bartoli lo aveva ricevuto dal padre, che
a sua volta lo aveva avuto in dono da un erede dei Ghiberti [11]. Lo Zibaldone è “un tipico taccuino di
bottega, redatto nel corso degli ultimi decenni del Quattrocento, nel quale,
come indica il nome, sono annotati alla rinfusa progetti e disegni di
architettura, di monumenti funerari, di macchine da cantiere, soprattutto
quelle usate da Filippo Brunelleschi per la cupola della cattedrale fiorentina
di Santa Maria del Fiore” (p. 169).
È la seconda parte del codice, quella relativa alle macchine
destinate a spostare e a sollevare acqua che mostra il livello maggiore di
originalità. Sia chiaro: Bartoli non “inventa” macchine; ma, in questo caso non
attinge ai disegni di Francesco di Giorgio né ad altri di codici a noi noti,
provvedendo quindi personalmente a una raccolta di modelli tratti dal vero che
vanno da dispositivi di chiara origine fiorentina ad altri utilizzati
sicuramente a Venezia o nell’entroterra veneto. Lamberini nota peraltro (p.
194) che alcune macchine disegnate da Cosimo corrispondono ad apparecchiature
descritte (ma non disegnate) da Giuseppe Ceredi nel trattato Modo d’alzar acque da luoghi bassi,
pubblicato a Parma nel 1567, e trae da quest’osservazione un’ulteriore motivo
per datare la redazione del Codice di
macchine bartoliano al 1567-1568.
Parte terza: L’ambiente accademico e le corti
Cesare Vasoli,
L’‘ingratitudine della plebe’ e la caduta dei ‘principi’ nei Ragionamenti [sic] historici universali di
Cosimo Bartoli
Margaret Daly Davis,
Carlo Lenzoni’s In difesa della lingua fiorentina,
e di Dante and the literary and artistic world of Cosimo Bartoli and the
Accademia Fiorentina
Il frontespizio dell'opera Fonte: Google Books |
In difesa della lingua
fiorentina, e di Dante è uno di quei casi in cui Bartoli svolge il ruolo di
editor, dedicandosi alla
pubblicazione di un’opera altrui. Il compito, assolto nel 1556, è in realtà
determinato da circostanze tragiche. Lenzoni lavora all’opera, ma non riesce a
concluderla perché muore prima; sul letto di morte affida a Pierfrancesco
Giambullari il compito di procedere alla pubblicazione; se non che anche
Giambullari passa a miglior vita nel 1555 senza aver adempiuto all’impegno.
Ecco allora che il testimone viene raccolto da Bartoli che, l’anno dopo, fa
pubblicare il testo, chiaramente da inserire nell’ambito della “questione
nazionale della lingua” e rivolto a sostenere il partito fiorentino rispetto a
quello patavino del Bembo. Lenzoni, Giambullari, Bartoli sono tutti membri
dell’Accademia Fiorentina e sono tutti accomunati dall’aver svolto un’attività
di revisione della prima edizione delle Vite vasariane, edite dal Torrentino nel 1550. La loro, insomma, è un’amicizia
profonda, che Bartoli si trova a dover rimpiangere nella dedica che scrive a
Cosimo quando stampa il libro nel 1556. Non sappiamo esattamente in che misura
l’attività di revisione delle Vite
abbia coinvolto i tre [12]. Una cosa è certa: non appare una coincidenza che il
frontespizio delle Vite e quello
della Difesa della lingua fiorentina
sia identico [13].
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Frontespizio delle Vite del Vasari (edizione torrentiniana, 1550) |
L’interesse per la Difesa
non si esaurisce tuttavia in vicende di natura tipografica. Nell’opera i
riferimenti all’arte sono pochi, ma appaiono essere stati trascurati. La Difesa si suddivide in tre dialoghi (o
giornate, perché si svolgono in giorni diversi) in cui a confrontarsi sono
fautori del partito fiorentino da un lato (Lenzoni stesso, Giambullari e
Giambattista Gelli) e figure legate al mondo di Padova (e quindi petrarchesco e
bembiano). In particolare il punto di vista padovano è sostenuto da un generico
“Signor Licentiado” che stranamente assume un soprannome di derivazione
spagnola. Quando Lenzoni muore, è a poco più di metà dell’opera: ha scritto la
prima giornata e mezza, mentre l’ultimo dialogo (il terzo) è a uno stadio di
puro canovaccio. Giambullari opera una scelta ineccepibile:
lascia inalterato il testo di Lenzoni, completa il secondo dialogo rendendo
esplicite le parti in cui interviene e scrive la dedica. Quest’ultima è
indirizzata a Michelangelo, come “infinite volte” il Lenzoni gli aveva mostrato
di voler fare. Partendo dalla consueta constatazione che la pittura è muta
poesia e la poesia pittura che parla, ovvero che le due arti sono
sostanzialmente simili, Giambullari (ma in realtà Lenzoni) ritiene che solo
Michelangelo, in grado di eccellere nell’una e nell’altra arte, possa essere meritevole
della dedica di un’opera che è volta all’esaltazione di un grandissimo come
Dante. È il mito di Michelangelo che si è concretizzato a Firenze e che già si
è manifestato nelle Vite vasariane.
Frontespizio della traduzione italiana delle Historiae di Paolo Giovio (1551). Cfr. nota 13 Fonte: Google Books |
Vorrei segnalare un altro aspetto che (forse) spiega l’influenza
che la Difesa ebbe sulla precisazione
del discorso storiografico di Vasari nella seconda edizione delle Vite. Nel dialogo secondo, il Signor
Licentiado introduce una domanda che sta a metà fra l’argomento artistico e
quello letterario: io, da letterato, mi preoccupo di imitare Petrarca piuttosto
che Dante; cosa direste se fossi un pittore ed oggi mi rivolgessi ad imitare
Giotto, stranamente lodato dal Vasari, piuttosto che Raffaello? [14] Vasari
probabilmente lesse questa obiezione, e altrettanto probabilmente se ne ricordò
in sede di redazione della Giuntina (1568), perché nell’epilogo dell’opera
inserì un avviso ai lettori di una ventina di righe in cui spiega le sue lodi
nei confronti di determinati artisti (e – uno per tutti - cita Giotto) che
alcuni avevano trovate eccessive. La risposta di Vasari, nella sostanza, è che
bisogna storicizzare il tutto, e che gli encomi spesi per Giotto sono quelli
rivolti a un artista che visse nel Trecento; sicuramente non sarebbero stati
tali se Giotto fosse vissuto ai tempi di Michelangelo. Potrebbe trattarsi di
una coincidenza, ma l’impressione che l’aretino stia rispondendo dodici anni
dopo al Signor Licentiado è davvero forte.
Alessandro Cecchi,
Bartoli, Borghini e Vasari nei lavori di Palazzo Vecchio
Fabian Jonietz, The semantics of recycling. Cosimo
Bartoli’s Invenzioni for Giovan
Battista Ricasoli
Parte quarta: Bartoli, le arti e gli artisti
Thomas Frangenberg, Cosimo Bartoli as art
theorist
Charles Davis, Cosimo Bartoli and Michelangelo:
family, friends, academicians, art history, architecture
Henk Th. van Veen, A Response to Rome: Cosimo
Bartoli’s Capriccio ‘The Life of Man’ and the façade of Palazzo Almeni
Alessandro Nova, Conclusione.
NOTE
[9] Per il ruolo di Puccini si veda in questo blog la
recensione a Daniela Lamberini, Il principe difeso. Vita e opere di Bernardo Puccini, Firenze, La Giuntina
1990.
[10] Si veda in questo blog Francesco di Giorgio Martini, Trattati d'architettura ingegneria e arte militare, a cura di Corrado Maltese. Milano, Il Polifilo, 1967.
[11] Questo il motivo per cui Bartoli si trovò anche a
possedere un esemplare manoscritto dei Commentarii di Lorenzo Ghiberti. Si veda
la recensione all’opera in questo blog.
[12] Per la pubblicazione delle Vite torrentiniane si veda
in questo blog Barbara Agosti. 'GiorgioVasari. Luoghi e tempi delle Vite'. Milano, Officina Libraria, 2013.
[13] A questo proposito mi permetto di segnalare un dato che
a Daly Davis sfugge e che invece fa presente Barbara Agosti in Paolo Giovio. Uno storico lombardo nellacultura artistica del Cinquecento, Leo S. Olschki, 2008. Anche la prima
traduzione italiana (operata da Ludovico Domenichi) delle Historiae di Paolo Giovio, pubblicata sempre dal Torrentino nel
1551, ha il frontespizio identico alle Vite.
Ancora una volta il trattamento è riservato a Giovio, altra figura fondamentale
per la pubblicazione della fatica vasariana. Sono dunque (almeno) tre le
pubblicazioni con lo stesso frontespizio: Vite
vasariane (1550), Historiae gioviane
(1551) e Difesa del Lenzoni (1556).
Sicché c’è veramente da chiedersi (ed è una domanda suggestiva) se ci sia una
regia (vasariana? bartoliana?) dietro questa politica, o se invece, molto più
semplicemente, si tratti di una scelta di natura economica operata dallo stampatore
e volta a diminuire i costi
[14] La domanda è occasione per Daly Davis per sviluppare un
discorso sulla figura retorica della comparazione applicata alle arti che – in
tutta onestà – non mi convince, ma a cui ovviamente rimando (pp. 274-275).
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