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venerdì 22 gennaio 2016

Cosimo Bartoli (1503-1572). A cura di Francesco Paolo Fiore e Daniela Lamberini. Parte Seconda


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Cosimo Bartoli
(1503-1572)

Parte Seconda

Atti del Convegno internazionale
Mantova, 18-19 novembre – Firenze, 20 novembre 2009

A cura di Francesco Paolo Fiore e Daniela Lamberini

Firenze, Leo S. Olschki, 2011


Cosimo Bartoli, Del modo di superare le distantie..., Venezia, Francesco de Franceschi, 1564
Fonte: http://brunelleschi.imss.fi.it/mediciscienze/imed.asp?c=70035


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Daniela Lamberini, ‘Sic virtus’. Il codice di macchine di Cosimo Bartoli

Con l’indicazione ‘ Codice di macchine’ Lamberini intende il manoscritto E.B.16.5 vol. II conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze e intitolato (con nome attribuito probabilmente nel 1700) “Raccolta di varie macchine e disegni di vasi antichi”. Il manoscritto (anonimo) è composto di 270 pagine. Di queste, in realtà, solo le ultime due carte presentano una serie di vasi. Il manoscritto è una raccolta di macchine: vi compaiono 235 disegni, in rarissimi casi (26) accompagnati da testi, diciture, numerazioni. Le pagine scritte per intero sono tre. Vi sono invece 76 pagine lasciate in bianco, destinate molto probabilmente ad accogliere proprio i testi illustrativi delle apparecchiature presentate. L’esistenza del manoscritto è nota dal 1980 e a partire dal 1991 Daniela Lamberini lo ha attribuito al Bartoli sulla base della comparazione della calligrafia e dei disegni, che appaiono tutti eseguiti da unica mano. Per Lamberini il manoscritto costituisce un progetto, redatto attorno al 1567-1568 (quindi nel periodo finale della permanenza di Bartoli a Venezia e, soprattutto, negli ultimi anni della sua vita), per un manuale di meccanica applicata. C’è da aggiungere un ulteriore elemento. Il manoscritto è conservato alla Biblioteca Nazionale, ma giunge dalla Biblioteca Palatina. È estremamente probabile che sia arrivato nelle mani di Francesco de’ Medici alla morte del Bartoli (o immediatamente prima). Fatto sta che, una volta in possesso del codice, il Granduca diede incarico di trasferirlo in bella copia. A occuparsi del progetto fu Bernardo Puccini, che fu l’autore dei testi di commento alle macchine presenti in un nuovo manoscritto, il Palatino 1077 della Biblioteca Nazionale di Firenze [9]. Lamberini ha avuto modo di verificare che ben 189 disegni del Palatino 1077 sono copiati in realtà dal manoscritto di Bartoli. Anche in questo caso, tuttavia, il progetto non fu portato a compimento per la morte del Puccini (1575).

Si diceva che il “Codice di macchine” è un trattato incompleto di meccanica applicata. Così l’autrice del saggio parla della sua funzione: “Pur incompiuta, questa sontuosa raccolta di macchine risponde appieno alla duplice esigenza tutta cinquecentesca di rifare la machinatio degli antichi, includendo accanto alle macchine del repertorio classico le invenzioni moderne. Il ricco prontuario tecnico doveva servire da fonte d’ispirazione per gli studiosi, matematici in primis […], e per gli artefici tutti: artisti, architetti e ingegneri che, seguendo l’auctoritas degli Antichi, venivano esortati ad emulare gli exempla. Ma al contempo, e soprattutto nel nostro caso, serviva da dotto esercizio intellettuale per il sovrano e per i suoi gentiluomini, naturali committenti; i quali per esercitare la Virtù confacente all’«huomo nobile» avevano l’obbligo di conoscere, se non la fabbricazione, compito specifico dei tecnici, certamente i principi meccanici di tali macchine, e apprenderne con l’utilizzo i vantaggi politici e finanziari che esse potevano offrire in termini d’investimento economico” (p. 211).


Cosimo Bartoli, Codice di macchine
Fonte: http://brunelleschi.imss.fi.it/mediciscienze/imed.asp?c=70073

Ciò non toglie che la raccolta dei disegni bartoliani sia per buona parte una compilazione di modelli altrui. Il manoscritto può essere suddiviso in prima istanza in tre parti: la prima contiene 43 disegni di mulini e frantoi; la seconda parte riguarda macchine idrauliche destinate ad attingere, sollevare e distribuire l’acqua; l’ultima propone 99 macchine da cantiere. La maggior parte delle macchine proposte sono destinate ad essere utilizzate con l’ausilio dell’acqua o a sollevare masse idrauliche (p. 160). La prima e la terza parte dei disegni bartoliani hanno una fonte ben precisa, ovvero il codice Saluzziano 148 di Francesco di Giorgio Martini. Come noto sin dall’edizione curata nel 1967 da Corrado Maltese [10] i manoscritti di Francesco di Giorgio testimoniano un Trattato I e un Trattato II. Il Trattato I, a sua volta, ci è giunto in due esemplari (che sono due copie da un originale smarrito), il Saluzziano 148 e l’Ashburnham 361. Lamberini ritiene appunto che Bartoli abbia potuto disporre di un esemplare molto simile al Saluzziano 148. La fonte delle macchine bartoliane sarebbe dunque sostanzialmente senese. Va però aggiunto che il Codice di macchine presenta anche una ventina di disegni che paiono copiati dallo Zibaldone di Bonaccorso Ghiberti (padre di Lorenzo Ghiberti). Bartoli lo aveva ricevuto dal padre, che a sua volta lo aveva avuto in dono da un erede dei Ghiberti [11]. Lo Zibaldone è “un tipico taccuino di bottega, redatto nel corso degli ultimi decenni del Quattrocento, nel quale, come indica il nome, sono annotati alla rinfusa progetti e disegni di architettura, di monumenti funerari, di macchine da cantiere, soprattutto quelle usate da Filippo Brunelleschi per la cupola della cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore” (p. 169).

È la seconda parte del codice, quella relativa alle macchine destinate a spostare e a sollevare acqua che mostra il livello maggiore di originalità. Sia chiaro: Bartoli non “inventa” macchine; ma, in questo caso non attinge ai disegni di Francesco di Giorgio né ad altri di codici a noi noti, provvedendo quindi personalmente a una raccolta di modelli tratti dal vero che vanno da dispositivi di chiara origine fiorentina ad altri utilizzati sicuramente a Venezia o nell’entroterra veneto. Lamberini nota peraltro (p. 194) che alcune macchine disegnate da Cosimo corrispondono ad apparecchiature descritte (ma non disegnate) da Giuseppe Ceredi nel trattato Modo d’alzar acque da luoghi bassi, pubblicato a Parma nel 1567, e trae da quest’osservazione un’ulteriore motivo per datare la redazione del Codice di macchine bartoliano al 1567-1568.


Parte terza: L’ambiente accademico e le corti

Cesare Vasoli, L’‘ingratitudine della plebe’ e la caduta dei ‘principi’ nei Ragionamenti [sic] historici universali di Cosimo Bartoli

Margaret Daly Davis, Carlo Lenzoni’s In difesa della lingua fiorentina, e di Dante and the literary and artistic world of Cosimo Bartoli and the Accademia Fiorentina


Il frontespizio dell'opera
Fonte: Google Books


In difesa della lingua fiorentina, e di Dante è uno di quei casi in cui Bartoli svolge il ruolo di editor, dedicandosi alla pubblicazione di un’opera altrui. Il compito, assolto nel 1556, è in realtà determinato da circostanze tragiche. Lenzoni lavora all’opera, ma non riesce a concluderla perché muore prima; sul letto di morte affida a Pierfrancesco Giambullari il compito di procedere alla pubblicazione; se non che anche Giambullari passa a miglior vita nel 1555 senza aver adempiuto all’impegno. Ecco allora che il testimone viene raccolto da Bartoli che, l’anno dopo, fa pubblicare il testo, chiaramente da inserire nell’ambito della “questione nazionale della lingua” e rivolto a sostenere il partito fiorentino rispetto a quello patavino del Bembo. Lenzoni, Giambullari, Bartoli sono tutti membri dell’Accademia Fiorentina e sono tutti accomunati dall’aver svolto un’attività di revisione della prima edizione delle Vite vasariane, edite dal Torrentino nel 1550. La loro, insomma, è un’amicizia profonda, che Bartoli si trova a dover rimpiangere nella dedica che scrive a Cosimo quando stampa il libro nel 1556. Non sappiamo esattamente in che misura l’attività di revisione delle Vite abbia coinvolto i tre [12]. Una cosa è certa: non appare una coincidenza che il frontespizio delle Vite e quello della Difesa della lingua fiorentina sia identico [13].


Frontespizio delle Vite del Vasari (edizione torrentiniana, 1550)

L’interesse per la Difesa non si esaurisce tuttavia in vicende di natura tipografica. Nell’opera i riferimenti all’arte sono pochi, ma appaiono essere stati trascurati. La Difesa si suddivide in tre dialoghi (o giornate, perché si svolgono in giorni diversi) in cui a confrontarsi sono fautori del partito fiorentino da un lato (Lenzoni stesso, Giambullari e Giambattista Gelli) e figure legate al mondo di Padova (e quindi petrarchesco e bembiano). In particolare il punto di vista padovano è sostenuto da un generico “Signor Licentiado” che stranamente assume un soprannome di derivazione spagnola. Quando Lenzoni muore, è a poco più di metà dell’opera: ha scritto la prima giornata e mezza, mentre l’ultimo dialogo (il terzo) è a uno stadio di puro canovaccio. Giambullari opera una scelta ineccepibile: lascia inalterato il testo di Lenzoni, completa il secondo dialogo rendendo esplicite le parti in cui interviene e scrive la dedica. Quest’ultima è indirizzata a Michelangelo, come “infinite volte” il Lenzoni gli aveva mostrato di voler fare. Partendo dalla consueta constatazione che la pittura è muta poesia e la poesia pittura che parla, ovvero che le due arti sono sostanzialmente simili, Giambullari (ma in realtà Lenzoni) ritiene che solo Michelangelo, in grado di eccellere nell’una e nell’altra arte, possa essere meritevole della dedica di un’opera che è volta all’esaltazione di un grandissimo come Dante. È il mito di Michelangelo che si è concretizzato a Firenze e che già si è manifestato nelle Vite vasariane.


Frontespizio della traduzione italiana delle Historiae di Paolo Giovio (1551). Cfr. nota 13
Fonte: Google Books

Vorrei segnalare un altro aspetto che (forse) spiega l’influenza che la Difesa ebbe sulla precisazione del discorso storiografico di Vasari nella seconda edizione delle Vite. Nel dialogo secondo, il Signor Licentiado introduce una domanda che sta a metà fra l’argomento artistico e quello letterario: io, da letterato, mi preoccupo di imitare Petrarca piuttosto che Dante; cosa direste se fossi un pittore ed oggi mi rivolgessi ad imitare Giotto, stranamente lodato dal Vasari, piuttosto che Raffaello? [14] Vasari probabilmente lesse questa obiezione, e altrettanto probabilmente se ne ricordò in sede di redazione della Giuntina (1568), perché nell’epilogo dell’opera inserì un avviso ai lettori di una ventina di righe in cui spiega le sue lodi nei confronti di determinati artisti (e – uno per tutti - cita Giotto) che alcuni avevano trovate eccessive. La risposta di Vasari, nella sostanza, è che bisogna storicizzare il tutto, e che gli encomi spesi per Giotto sono quelli rivolti a un artista che visse nel Trecento; sicuramente non sarebbero stati tali se Giotto fosse vissuto ai tempi di Michelangelo. Potrebbe trattarsi di una coincidenza, ma l’impressione che l’aretino stia rispondendo dodici anni dopo al Signor Licentiado è davvero forte.

Alessandro Cecchi, Bartoli, Borghini e Vasari nei lavori di Palazzo Vecchio

Fabian Jonietz, The semantics of recycling. Cosimo Bartoli’s Invenzioni for Giovan Battista Ricasoli


Parte quarta: Bartoli, le arti e gli artisti

Thomas Frangenberg, Cosimo Bartoli as art theorist

Charles Davis, Cosimo Bartoli and Michelangelo: family, friends, academicians, art history, architecture

Henk Th. van Veen, A Response to Rome: Cosimo Bartoli’s Capriccio ‘The Life of Man’ and the façade of Palazzo Almeni



Alessandro Nova, Conclusione.


NOTE

[9] Per il ruolo di Puccini si veda in questo blog la recensione a Daniela Lamberini, Il principe difeso. Vita e opere di Bernardo Puccini, Firenze, La Giuntina 1990.

[10] Si veda in questo blog Francesco di Giorgio Martini, Trattati d'architettura ingegneria e arte militare, a cura di Corrado Maltese. Milano, Il Polifilo, 1967.

[11] Questo il motivo per cui Bartoli si trovò anche a possedere un esemplare manoscritto dei Commentarii di Lorenzo Ghiberti. Si veda la recensione all’opera in questo blog.

[12] Per la pubblicazione delle Vite torrentiniane si veda in questo blog Barbara Agosti. 'GiorgioVasari. Luoghi e tempi delle Vite'. Milano, Officina Libraria, 2013.

[13] A questo proposito mi permetto di segnalare un dato che a Daly Davis sfugge e che invece fa presente Barbara Agosti in Paolo Giovio. Uno storico lombardo nellacultura artistica del Cinquecento, Leo S. Olschki, 2008. Anche la prima traduzione italiana (operata da Ludovico Domenichi) delle Historiae di Paolo Giovio, pubblicata sempre dal Torrentino nel 1551, ha il frontespizio identico alle Vite. Ancora una volta il trattamento è riservato a Giovio, altra figura fondamentale per la pubblicazione della fatica vasariana. Sono dunque (almeno) tre le pubblicazioni con lo stesso frontespizio: Vite vasariane (1550), Historiae gioviane (1551) e Difesa del Lenzoni (1556). Sicché c’è veramente da chiedersi (ed è una domanda suggestiva) se ci sia una regia (vasariana? bartoliana?) dietro questa politica, o se invece, molto più semplicemente, si tratti di una scelta di natura economica operata dallo stampatore e volta a diminuire i costi

[14] La domanda è occasione per Daly Davis per sviluppare un discorso sulla figura retorica della comparazione applicata alle arti che – in tutta onestà – non mi convince, ma a cui ovviamente rimando (pp. 274-275).

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